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Per l’attualizzazione della filosofia della prassi gramsciana

Quali sono le cause della crisi e cosa la distingue dalle crisi del passato? Quali sono le prospettive politiche e ideologiche in questa fase? È possibile un secondo New Deal keynesiano o è in discussione l’intero assetto dell’egemonia capitalistica? Cosa hanno ancora da insegnarci Marx, Lenin e Gramsci? In definitiva, come dovranno agire nei giorni, nei mesi e negli anni che ci aspettano le sinistre di classe di tutto il mondo?

Cerchiamo di rispondere a queste domande con il Prof. Luciano Vasapollo, marxista, critico dell’economia e docente all’Università di Roma “Sapienza” e alle Università de La Habana e Pinar del Rio (Cuba), nonché direttore del Centro Studi CESTES dell’USB-Unione Sindacale di Base e dirigente politico comunista da oltre quaranta anni.

L’intervista è di Ettore Gallo, studente e militante del Collettivo Economia La Sapienza. Questa lunga e approfondita conversazione costituisce l’intervista conclusiva di un ciclo iniziato quest’anno e che ha toccato come temi il fallimento delle trattative fra Grecia e Unione Europea (A cu’ si fa’ pecura, lu lupu si lu mangia!”- Tsipras doveva rompere la gabbia) e le prospettive politiche dei Paesi dell’ALBA (L’Alba euromediterranea: da provocazione teorica a percorso reale). Ricordiamo inoltre un’intervista-conversazione alla vigilia delle elezioni europee del maggio 2014 (link) e la partecipazione dello stesso Prof. Vasapollo a un’iniziativa promossa lo scorso maggio dal Collettivo Economia sullo sviluppo economico e le prospettive politiche dei Paesi dell’ALBA (video).

Di parole, riflessioni e analisi su questa crisi se ne sono sprecate, sia prima che dopo il fallimento della Lehmann Brothers che, di fatto, ha fatto crollare questo castello di carte. Economisti come Minsky prefiguravano da decenni che l’accumulazione di debito avrebbe portato a un certo punto all’esplosione di quest’enorme bolla con effetti devastanti sull’intero sistema economico (il cd. Minsky’s moment).

In tempi più recenti due economisti mainstream come Rogoff e la Reinhart ammonivano ex post gli analisti che nei primi anni del ventunesimo secolo sostenevano che le conoscenze macroeconomiche acquisite ci avrebbero salvato da nuove crisi. Nel best-seller “This time is different”1 i due economisti di Harvard partivano proprio dal presupposto che crisi economiche e finanziarie non sono evitabili, salvo poi giungere a conclusioni fantasiose sulla base di dati errati. Da una prospettiva marxista, questa crisi non può che definirsi crisi sistemica di accumulazione. Nonostante le illusioni statistiche che ci vengono propinate ogni giorno, la situazione diventa sempre più drammatica per le classi lavoratrici, che vedono tagliati ogni giorno salari, diritti e lo stesso lavoro.

 

Ma cosa c’è di originale e cosa invece risulta comune alle crisi che l’hanno preceduta?

Prima di tutto bisogna porre l’accento proprio sulla fase di “incubazione” della crisi, che non nasce sicuramente nel 2008, ma si origina negli anni ’70, configurandosi già da allora come crisi generale di accumulazione. L’interruzione dei processi internazionali di accumulazione del capitale seguita allo scoppio della bolla finanziaria non ha fatto altro che confermare l’analisi che da oltre 15 anni portavamo avanti come CESTES- Centro Studi USB.

Con il nuovo millennio, le crisi congiunturali che si sono susseguite dagli anni ’70 a oggi non sono più state in grado di assorbire la costante sovrapproduzione di merci e capitali nei Paesi a capitalismo maturo. La risultante più naturale non poteva che essere la crisi sistemica e globale (contemporaneamente economica, finanziaria, energetica, ambientale, alimentare e dello stesso Stato di diritto).

Negli anni che hanno visto l’affermarsi del neoliberismo nei Paesi occidentali, gli economisti- tanto quelli maistream quanto i cosiddetti eterodossi- dibattevano sterilmente del rallentamento della crescita economica; già allora noi del CESTES avevamo individuato come la caduta del saggio di profitto nei Paesi a capitalismo maturo avrebbe portato da lì a poco all’esplosione di una crisi sistemica, esattamente come si è verificato. Con ciò non voglio assolutamente dire che allora avessimo la “palla di cristallo”, come pretendono di averla molti intellettuali, in gran numero economisti.

L’economia non è mai stata una scienza previsionale; sarebbe assurdo se a proclamarsi profeti fossero anche i critici dell’economia. In tutte le scienze sociali non si possono fare previsioni senza avere la certezza che vengano disattese, ma si possono leggere le tendenze: la capacità di ragionamento politico-economico può percepire alcune tendenze di fondo che vanno verificate nel reale.

A tal modo, già a metà degli anni ’90, avevamo evidenziato due fattori importanti: il primo era la costituzione del polo imperialista europeo, che poneva il problema della competizione globale, ovvero di ciò che in termini leninisti si identifica come scontro inter-imperialistico; c’era e c’è un problema di dominio internazionale, di spartizione di aree, un problema politico economico, militare, commerciale, di produzione e distribuzione, ma anche un problema di aree valutarie e aree monetarie. Nell’ambito della costituzione di quella enorme gabbia che è diventata oggi l’Unione Europea, osservavamo come la crisi che si stava incubando non sarebbe stata una delle tante crisi congiunturali, ma avrebbe riguardato gli elementi strutturali del modo di produzione capitalistico, configurandosi così come crisi a carattere sistemico. Le crisi congiunturali sono sempre crisi periodiche, congenite nonché necessarie al modo di produzione capitalistico; il capitalismo ha bisogno di crisi per rilanciare il tasso di accumulazione e per distruggere i fattori produttivi in surplus (forza lavoro, capitale, vecchie tecnologie, ecc.) .

La crisi del 2007-2008, come momento di rottura più evidente in una lunga fase di crisi del modo di produzione capitalista che si protrae dai primi anni ’70 ,a differenza delle crisi che si sono susseguite dal Secondo Dopoguerra a oggi, è andata a intaccare profondamente i meccanismi di accumulazione, dando vita a un calo generalizzato della redditività che ha riguardato l’intera economia, dalla produzione industriale alla finanza, nel senso che ha ben specificato il significato di economia fittizia nella variante speculativa finanziaria. Da una crisi simile non si può che uscirne con gli stessi schemi mentali e le stesse basi teoriche che l’hanno causata.

