“Il Comunismo era la fratellanza … Poi quando finì il Comunismo cominciò il disastro. Prima nessuno avrebbe osato dire “Vattene via, zingaro!”. (Sejdo, rom jugoslavo. Roma, Casilino 700)
Circa vent’anni fa un altro esodo, più contenuto nei numeri di quello che oggi ci preme ai confini, attraversò le frontiere d’Europa. Fomentata dalla Germania, benedetta dal Vaticano e conclusa con i bombardamenti della NATO, la disgregazione della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia generava in quegli anni, insieme ad altri lutti, una nuova diaspora rom.
Nel calendario della destabilizzazione era arrivato il turno dei Balcani, prima che toccasse all’Afghanistan, all’Iraq, alla Libia, all’Ucraina, alla Siria. Anche allora, sul fuoco dei conflitti interni soffiavano interessi potenti. La Germania unita necessitava di un proprio cortile di casa, un ampliamento dell’area del marco. La NATO spingeva per l’espansione ad est. Anche allora la prospettiva di causare migliaia di morti e di profughi era una preoccupazione del tutto secondaria.
La guerra civile jugoslava, preceduta da un’escalation di violenza razzista, rappresentò per i rom quello che lo scrittore Rajko Djuric definì come “il nostro secondo olocausto”. In Bosnia i rom subirono gli arruolamenti forzati nelle milizie serbe o nell’esercito bosniaco, i massacri delle ‘Tigri di Arkan’, l’esproprio delle loro case e terre, condotto all’unanimità da tutte le fazioni in lotta1.
Poi seguì il Kosovo. Ricordate ? “Solo chi non ha guardato negli occhi un bambino kosovaro è contrario all’intervento militare”, esclamava Fassino a quei tempi, quando, da ministro della difesa, annunciava i bombardamenti a supporto dei separatisti albanesi.
Dopo la guerra, nel Kosovo ‘liberato’, si stimò che la presenza della comunità rom fosse calata del 75 % rispetto a prima del conflitto2. A Pristina e Mitrovica l’Uck distrusse interi quartieri dei rom (guarda il video qui), ma sui loro bambini oggetto di pulizia etnica nessuno (tantomeno Fassino) disse niente3.
La guerra contro i rom jugoslavi non finì con i trattati. La Bosnia-Erzegovina, una volta indipendente, ne ratificò la discriminazione all’interno del proprio ordinamento4. La Slovenia rese apolidi migliaia di rom, privandoli del diritto alla casa, al lavoro, all’istruzione e all’assistenza sanitaria. Nel 2007 la politica razzista di Lubiana favorì il dilagare di assalti e aggressioni antizigane5. In Kosovo i rom superstiti vennero concentrati in un campo profughi in un territorio fortemente contaminato da piombo6.
La costruzione del ‘nomade’
Fra le migliaia di rom jugoslavi che arrivarono in Italia negli anni ’90, i più fortunati rimediarono un provvedimento di protezione temporanea per pochi mesi, e una volta scaduti i termini diventarono a tutti gli effetti clandestini7. Gli altri, visto che erano rom, vennero classificati direttamente come nomadi, non come profughi di guerra o vittime di persecuzione.
Non, dunque, persone assolutamente stanziali8 che nel loro paese d’origine erano state depredate di tutto e a cui veniva negata ogni possibilità di ritorno, ma gente che abitualmente girava per l’Europa per propria scelta voluttuaria.
Questa piccola svista semantica risultava particolarmente utile sia per occultare la presenza sul territorio italiano di migliaia di effetti collaterali delle nostre guerre umanitarie, sia per espellerli più facilmente. Ma anche perché ai nomadi, che per definizione transitano, si è tenuti a dare solo collocazioni temporanee e soluzioni provvisorie: i campi, i prefabbricati. Qualora poi tali sistemazioni non esprimano a sufficienza il concetto di provvisorietà, può sempre intervenire uno sgombero a ribadirlo.
Lo sgombero è un atto assolutamente funzionale alla ‘costruzione del nomade’. Ripetuto a cadenze regolari distrugge ogni pretesa di stanzialità. Assieme alla guerra, ai trasferimenti forzati, ai decreti di espulsione, agli accompagnamenti alla frontiera, obbliga al movimento anche gente che non aveva nessuna intenzione di spostarsi da casa. Ma affinché la costruzione del nomade avvenga con efficacia e comprenda tutte le caratteristiche che gli vengono comunemente attribuite, lo sgombero deve garantire alcune condizioni:
- La distruzione senza preavviso delle baracche con dentro tutti gli averi dei soggetti sottoposti a provvedimento di sgombero, in modo da costringerli a ripartire costantemente da zero [‘I nomadi non si evolvono mai dalla loro condizione miserabile’].
- Il trasferimento in luoghi privi di servizi igienici sufficienti [‘I nomadi sono sporchi e puzzano’], poco o per niente serviti dalla nettezza urbana [‘I nomadi vivono nell’immondizia’].
