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La diplomazia americana tra la Russia e la Cina e la vendetta inglese contro la Germania

L’importanza di una ottima capacità di analisi si vede a distanza di tempo, non nella rissa da talk show, dove tutti cercano di prevalere in quell’ora e il giorno dopo dicono il contrario con altrettanta sicumera. Questo articolo, comparso ormai quasi nove mesi fa, su un giornale da noi distante ma obbligato a dare “notizie sicure” agli investitori, altrimenti chiude, conferma questa regola aurea.

Come sempre, ricordiamo che lo spazio “Interventi” è dedicato a quei contributi che risultano utili per la comprensione del mondo a prescidere dalle opinioni degli autori da noi selezionati oppure che si sono proposti. “La verità è rivoluzionaria“, sempre. E’ un criterio epistemologico, oltre che un’affermazione materialista…

Va dato atto a Guido Salerno Aletta, fra le altre cose ex Vice Segretario Generale della Presidenza del Consiglio, di essere uomo libero e di grande esperienza, “una risorsa di questo paese” a prescindere dal governo in carica e dal regime in vigore. 

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Per l’Ucraina non c’è niente di nuovo da inventarsi, basta replicare la vecchia sceneggiatura del Vietnam: dalle partite di ping-pong che riaprirono il dialogo con i Cinesi ai tempi di Mao Zedong, agli incontri di hockey su ghiaccio che vengono ora programmati con i Russi di Vladimir Putin, la politica americana sta girando il sequel della grande svolta diplomatica che fu suggerita all’allora Presidente Richard Nixon da Henry Kissinger. Donald Trump sta riproponendo il durissimo e quanto mai controverso processo politico che portó alla fine del conflitto del Vietnam, con il ritiro americano che pose fine ad una guerra sanguinosa e dispendiosa, combattuta in nome della libertà e della democrazia a difesa del Sud che era aggredito dall’avanzata dei comunisti dal Nord, armati dalla Cina.

Anche il Presidente ucraino Volodymir Zelensky è rappresentato oggi come un eroe, ricevuto con ogni onore in Occidente, da Londra a Bruxelles ed a Washington finché era stato in carica il Presidente democratico Joe Biden: tutto come era stato per Ngô Dinh Diem, il Presidente sudvietnamita encomiasticamente soprannominato il “Churchill dell’Asia sud-orientale” tanto era forte il suo impegno a difesa dei valori dell’Occidente. Fece una brutta fine, purtroppo, abbandonato da chi tanto lo aveva sostenuto ma che alla fine non sapeva più che farsene.

I colloqui diretti tra il Presidente Trump ed il suo omologo russo Vladimir Putin ripropongono il copione kissingeriano con cui l’America propose alla Cina una grande “porta aperta” sul mondo intero, quella che trent’anni più tardi, nel 2001, le garantí con la Presidenza Clinton l’ingresso nel Wto a condizioni di eccezionale favore in quanto venne accettata come Paese di non ancora maturo sviluppo e soprattutto senza imporle la convertibilità internazionale dello yuan: era l’URSS, allora, il vero competitor globale degli Usa, che li aveva addirittura surclassati nella corsa allo Spazio mentre tesseva dovunque strettissime relazioni politiche e militari. D’altra parte, oggi è la Cina, e non la Russia, che sfida gli Usa nel suo ruolo di grande potenza.

Gli Usa abbandonano la strategia di Zbigniew Brezninsky, il consigliere presidenziale di origini polacche che era subentrato ai tempi della Presidenza di Jimmy Carter: è stato lui il teorico della destabilizzazione dell’Heartland asiatico e poi di tutte le altre aree in cui gli Usa non riuscivano ad imporre il proprio predominio.

Questa è stata la stella polare della politica estera americana a partire dal 1978: un ​continuum che si è snodato a partire dall’abbandono dello Scià di Persia Reza Pahalevi e dal dissimulato sostegno al rientro a Teheran dell’Ayatollah Khomeini, illudendosi di poter controllare l’estremismo islamico come era stato fatto ai tempi del colpo di Stato contro Mohammad Mossadeq, reo di aver nazionalizzato l’industria petrolifera.