La Storia del XX secolo ci racconta di una sola altra crisi durissima a carattere strutturale del capitalismo, quella esplosa “ufficialmente” a Wall Street nel 1929; da quella crisi si è usciti in prima battuta con un cambiamento del modello di produzione e della struttura economica attraverso anche il keinesismo, ma in secondo luogo non va dimenticato che è stata necessaria la Seconda Guerra Mondiale per rilanciare definitivamente il processo di accumulazione. Per questa ragione spesso sono solerte nel ricordare che la rivoluzione keynesiana non è stata sostenimento della spesa sociale, ma solamente della spesa pubblica, in tutte le sue forme. Concentriamoci sull’economia anglo-americana degli anni ’30, in cui il modello di produzione keynesiano si è primariamente affermato come modello dominante: in quegli anni il sostenimento della spesa pubblica ha sì significato riduzione della disoccupazione (che specie negli USA assumeva proporzioni particolarmente drammatiche), ma ha comportato anche un fortissimo sforzo economico pubblico nella corsa agli armamenti, determinando una spesa pubblica enorme per fini bellici che non poteva che portare a quella che sarebbe stata la Seconda Guerra Mondiale.

In altre parole, è con il keynesismo militare e non con quello sociale che si è riusciti a rilanciare il processo di accumulazione dopo la crisi del ’29. Il sostenimento della spesa sociale si è avuta solo e unicamente quando il movimento dei lavoratori è stato forte e ha saputo inserirsi in maniera efficace nel conflitto capitale-lavoro, ossia degli anni del Secondo Dopoguerra, non prima.

Sulla base di questa analisi sono molto critico nei confronti delle odierne correnti keynesiane e post-keynesiane che ritengono di poter sorpassare questo “momento” di crisi e riformare l’Unione Europea in nome di una maggiore spesa pubblica e di un maggior intervento statale in economia. Dobbiamo considerare che, nel bene e nel male, il periodo keynesiano è finito e per una serie di ragioni- tanto teoriche quanto soprattutto connesse alle dinamiche dello sviluppo capitalistico- non potrà tornare né essere efficace per rilanciare il processo di accumulazione.

 

Quanto detto finora mi va venire in mente un passo di un articolo di Paul Mattick del 19692: “Anche se gli effetti molteplici delle depressioni danno adito a molte spiegazioni differenti, dal punto di vista marxiano essi trovano la loro causa principale nel fatto che la produzione capitalistica è produzione di valore; vale a dire, la produzione non è connessa alla necessità degli uomini ma all’aumento del capitale privato. Una data grandezza di capitale deve portare ad una grandezza maggiore. Come si suol dire: senza profitto nessun camino fumerà. Le fasi di depressione sono periodi di redditività contenuta e repressa. Si concludono con un nuovo rivolgimento degli affari quando si scoprono nuovi metodi e mezzi per aumentare la redditività del capitale.” In questa crisi non si intravede al momento nessuna vera prospettiva di rilancio della redditività. Se come appena detto non risulta convincente l’“opzione keynesiana”, a cosa andiamo verosimilmente incontro? Pensa che in questa impasse l’acuirsi delle tensioni geopolitiche porterà in un certo momento a un vero e proprio conflitto bellico fra le potenze imperialiste?

Non so se ci sarà un’altra guerra mondiale con dinamiche simili a quelle della Seconda Guerra Mondiale; mi auguro di no, ma non si può neppure escluderlo. Ciò che rileva non è tuttavia questo: una guerra mondiale, come ha fatto notare anche Papa Bergoglio, è già in atto nelle periferie del nostro mondo occidentale. Si combatte in Ucraina, in Siria e in moltissime altre zone del mondo; affianco al conflitto militare vi sono poi i tanti focolai di guerra economica, non meno crudeli e distruttivi in termini di vite umane.

È innegabile come il ricorso alla forza militare e alla corsa agli armamenti possa costituire un fattore di rafforzamento e rilancio dell’accumulazione in un periodo di crisi. In passato i conflitti militari hanno sempre segnato la transizione dei cicli di dominio all’interno del capitalismo; la contraddizione insita nella necessaria illimitatezza della valorizzazione del Capitale implica automaticamente la tensione dei poli imperialistici allo scontro, con la conseguente tendenza alla guerra.

A complicare il quadro politico oggi è la questione della leadership mondiale. La guida unipolare del Mondo a marchio USA può dirsi finita: a nulla servono gli accordi riparatori con l’Iran per sancire un’egemonia che traballa in Medio Oriente, o con l’Unione Europea- il famoso TTIP- per tagliare fuori dalla competizione globale i BRICS, o con negoziazioni poco significative con Cuba senza ancora neppure accennare alla interruzione del bloqueo da parte dell’impero, mentre si tenta di strozzare il Venezuela e con esso l’intera ALBA, ecc.

È indubbio che un non augurabile conflitto bellico generalizzato possa rilanciare da qui a 5-10 anni il processo di accumulazione, ma nessuno sa a vantaggio di chi. Al contrario è difficilmente pensabile che, ai tempi di Internet e dell’informazione come forza produttiva, possa uscire da un eventuale conflitto bellico un nuovo vincitore della competizione globale capitalista.

A giustificare quella che chiami impasse nella crisi del Capitale sono non tanto i dati strettamente economici riguardo l’auspicabilità (per i capitalisti) di un eventuale scontro militare fra poli imperialistici; la domanda su chi potrà avere la leadership capitalista nel futuro prossimo va risolta sulla base di processi peculiarmente politici. Su questo piano oggi lo scacchiere internazionale vive in una sorta di clima di attesa, in una percezione di una strategia di mobilità attenta, ma di sostanziale immobilismo tattico.

 

Di economisti che in Europa travalicano nelle loro analisi l’aspetto meramente economico per gettare lo sguardo sulla situazione globale complessiva ce ne sono pochissimi. Recentemente Paul Krugman ha tracciato un collegamento fra crisi del ’29, Seconda Guerra Mondiale e crisi odierna3, ma in Europa il dibattito si mantiene sterile sul binomio austerità-crescita. I keynesiani- specie quelli “di sinistra” – rimangono ancorati all’idea di riformare le istituzioni europee e di sostituire le politiche della Troika con politiche di sostegno della domanda aggregata.