- L’interruzione della continuità scolastica dei bambini [‘I nomadi non mandano i figli a scuola’] o il trasferimento in luoghi lontanissimi dalle scuole di appartenenza [‘I bambini nomadi arrivano sempre in ritardo’].
- L’interruzione delle attività di sussistenza socialmente innocue, tipo il commercio ambulante [‘I nomadi non han voglia di lavorare’], con conseguente crescita della mendicità [‘I nomadi chiedono l’elemosina’] e delle attività delinquenziali [‘I nomadi rubano’].
- Il trasferimento e la concentrazione in campi sempre più grandi e affollati, che creano maggior allarme sociale, e dove le condizioni di convivenza provocano conflitti interni [‘I nomadi sono troppi, litigano fra di loro, sono pericolosi’].
Nella specificità romana, si può affermare che queste condizioni siano state quasi sempre garantite da tutte le amministrazioni comunali degli ultimi 20 anni, sia di centro sinistra che di centro destra.
Gli sgomberati di Rutelli
A Roma il primo campo ‘nomadi’ realizzato dall’amministrazione comunale venne inaugurato dalla giunta Rutelli nel 1994 in via Salviati. Certo, gli insediamenti spontanei e informali dei rom c’erano anche prima, ma con l’apertura del Salviati1 la formula del campo venne formalizzata come la risposta istituzionale ai loro bisogni abitativi.
Rutelli in questo senso fu un pioniere. Tenne a battesimo i così detti ‘campi tollerati’ (Salviati1 e 2, Tor de’ Cenci), vale a dire insediamenti realizzati dall’amministrazione comunale, utili per convogliarvi i rom sgomberati da altri campi, ma con uno status incerto. Nel senso che da un momento all’altro qualsiasi sindaco poteva disconoscerne la paternità comunale e definirli come ‘campi abusivi’, esponendone nuovamente gli abitanti al rischio di sgombero. Successe al ‘campo tollerato’ di Tor de’ Cenci, aperto da Rutelli e sgomberato da Alemanno.
Creare nuovi ghetti e poi raderli al suolo può sembrare un esercizio irrazionale, se si presuppone che l’obiettivo sia davvero quello di restituire ai rom condizioni di vita dignitose. Ma se l’obiettivo è alimentare la paura e le ossessioni sicuritarie, il discorso riacquista coerenza.
Rutelli fu un pioniere anche degli sgomberi, che assunsero una particolare frequenza negli anni 1999-2000, per ‘ripulire’ la città a ridosso del Giubileo. A coordinarli, con insensibilità proverbiale, Luigi Lusi, all’epoca ‘Delegato del Sindaco di Roma’, in seguito meglio conosciuto per la faccenda della sparizione dei rimborsi elettorali della Margherita.
Si cominciò con lo sgombero di Tor de’ Cenci per far posto al nuovo ‘campo tollerato’. Nel corso delle operazioni di polizia “furono prelevate 67 persone, tra di loro bambini, donne incinte, anziani e malati. In dodici ore furono portati all’aeroporto e rispediti a Sarajevo, nonostante la maggior parte di loro fosse fuggita dalla guerra, e i bambini fossero nati in Italia e nulla sapevano di quel paese”. Le famiglie espulse vennero rintracciate in seguito dal fotografo Stefano Montesi a Ilizda, un sobborgo di Sarajevo: “Vivevano in case diroccate, intorno c’erano cartelli con scritto “attenti alle mine”9.
Ma quello di Tor de’ Cenci era solo una premessa allo sgombero del Casilino 700, il ‘campo nomadi più grande d’Europa’, con 1500 persone fra bosniaci, montenegrini, romeni, macedoni, marocchini. Venne venduto all’opinione pubblica come ‘sgombero umanitario’: il campo versava in condizioni fatiscenti e sei bambini vi erano già morti intossicati, bruciati, uccisi dal gelo o dal caldo soffocante10. Per anni gli abitanti avevano chiesto inutilmente al Comune l’acqua per l’igiene e per spegnere gli incendi, e l’allaccio all’elettricità, per non dover bruciare la legna per scaldarsi. La risposta umanitaria fu lo sgombero.
Ma forse proprio umanitario non era. Così lo descrissero i marocchini (un centinaio), trasferiti con i mezzi del Municipio… in un campo altrettanto abusivo: “Tante cose ci sarebbero da dire sui modi con cui siamo stati sgomberati (i giornalisti, le associazioni e gli amici solidali allontanati, il sequestro di effetti personali, la distruzione di tutti i beni e gli oggetti che si trovavano nelle baracche e nelle roulotte). Siamo stati trasferiti al campo Casilino 900 (150 metri più in là)… Il posto che il comune di Roma ci ha riservato è un cimitero, una ex discarica ricoperta con un po’ di terra poi spianata. Si tratta di uno spazio al di sotto del livello di altri terreni, per cui al nostro campo piovono a cielo aperto gli scarichi degli inquilini del piano superiore e quindi non si resiste dalla puzza… Il campo è circondato da terreni più alti con numerose macchine degli sfasciacarrozze sistemate una sull’altra, col rischio di cadere… La temperatura è sempre più fredda della media; c’è buio, umidità, non arriva il sole, l’ambiente è malsano. Le condizioni di vita non sono per esseri umani, anche se immigrati… Inutile dire che in quest’area non c’è possibilità di lavarsi, che i bagni sono tutt’altro che igienici”11.