Una strategia perseguita col sostegno dato ai Talebani in Afganistan affinché trasformassero l’invasione sovietica in una sorta di Vietnam, con le due guerre del Golfo combattute dai Bush e con le Primavere arabe sostenute dalla Presidenza di Barak Obama con la regia di Hillary Clinton, fino al conflitto in Ucraina che prende le mosse dalla progressiva estensione della Nato, un processo che era stato dichiarato inaccettabile da Vladimir Putin sin dalla Conferenza di Monaco del 2007.

D’altra parte, anche Ronald Reagan non fece altro che perseguire la destabilizzazione dell’URSS, provocandone alla fine il collasso politico, economico e militare: la caduta del Muro di Berlino era stata la sua scommessa e fu il suo trionfo.

Ma l’Occidente è profondamente diviso: si marca profonda come mai, oggi, la distanza tra la strategia nei confronti della Russia che viene perseguita dal Presidente Trump rispetto a quella del Premier britannico Keir Starmer. Non solo gli Usa vivono in una ​dimensione continentale, e coltivano con Trump la prospettiva che fu già di James Monroe di controllarla tutta emancipando le ex-colonie europee, ma ora tornano ad operare come una sorta di pendolo che oscilla dalla Cina alla Russia per evitarne una ulteriore, pericolosa saldatura.

La Gran Bretagna, invece, non riesce a superare la sindrome dell’isolamento che la colloca alla periferia dell’Europa, obbligandola ad intervenire per evitare la altrettanto pericolosa saldatura tra Germania e Russia che si era palesata durante il lungo Cancellierato di Angela Merkel e che si era addirittura estesa alla Cina che aveva superato gli Usa come primo partner commerciale tedesco.

Si torna alle radici profonde della Brexit: il Premier britannico David Cameron aveva ragione da vendere, quando si opponeva alle prepotenze della Germania, visto che mentre la City aveva assorbito senza fare un lamento le enormi perdite sui prestiti erogati all’Irlanda, dove erano stati impiegati in folli speculazioni immobiliari, la Germania aveva fatto fuoco e fiamme per sostenere il proprio sistema bancario dopo il default di quello spagnolo e della Grecia intera, che insieme alla Francia aveva foraggiato senza scrupolo, né misura.

Mancando l’unanimità dell’Unione per via dell’opposizione di Londra, Berlino impose comunque la sottoscrizione di Trattati paralleli per irrigidire le regole ​di bilancio col Fiscal Compact e per istituire l’ESM, il cosiddetto Fondo Salvastati che in realtà serviva e serve tuttora a proteggere l’euro dal collasso, e dunque a blindare la cassaforte di Berlino.

Davvero troppo per Londra, che si è vendicata di questi soprusi puntando tutto sulla Polonia come antemurale storicamente ostile alla Russia, ed usando il cuneo della Ucraina per dichiararla nemico esistenziale dell’Europa: tutto è stato fatto per perseguire l’obiettivo di sempre, quello di azzoppare la Germania.

Un esito, quest’ultimo, che stavolta non dispiace affatto neppure a Trump: più che tardivo, il riallineamento strategico-militare e fiscale del Cancelliere in pectore Friedrich Merz è dunque del tutto inutile, visto che all’asse franco-tedesco è subentrata una nuova Entente cordiale, levatrice del nuovo ombrello nucleare che proteggerà l’Europa.

E sta tutta qui la solitudine in cui si trovano ora le leadership europee: incapaci in più di trent’anni di creare uno strumento di sicurezza collettivo nei confronti della Russia, da una parte si sono cullate nella bambagia della Nato, acconciandosi supinamente alla sua continua estensione, e dall’altra si sono fatte dominare dagli interessi egoistici della Germania che è stato l’unico Paese che si è fatto straricco con l’euro. A discapito di tutti gli altri.​

La Storia non si cancella. E soprattutto non se ne inventa una nuova da un giorno all’altro.

* pubblicato il 22 marzo 2025 su Milano Finanza

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