 

Può questa proposta risultare attuabile nel lungo periodo? Dove sbagliano e su cosa hanno ragione i keynesiani e in particolare i keynesiani di sinistra?

 

È vero. Oggi il dibattito in Europa rimane schiacciato unicamente su aspetti economici di indubbia rilevanza, ma che non consentono di inquadrare la situazione complessiva. Gli economisti di sinistra contestano giustamente la “ricetta tedesca” fatta di austerità e privatizzazioni dei servizi sociali per creare una nuova catena del valore che possa rilanciare il processo di accumulazione. Il problema è che muovono le loro analisi su questa crisi da un punto di vista fallace, identificando la crisi del 2007 come crisi da sottoconsumo, senza intenderne in alcun modo il carattere sistemico.

 

I keynesiani e gli eterodossi hanno senz’altro ragione quando affermano che il modello di sviluppo europeo a guida tedesca provoca un impatto negativo sulla produttività e sulla composizione quanti-qualitativa della manodopera, abbassandone il costo; ciò che è sbagliato è la pretesa di contrapporre a questo modello un tentativo di permanenza nella moneta unica e nell’Unione Europea accompagnata da politiche di crescita che sanciscano la fine dell’austerità. Le illusioni dei keynesiani di sinistra si basano sull’idea che sia possibile una seconda fase nella breve vita della moneta unica, con l’affermarsi di un nuovo Euro, un “Euro buono” che possa portare a superare la crisi attraverso il sostenimento della domanda e il rafforzamento delle spese di carattere sociale e di investimento in infrastrutture pubbliche, tecnologie, educazione, ecc.

 

Purtroppo per loro quest’ipotesi di “Euro buono” entra in contraddizione con la stessa idea di crescita nella compatibilità capitalista; keynesiani e post-keynesiani auspicano, infatti, di poter ridurre il rapporto debito pubblico-PIL facendo aumentare il denominatore e riducendo così l’incidenza di tale indicatore.

 

Il problema è che nei fatti le idee su come stimolare la crescita sono assolutamente confuse, specie fra i keynesiani di sinistra: così vengono alla luce proposte di sostegno della green economy e dei progetti ambientali, uniti a progetti infrastrutturali tanto fantasiosi quanto inutili. Possiamo dire provocatoriamente che la battuta di Keynes sullo scavar buche di giorno e riempirle di notte per ripetere lo stesso compito il giorno dopo e sostenere così la domanda è stata presa un po’ troppo sul serio.

 

Per meglio specificare, nella proposta avanzata dai keynesiani di sinistra risulta assolutamente irreale e improbabile che si possa creare una nuova catena del valore sulla base di ipotesi tanto confuse e inconciliabili tra loro. Altro aspetto contraddittorio riguarda le modalità di finanziamento di simili stimoli alla crescita. Le soluzioni proposte prevedono l’emissione di nuovi strumenti finanziari come gli eurobond che possano attrarre liquidità dal resto del mondo al fine di sostenere le modalità di investimento nella spesa sociale che di fatto risulterebbe privatizzata, con le drammatiche conseguenze sociali (si pensi ad esempio agli effetti disumani che una sanità completamente privatizzata può provocare in qualsiasi contesto sociale).

 

Il problema fondamentale di questi economisti di sinistra- che in alcuni casi si professano incredibilmente marxisti- è l’incapacità vera o presunta di riconoscere che non può esistere un capitalismo “buono” e che non c’è speranza di risolvere una crisi sistemica del Capitale con le vecchie ricette del ’29.

 

In un quadro in cui sempre più ampia diventa la divaricazione fra sviluppo delle forze produttive e modernizzazione, da un lato, e socializzazione dei rapporti di produzione, dall’altro, vengono a essere sempre più intaccati quei rapporti e quelle relazioni sociali che negli anni passati hanno costituito l’humus dei paesi a capitalismo maturo. Davanti a una situazione del genere le ricette keynesiane appaiono evidentemente viziate da mero economicismo ed eurocentrismo sinistrorso , slegate da quello che è il contesto materiale a causa di ingenuità, incapacità o, il che è peggio, malafede.

 

 

Il problema del dibattito su Euro ed Europa non riguarda tuttavia la sola contrapposizione fra difensori del modello tedesco e keynesiani vecchi e nuovi, ma si estende a tutta quella sinistra di alternativa e riguarda anche se non soprattutto gli intellettuali che si confessano marxisti.

 

Come dovrebbero interfacciarsi i movimenti sociali e anticapitalisti con le proposte che nascono quotidianamente di ritorno alla sovranità economico e monetaria?

 

Per rispondere alla domanda vorrei tirare in causa un documento politico firmato qualche anno fa da diversi esponenti della sinistra euroscettica spagnola che rappresenta perfettamente molto dinamiche che si vanno sviluppando anche in Italia. Nel maggio 2013 politici, intellettuali ed esponenti della sinistra sovranista spagnola sottoscrissero un manifesto4 in cui si auspicava la creazione di un “secondo euro”, attuando una strategia radicale di fuoriuscita dall’ “euro 1” che prevedeva al limite un ritorno alle vecchie monete nazionali. Il manifesto era sostanzialmente ispirato all’idea di una sovranità monetaria ed economica nazionale che, al di là delle contraddizioni con un approccio internazionalista, risulta oggi improponibile e incompatibile con l’attuale stato dei processi di globalizzazione. Il “secondo euro” dovrebbe essere finalizzato alla svalutazione e alla ristrutturazione del debito pubblico complessivo, mettendo in campo anche politiche di nazionalizzazione di alcune imprese e politiche industriali volte al miglioramento della produttività.

 

La proposta, pur avendo il merito di porre la questione della rottura della gabbia europea, risulta assolutamente insostenibile economicamente e finanziariamente nella fase dell’attuale mondializzazione finanziaria del capitale. In pratica, pensare di creare una discontinuità con il polo imperialista europeo ritornando a una vecchia sovranità monetaria costituisce un tentativo privo di reali possibilità attuative per le forti pressioni protezionistiche e soprattutto per la sicura fuga di capitali che abbasserebbe le capacità di investimento del sistema.