I rom con permesso di soggiorno vennero trasferiti al Salviati2, “un enorme rettangolo di cemento arroventato con tre o quattro miseri alberelli, situato in mezzo ai prati alle spalle di via Collatina vecchia in un luogo assolutamente isolato“, a fianco dei binari della ferrovia, lontanissimo dai negozi dei generi di prima necessità. Gli vennero assegnati dei container “dello stesso tipo di quelli usati dalla Protezione civile nelle emergenze: rettangoli prefabbricati dove fa caldo l’estate e freddo l’inverno e dove si vive uno sopra l’altro. Questi alloggi, pensati per le emergenze e per nuclei familiari di dimensioni molto inferiori a quelli rom, ospitavano fino a sei persone”. Non vi era alcuno spazio per la raccolta dei metalli, l’unica fonte di reddito della comunità, e il tentativo di costruire piccoli magazzini venne impedito dai vigili12.
Chi nel Casilino 700 non aveva documenti validi continuò il suo errare ‘nomade’ in altri campi abusivi, o venne preso ed espulso, come accadde a Sejdo Seferovic, rom bosniaco. Nel 2006 provò a tornare in Italia assieme a Ferid Sulejmanovic, un altro sgomberato da Rutelli a Tor de’ Cenci. Salparono in Croazia nel cassone di un tir. Ad Ancona li ritrovarono morti asfissiati. (Continua)
da http://www.carmillaonline.com
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“Buona parte dei rom residenti a Prijedor e nelle città di Kozarac, Tukovi, Hambarine e Rizvanovici furono presi di mira dagli eserciti, i rom delle città di Vlasenica, Rogatica subirono gravi persecuzioni e a Bihac, Sarajevo e Zvornik circa 500 rom hanno perso la vita durante i combattimenti. E’ doveroso ricordare poi le 70 vittime uccise nel 1995 a Srebrenica, alcuni giorni prima del massacro tristemente noto… In alcune città della Repubblica Srpska i rom venivano cacciati dalle proprie case e i loro terreni venivano distrutti o minati, molto spesso succedeva anche che le case abbandonate dai rom costretti alla fuga venissero occupate da altri rifugiati serbi … Molti rom furono deportati nei campi di concentramento serbi insieme a musulmani e croati, a tal proposito Donald Kenrick riporta la morte di circa ottanta rom nel campo di concentramento di Manjaca, inoltre … più di trecento rom erano detenuti nel campo di Miljkovci, vicino Doboj…” In: Jessica J. Gonzales, La Terza Migrazione dei rom jugoslavi. Evoluzione storica dei flussi migratori verso l’Italia dalla Seconda alla Terza Jugoslavia, pp. 66/73.
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Ibidem, p. 77.
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Per approfondire: Hélen Gobin, Les Roms du Kosovo: victims oubliées de la guerre des Balkans, 2006, p. 87. Clive Baldwin, Minority Rights in Kosovo under International Rule, 2006, p. 40.
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Andrea Rossini, I Rom bosniaci, cittadini “non costituenti”, Osservatorio Balcani Caucaso, 23 aprile 2004.
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Franco Juri, Rom e cancellati: amnesia europea, Osservatorio Balcani Caucaso, 30 novembre 2006.
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Morte lenta per i Rom del Kosovo, Osservatorio Balcani e Caucaso, 23 dicembre 2005.
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Giulia Perin, L’applicazione ai rom e ai sinti non cittadini delle norme sull’apolidia, sulla protezione internazionale e sulla condizione degli stranieri comunitari ed extracomunitari, 13 giugno 2010, p. 38.
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Una ricerca del 1998 su un centinaio di rom bosniaci del Casilino 700, registrava come l’85,7% di loro abitasse, prima di sfollare, in normalissime case in muratura, poi distrutte nel conflitto. I capifamiglia intervistati lavoravano prima della guerra come artigiani, meccanici, carrozzieri, muratori, piastrellisti, operai, spazzini. Per approfondire: Monica Rossi, The city and the slum: an action research on a Moroccan and a Roma Xoraxané community in Rome, tesi di laurea in filosofia presso l’Università di Birmingham, p. 356.
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Fulvio Vassallo, Rom. Discriminazione di gruppo ed odio sociale, Melting Pot Europa, 25 agosto 2010.
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Monica Rossi, Rom a Roma. Giovanna Boursier Cinzia Gubbini, Dolce ghiaia, nuovi ghetti. Dal Casilino ‘700 a Tor De’ Cenci, i magnifici sgomberi targati Rutelli, Il Manifesto, 04 gennaio 2001.
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Lorenzo Astegiano, La popolazione marocchina al campo nomadi Casilino 900. Per una critica dell’idea di ghetto, tesi di laurea in Scienze della Comunicazione, Università degli studi Siena, marzo 2003, pp. 43/44.
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Monica Rossi, Rom a Roma.
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