 

L’idea di un Euro del Sud e un Euro del Nord non è di per sé inattuabile, ma nulla può aggiungere al piano ultimo della trasformazione della società in senso socialista; non è un caso che, anche se con finalità totalmente diverse, sia stata proposta in tempi recenti dal Ministro delle Finanze tedesco Wolgang Schäuble in merito alla questione greca.5

 

 

Nelle accademie come nei media e nelle strade delle nostre metropoli occidentali sentiamo continuamente e viviamo – o almeno pensiamo di vivere – in un mondo fortemente terziarizzato, dove regnano i servizi e la fabbrica dell’informazione e della comunicazione, mentre la produzione industriale sembra essere relegata a un ruolo subordinato, con sempre minore rilevanza. Questa visione di un’era post-fordista e post-moderna è stata fortemente ridimensionata dalla crisi, ma risulta ancora forte tanto sia nelle teorizzazioni accademiche che nel sentire comune. Addirittura nel recente passato un’analisi del concetto di classe alla luce della terziarizzazione ha impegnato anche forze che si definivano anticapitaliste, che sono arrivate a parlare in maniera sicuramente discutibile della scomparsa dell’operaio e/o della fabbrica.

 

In poche parole, porsi delle domande sulla veridicità vera o presunta della società liquida6 è un punto di interesse notevole e forse fondamentale per tutte le forze anticapitaliste, che laddove certe tesi fossero verificate, vedrebbero “scomparire” quello che è sempre stato il proprio blocco storico di riferimento.

 

Lei crede che la nostra società, pur mantenendosi fondamentalmente capitalistica, si sia evoluta in una direzione davvero post-moderna o ritiene che tutto ciò sia solo un’illusione per non rendere intellegibile la base di sfruttamento, povertà, guerra e crisi che unisce tutti i tipi di capitalismi?

 

Comincio dicendo che l’idea di una società interamente terziarizzata e non di produzione è un’assurdità, sicuramente incompatibile con il modo di produzione capitalistico; nel mondo sono ancora centinaia di milioni i lavoratori che lavorano nell’industria, come ancora rilevante è il numero dei contadini. Si potrebbe obiettare che ciò è vero nelle economie non sviluppate o in quelle cosiddette in via di sviluppo; tuttavia, come testimoniamo i dati sulla produzione industriale in tutta Europa come negli USA, il settore secondario è ancora oggi il core business della produzione capitalistica. Se a ciò si aggiunge che un numero rilevantissimo di lavoratori vengono in maniera inappropriata ricondotti dalle statistiche al settore terziario ( si pensi, a titolo di esempio, a tutte le attività aziendali date in affidamento a società terze che vengono classificate in contabilità nazionale sotto la voce “servizi”, malgrado il lavoratore impiegato sia tutt’altro che un terziarizzato come comunemente si potrebbe intendere), il quadro che ne risulta non pare affatto indebolire la produzione industriale, che non può certamente estinguersi in un quadro di sviluppo capitalistico.

 

 

 

Sull’evoluzione del capitalismo dai suoi albori sul finire del XVIII secolo ai giorni nostri non ci sono dubbi; lo sviluppo di nuovi metodi e modelli è insito nella stessa struttura del capitale, che necessita di assicurarsi sempre nuovi margini di profittabilità per sopperire alla caduta tendenziale del saggio di profitto.

 

Più che parlare di era post-moderna preferisco parlare di terza rivoluzione industriale, un rivolgimento del modello di produzione all’insegna della tecnologia dell’informazione, ma che non perde il suo lato “industriale”. La terza rivoluzione industriale, sviluppatasi particolarmente negli anni ’80, non ha estinto il luogo fabbrica, ma l’ha sicuramente modificato, portando alle estreme conseguenze il processo di spogliamento del lavoro contro la potenza dispiegata del capitale già implementato dalla seconda rivoluzione attraverso la fase fordista della catena di montaggio e la successiva fase taylorista. La terza rivoluzione industriale porta con sé l’automatizzazione dei processi, facendo cadere il meccanismo di controllo sul processo produttivo che il lavoratore manteneva negli anni dell’organizzazione scientifica del lavoro.

 

La sempre maggiore importanza che il fattore “conoscenza” assume a partire dagli anni ’80 porta a un’espansione globale senza precedenti che attraversa cultura, geografia e classi, estendendo il dominio sociale oltre la sfera della produzione. Di fronte a simili sconvolgimenti, tutte le teorie economiche, da quelle classiche, alle neoclassiche e alle keynesiane non si adattano alle dinamiche dello sviluppo nella produzione delle conoscenze.

 

Ragionando da una prospettiva marxiana, il lavoro è sempre lavoro astratto, determinante del valore della merce, ma sempre indistinto e indifferenziato. Da questo punto di vista la conoscenza è classificabile come lavoro complesso o, nelle parole di Marx, come lavoro semplice potenziato che si include al processo di produzione con un elevato grado di produttività e dunque di competitività.

 

È vero, c’è il rischio che perfino nella sinistra di classe si cominci a parlare di post-capitalismo, sostanzialmente rinunciando al ruolo di forza rivoluzionaria credendo che la società della conoscenza e della comunicazione deviante – allo stesso modo di ciò che alcuni sostenevano con la società del Welfare State – sia di per sé stessa già una forma di superamento del capitalismo e della logica del profitto.

 

Dobbiamo pertanto ribadire che la terza rivoluzione industriale si mantiene e anzi è interna e necessaria al modo di produzione capitalistico; la società neoliberista della conoscenza è, in poche parole, una società peculiarmente capitalistica che si caratterizza per aver sottomesso l’attività spirituale dell’uomo alla relazione mercantile. La produzione di conoscenza risulta così essere nient’altro che produzione di merce; la conoscenza diventa valore-lavoro al pari dell’applicazione di energia umana fisica.

 

Concludendo, è impossibile negare che l’epoca della seconda rivoluzione industriale è finita e bisogna rivedere la concezione di produzione; detto ciò, la fase post-fordista non elimina certamente il conflitto capitale-lavoro, ma anzi lo riconfigura in una forma inedita che, pur non modificandone la natura, impone alla forze anticapitaliste di tutto il Mondo di ripensare le modalità e le forme di intervento nella nuova classe.

 

 

Il capitalismo si evolve mantenendo le proprie caratteristiche fondamentali e, come detto, viene modificandosi sempre più il contesto produttivo. Ha ancora senso parlare nel XXI secolo di imperialismo come sistema, alla stessa maniera di come hanno fatto in passato Marx e Lenin con i suoi famosi cinque punti?

 

«1) la concentrazione della produzione e del capitale, che ha raggiunto un grado talmente alto di sviluppo da creare i monopoli con funzione decisiva nella vita economica;

 

2) la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi, sulla base di questo “capitale finanziario”, di un’oligarchia finanziaria;

 

3) la grande importanza acquistata dall’esportazione di capitale in confronto con l’esportazione di merci;

 

4) il sorgere di associazioni monopolistiche internazionali di capitalisti, che si ripartiscono il mondo;

 

5) la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.

 

L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo, in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è cominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici.»7

 

 

L’analisi dell’imperialismo, che Lenin mutua da Marx va sicuramente rivista e attualizzata, ma nei punti chiavi rimane senz’altro valida. Lenin nell’opera che dedicò alla questione individuò in maniera molto precisa cinque segni economici dell’imperialismo che pongono una differenza fra la società borghese nella sua fase monopolistica e il capitalismo basato sulla libera concorrenza.

 

In tutta franchezza, non mi sento di poter smentire o criticare questi 5 punti; sono tutti assolutamente attuali e anzi si si adattano perfettamente a descrivere lo sviluppo storico della società capitalistica del XXI secolo e il sistema economico nella sua fase di crisi strutturale. La concentrazione del capitale è un dato di fatto nell’era delle grandi corporations, delle multinazionali capaci di modificare significativamente le condizioni di mercato, forti di un reddito prodotto che può arrivare addirittura a essere maggiore del PIL di uno Stato di medie dimensioni. Tutti i recenti eventi economico-finanziari nella crisi – dallo scoppio della bolla cinese fino all’affaire Volkswagen – ci insegnano che, a dispetto di quanto sostenevano molti economisti prima del 2008, non si possano separare il piano economico-produttivo e quello finanziario, in quanto entrambi sono espressione degli stessi aspetti produttivi e riproduttivi del capitale. Specie dopo la caduta del blocco sovietico sono emersi chiaramente quelle che sono le caratteristiche del nuovo capitalismo mercantilista e finanziario: una grande propensione a modelli export-oriented (come testimoniato dal modello germano-nipponico) in un quadro in cui prevalgono pochi poli imperialisti.

 

In un altro scritto sull’argomento, Lenin annota:

 

L’imperialismo è la fase suprema dello sviluppo del capitalismo. Il capitale ha sorpassato nei paesi avanzati i limiti degli Stati nazionali, ha sostituito alla concorrenza il monopolio, creando tutte le premesse oggettive per l’attuazione del socialismo.”8

 

L’analisi delle premesse oggettive può essere dibattuta, ma ciò che risulta davvero rilevante è l’incredibile attualità delle prime righe: l’imperialismo sorpassa gli Stati nazionali come di fatto è avvenuto dopo la Seconda Guerra Mondiale e, come invece è accaduto negli anni ’70 e ’80 con il crollo del Welfare State, eleva al massimo grado la valorizzazione del capitale, liberandosi progressivamente di ciò che ritiene superfluo: i diritti, laddove i rapporti di forza siano sbilanciati a favore dei capitalisti, ma anche lo stesso Stato borghese.

 

Riassumere e attualizzare in queste poche righe un concetto chiave della teoria marxista è sicuramente fuorviante, ma è utile quantomeno per rilevare che le logiche dell’imperialismo sono attuali e in espansione anche negli anni della terza rivoluzione industriale.

 

L’imperialismo è un modus operandi del capitalismo; continueremo a sottostare a logiche imperialiste fino a quando esisterà il modo di produzione capitalistico. Esempi di imperialismo si hanno oggi dovunque vi siano guerre militari,economiche, finanziario-monetarie, sociali, fomentate o “portate” dall’Occidente del capitale: penso in particolare all’Ucraina e alla Siria, al momento al centro del dibattito internazionale, ma anche a vaste aree del Medio Oriente e dell’Africa e in particolare del Nord Africa delle cosiddette “Primavere arabe”,o con la guerra economica come ad esempio contro il Venezuela, Cuba e tutti i Paesi dell’ALBA.

 

Vorrei soffermarmi in particolare sulla Siria, caso drammatico che racchiude un altro elemento individuato da Lenin, ossia la caratteristica dell’imperialismo di sfruttare in maniera sistematica i lavoratori più poveri e immigrati. Lenin fa notare come l’imperialismo determini “il parassitismo dei paesi imperialisti ricchi che corrompono anche una parte dei propri lavoratori con paghe e retribuzioni più alte, mentre sfruttano oltre misura e senza ritegno il lavoro degli operai stranieri a buon mercato”9. Inutile dire come una simile intuizione risulti oltremodo attuale, in un tempo il conflitto bellico potrebbe risultare assolutamente utile e funzionale alla risoluzione totale o parziale della crisi di sovrapproduzione. A cosa sono funzionali i milioni di profughi in fuga dalle guerre create dallo stesso Occidente se non a costituire forza lavoro a basso costo nei Paesi che li accoglieranno?

 

Ragionare in questi termini, leggendo come l’evoluzione storica del capitalismo stia tendendo al monopolio come già scriveva Lenin cento anni fa, significa porre in essere quella necessaria attualizzazione al presente delle logiche imperialiste.

 

Quale è e quale sarà nei prossimi anni il ruolo che gli intellettuali militanti dovranno ricoprire dentro e contro questa crisi?

 

L’attuale crisi sistemica ha consegnato un grande compito ai marxisti, ai critici dell’economia e a tutti gli intellettuali militanti: contro la disumanità di questo sviluppismo capitalistico e contemporaneamente prendendo le distanze da soluzioni contigue a questo modo di produzione, abbiamo oggi il compito storico di portare avanti uno scontro teorico che rimetta l’uomo e i suoi bisogni al centro di ogni analisi sociale e politico-economica. L’importanza dell’affermazione delle teorie che mirano al superamento del capitalismo non è assolutamente figlia di una delle tante masturbazioni intellettuali che spesso pervadono gli ambienti accademici; tanto più perché una simile svolta teorica non può nascere e morire nelle accademie, ma deve riguardare l’intera intellettualità militante.

 

Da questo punto di vista si pone il problema dell’intellettuale e soprattutto dell’intellettuale organico alla classe sfruttata, interprete ma allo stesso tempo motore della realtà; l’intellettuale militante elabora analisi, ricerche, teorie, ma le va a verificare sul campo nelle dinamiche della lotta di classe, vicino ai movimenti di lotta, ai movimenti sindacali conflittuali.

 

Detto questo non bisogna solo teorizzare, ma anzi è ben importante il processo all’inverso: stare all’interno dei movimenti sociali, del lavoro e del lavoro negato, apprendere quali sono le contraddizioni reali, non teoriche, e basare nell’analisi sul campo le proprie elaborazioni. Da molti anni seguiamo questo metodo con tanti intellettuali militanti della Rete Internazionale in Difesa dell’Umanità, costituitasi parallelamente all’ALBA nel 2004, con cui abbiamo analizzato le varie condizioni e ricadute socio-politiche della crisi internazionale.

 

Sintetizzando quanto detto, direi che oggi le dinamiche dello sviluppo capitalistico pongono la figura dell’intellettuale davanti il ruolo particolarmente importante di motore di uno sforzo teorico, è vero, ma con radici fortemente consolidate nella prassi, in quello che Lenin chiamava il “grigio lavoro quotidiano”.

 

 

La quotidianità ci consegna in Italia e in Europa una situazione tutt’altro che rosea: i movimenti operai e sociali, i partiti che si professano anticapitalisti e tutte le forze politiche che si rifanno alla tradizione e all’analisi marxista (per quanto possa essere esteso e variegato lo spettro della definizione) vivono oggi una fase di forte riflusso. Gramsci nel celebre quaderno 13 annotava: “Si può escludere che, di per se stesse, le crisi economiche immediate producano eventi fondamentali; solo possono creare un terreno più favorevole alla diffusione di certi modi di pensare, di impostare e risolvere le quistioni che coinvolgono tutto l’ulteriore sviluppo della vita statale.”10 La storia recente pare confermare l’analisi gramsciana: le crisi economiche provocano raramente sconvolgimenti rivoluzionari, contrariamente a quanto possa essere suggerire il senso comune, ma anzi costituiscono periodi maggiormente favorevoli alle forze reazionarie che a quelle rivoluzionarie.

 

Davanti un quadro simile, quale deve essere il ruolo strategico delle forze anticapitaliste nella crisi?

 

Quanto dici è vero, ma l’eventualità che le crisi non generino eventi rivoluzionari non giustifica l’abbandono del piano alto della trasformazione radicale e delle potenzialità per la costruzione di una fase di transizione verso il socialismo. Al contrario oggi più che in passato si pone con maggiore forza la necessità di “volare alto”, ma con i piedi saldamente piantati a terra, nella materialità delle cittadelle imperialiste in cui viviamo noi militanti europei.

 

Proprio la prassi gramsciana ci ha insegnato che i tre fronti in cui si articola il processo rivoluzionario non possono essere slegati dalle condizioni con cui si trovano a convivere ed entro le quali agiscono le forze che si battono per il superamento del capitalismo.

 

La sinistra anticapitalista, sia in Italia che più in generale in Europa, deve fare i conti con un protagonismo movimentista affermatosi in modo particolare sopra la forma partito dopo il crollo del blocco sovietico. In un quadro simile, con un livello culturale e una coscienza di classe ai minimi termini, riproporre oggi la struttura del partito di massa può essere un grave errore strategico. Il problema dell’organizzazione politica non è quantitativo, ma qualitativo; in tal senso riprendere oggi l’insegnamento di Gramsci significa affrontare nello specifico le quistioni della formazione e dell’autoformazione, della preparazione dei quadri, con un’etica e una precisa disciplina rivoluzionaria.

 

In questo identifichiamo la battaglia cruciale delle idee rivoluzionarie contro l’eurocentrismo di sinistra , contro l’euroriformismo , e ci piace essere definiti eurochavisti nella costruzione di un blocco storico di classe in Europa che sappia cresre l’egemonia culturale per la presa del potere .

 

È attraverso questi processi di sviluppo qualitativo dell’organizzazione e non attraverso la sua determinazione formale che si costruisce l’avanguardia in stretto rapporto con la classe o, per riprendere un’altra espressione gramsciana, il Principe Moderno.

 

Ciò che rimane della prassi gramsciana è ancora la necessità della rivoluzione come processo di presa del potere finalizzata alla costruzione della società socialista pacifica e alla costruzione dell’uomo “nuovo” , per vivere da subito rivoluzione come profondo atto di amore; ecco ritornare così il grande pensiero e pratica di lotta quotidiana del Comandante Chavez, e meglio capire perché mi onora e ci onora essere chiamati i fondatori dell’eurochavismo.

 

Cos’è precisamente la rivoluzione e, nello specifico, la rivoluzione socialista? Per chi si pone nei termini dell’egemonia di classe, rivoluzione è prima di tutto la capacità di individuare e favorire un cambiamento di blocco storico come hanno saputo fare grandi rivoluzionari come Fidel, Chavez, Evo Morales.

 

Nei tempi della fallace teorizzazione della “società liquida”, particolarmente importante diventa studiare la reale composizione e articolazione della classe e della massa che deve porsi il ruolo storico di prendere il potere. La domanda non dev’essere con quali gruppi e gruppetti interfacciarsi nelle manifestazioni e in tutte le nostre iniziative, ma con quali classi e frazioni di classi intendiamo costruire il blocco sociale, con quali mezzi intendiamo imporre in nostro tentativo rivoluzionario, la necessità del nostro ruolo egemonico.

 

Antonio Gramsci non è il Gramsci che si studia nelle aule universitarie e si elogia nei concili istituzionali, quell’intellettuale che si è limitato ad analizzare le contraddizioni del fascismo, pagandone le conseguenze; ridurre il pensiero gramsciano a questi scarsi resti equivale a commettere un errore imperdonabile. L’Antonio Gramsci con cui cerco di interfacciarmi quotidianamente è al contrario un convinto rivoluzionario, finissimo intellettuale militante che non solo ha colto in maniera lucidissima le contraddizioni del sistema capitalistico, ma ha impiegato lui stesso nella prassi quotidiana l’intero apparato teorico marxista unitamente a ciò che lui stesso ha teorizzato, organizzando le forze rivoluzionarie italiane in quello che nel Congresso di Livorno del 1921 sarebbe diventato il Partito Comunista e continuo costruttore dell’idea, del soggetto storico e della pratica dell’intellettuale collettivo.

 

Oggi le teorie gramsciane continuano a parlarci e a guidare il nostro ruolo di intellettuali militanti; se ai giorni nostri ci sono difficoltà nel rifondare il Partito Comunista o comunque il partito della classe il problema non è di natura tecnica, ma esclusivamente politico e di divenire storico. È in virtù di ciò che è necessario e urgente riprendere i concetti gramsciani della filosofia della prassi. A mio avviso l’organizzazione della classe transita, ancora attraverso il divenire storico, nella forma del Partito Comunista, in una costruzione che oggi più che in passato si identifica nel soggetto politico rivoluzionario internazionale.

 

Rimettere al centro il problema politico significa ripartire dalla pratica costruendo egemonia nella società per la transizione, interagendo per organizzare la resistenza e sviluppare la nuova cultura egemonica non solo per il governo della società ma per la presa e la gestione del potere di classe. Ecco il significato storico svolto nella pratica della lotta di classe per il potere da grandi Comandanti rivoluzionari come Fidel, Evo, Chavez. Ecco perché parliamo di costruire processi di accumulazione delle forze di classe per determinare nell’eurochavismo , o nell’autoderminazione per il socialismo possibile percorsi verso l’ALBA Mediterranea nel riferimento all’ALBA Indo-Afro-Americana .

 

 

Di per sé la stessa idea di un intellettuale organico, che muove le proprie analisi dentro e per la propria classe, confligge con l’idea di neutralità della scienza.

 

Non Le appare contraddittorio pensare che possa realizzarsi una svolta teorica che Lei auspica in assenza di una chiara oggettività scientifica?

 

Quando rifletto sull’ontologia della ricerca scientifica non posso evitare di pensare al mio maestro, Federico Caffè che, riprendendo ed estendendo una locuzione di Knight, sosteneva nelle su Lezioni di politica economica che ogni scienza- non solo l’economia- deve avere sì come fine ultimo quello di comprendere e spiegare i fenomeni, ma nella prospettiva di far uso della conoscenza come guida all’azione.

 

Nella specificità della scienza economica va sottolineato che questa va collocata fra le scienze umane, non fra le scienza matematiche. Un simile equivoco, portato avanti dalla stragrande maggioranza degli economisti (a prescindere dalla loro appartenenza) può generare enormi distorsioni sia nelle analisi accademiche sia nelle analisi politiche. Spacciare una materia che tante implicazioni ha sulla vita sociale e politica per una scienza dotata di regolarità “naturali” – al pari, ad esempio, della fisica- è un’operazione fuorviante volta unicamente a mascherare l’ideologia sottostante allo studio dell’economia borghese.

 

L’oggettività scientifica è una presa in giro, dal momento che la scienza economica non è mai stata neutrale: ciò che si insegna nelle aule universitarie occidentali è, al netto di rarissime eccezioni, discorso dominante, finalizzato al mantenimento del potere politico ed economico delle classi dominanti. Chi ha letto Marx sa perfettamente che l’economia politica è già dai tempi di Adam Smith economia borghese, impregnata dagli albori di un elemento ideologico che ignora le cause dello sfruttamento.

 

Una svolta teorica, l’affermarsi di un nuovo pensiero non è stato mai caratterizzato da una impossibile rigorosità scientifica. Faccio un esempio: il passaggio dalla fase keynesiana al monetarismo è stato figlio solo marginalmente di una rivoluzione teorica, con l’affermarsi del pensiero di Milton Friedman, della teoria quantitativa, della Curva di Phillips derivata per le aspettative, eccetera. Ciò che è stato davvero motore del cambiamento di paradigma economico è stato lo sviluppo stesso del modo di produzione capitalistico, che in quegli anni richiedeva meno controlli e meno intervento pubblico. Il fatto che l’esempio riguardi due modelli che non mettono in discussione la legittimità del sistema capitalistico non implica assolutamente che l’esempio non sia estendibile a un sommovimento teorico che miri al superamento di questo modo di produzione.

 

Il passaggio a un paradigma politico, sociale, economico e culturale altro in senso rivoluzionario rispetto a quello dello sviluppo capitalistico non può assolutamente farsi ingabbiare da pretese di purezza scientifica, specie perché la scienza del capitale è una non-scienza, in quanto non si interroga sulle basi dei sistemi, non spinge le proprie analisi in quell’elemento peculiarmente umano che è l’ideologia.

 

Le teorie economiche, qualsiasi esse siano, mirano al riconoscimento delle dinamiche del sistema capitalistico con l’unico fine di introdurre correttivi in grado di far funzionare un sistema instabile. Quest’impresa, peraltro impossibile, non può appartenere ai critici dell’economia e a tutti coloro che vogliono creare una discontinuità reale con questo modo di produzione.

 

 

Alla luce di quanto detto, come dovremmo dunque relazionare Marx, Marxismo e Scienza?

 

C’è chi dice che Marx sia stato il primo scienziato del sociale, chi gli affibbia la paternità di scienze come l’economia, la sociologia, l’antropologia, chi sostiene che la filosofia dopo Marx esce totalmente rivoluzionata, ecc. Tutte analisi più o meno condivisibili, non lo nego; dire però che il marxismo è pura scientificità, distinguendo il Marx filosofo, il Marx economista, il Marx antropologo e così via è una grandissima sofisticazione. Portare avanti un simile tentativo non può che sminuire e decontestualizzare quello che è stato ed è il più grande progetto di emancipazione umana. Il processo da cui Marx muove la sua analisi è sia teorico che materiale: scindere i due piani, separare e categorizzare non può in alcun modo portare ad avere un quadro chiaro dell’intero pensiero marxiano.

 

Il materialismo come terreno del cambiamento radicale delle condizioni materiali non può rimanere sulla carta, così come l’emancipazione dell’umanità non può realizzarsi senza analizzare le condizioni materiali. È chiaro come questo cambiamento volto all’emancipazione dell’intera umanità non sia affatto scientificamente dato; per realizzarsi necessita di soggettività organizzate e coscienti che possano accelerare i tempi della Storia, evitando che crisi come quella che stiamo vivendo possano durare ancora per secoli.

 

La svolta teorica di cui abbiamo parlato precedentemente non potrà mai esser tale se non si accompagna a una svolta politica che, a mio avviso, passa ancora per la forma partito come rappresentazione e organizzazione della classe sfruttata. In assenza di organizzazione continueremo a dover muovere le nostre analisi e la nostra azione politica all’interno di una “società” che non può che starci stretta; il concetto di “società”, infatti, è sempre troppo generico e fuorviante in quanto non fa i conti con la scientificità del materialismo storico.

 

Non mi interessa il cittadino, non è una categoria che sta nelle mie corde,mi interessano le problematiche di classe di chi vive, o meglio si addanna per sopravvivere, del proprio lavoro o del lavoro negato. È dalla classe sociale e in special modo dalla classe lavoratrice che dobbiamo far partire la teoria e la prassi, non da un concetto interclassista qual è quello di società.

 

 

Mi perdoni, ma dall’analisi che fa la Scienza con la S maiuscola pare uscire impoverita, addirittura svuotata del suo compito più alto, quello di comprensione dei fenomeni, di qualsiasi tipo essi siano (fisici, chimici, sociali, ecc.). Qualcuno potrebbe obiettare che la Sua idea di Marx, il suo definirsi intellettuale militante, la Sua analisi volutamente di parte siano tutto fuorché scientifiche. Come risponderebbe a una simile critica?

 

Francamente sarebbe una critica idiota, e d’altra parte mia madre contadina mi insegnava e sempre mi ricordava il detto popolare che “la mamma del cretino è sempre incinta”.

 

Proprio perché comunista so che il metodo di Marx con cui mi interfaccio quotidianamente è incontrovertibilmente scientifico. La critica dell’economia politica borghese a cui Marx dedicò tante energie e sforzi intellettuali, critica che è tuttora attualissima e necessaria, ha tutti gli elementi di cui ogni pensiero scientifico deve essere dotato: razionalità, scrupolo, serietà e soprattutto una rigorosa analisi scientifica. Ciò che rende Scienza la critica marxiana – e al contrario degrada a opinione la non-scienza del Capitale – è proprio la pretesa e la capacità di leggere i fenomeni sociali inquadrandoli in una precisa ideologia, identificando le contraddizioni del modo di produzione e muovendo da queste per risolverle e sorpassarle.

 

Come intellettuale militante e critico dell’economia in quanto marxista, non posso che tentare di seguire lo stesso metodo. Analogamente agli anni in cui Marx scriveva le sue opere più importanti, oggi viviamo sotto le stesse condizioni economiche e nello stesso modo di produzione; tuttavia, le differenze dettate da due secoli di sviluppo capitalistico sono enormi. Senza dotarci del rigoroso metodo scientifico che Marx ci ha fornito le nostre analisi si ridurrebbero alla critica della degenerazione morale, della disgregazione sociale ed etica e di tutti gli aspetti più disumani della società del Capitale: a tal fine risulta lampante come decadano tutte le esigenze teoriche e pratiche volte all’eliminazione delle contraddizioni in essere.

 

In altre parole, il nostro ruolo secolare non sarebbe più quello di militanti impegnati nel superamento strategico del capitalismo, ma solo di buoni benefattori cattolici, o dogmatici religiosi di varia specie.

 

Dotarci solamente del nucleo di conoscenze scientifiche necessarie per comprendere il funzionamento basilare del modo di produzione capitalistico è altresì insufficiente: le dinamiche dello sviluppo capitalistico richiedono una attualizzazione al presente della teoria del modo di produzione, un adeguamento dell’analisi leniniana dell’imperialismo, in generale un nuovo assetto teorico che, alla luce di ciò che è stato nel bene e nel male il Novecento per i movimenti operai, possa guidare gli attori della trasformazione contemporanea verso il Socialismo possibile nel XXI secolo e per i diritti all’autodeterminazione popolare dell’intera umanità.

 

 

La Storia, la S maiuscola non è casuale, non è fatta di supposizioni, è vero. Vorrei tuttavia avanzare un’ipotesi sicuramente improbabile, ma che apre un sostanziale problema di politica economica: se domani i movimenti e i partiti che si battono per il superamento del capitalismo dovessero arrivare alla conquista del potere in un qualsiasi Paese a capitalismo maturo dell’Europa o, ancora meglio, si riuscisse a prendere il potere in tutto il Vecchio Continente cosa si dovrebbe fare? Adottare le “solite” politiche di controllo dei capitali, procedendo alle nazionalizzazioni e a una rigorosa pianificazione economica o sarebbe il caso di adottare nuove modalità di azione?

 

Vorrei chiarire questo punto, su cui la sinistra di classe risulta spesso confusa e su cui si troppo spesso nascono dibattiti e incomprensioni: il metodo scientifico di Marx individua un preciso divenire politico rivoluzionario che non può assolutamente prescindere da forme opportune e contestuali di pianificazione economico-sociale di stampo socialista.

 

Pianificare di per sé è un termine vuoto, neutrale, di cui non dovremmo assolutamente avere paura, come invece avviene spesso dopo il crollo del socialismo reale. Il mercato pianifica, le imprese – specie le multinazionali – non potrebbero in alcun modo fronteggiare la concorrenza senza una precisa programmazione e pianificazione economico-finanziaria. Non è pertanto sufficiente pianificare, ma farlo in un’ottica di superamento delle logiche di mercato, sulla strada de socialismo possibile nel XXI secolo. È importante porre questa demarcazione netta fra regolazione e pianificazione nella società del capitale e nella società socialista.

 

Ciò che cambia sopra ogni altra cosa sono le finalità: mentre la pianificazione effettuata dalle imprese ha come fine unico la valorizzazione illimitata del capitale per sopperire alla caduta tendenziale del saggio di profitto, la pianificazione socialista ha sopra ogni altro scopo quello di essere uno strumento al servizio della classe per ottenere o mantenere la proprietà dei mezzi di produzione.

 

Il problema della pianificazione è fondamentale in una fase rivoluzionaria e successiva alla presa del potere, accompagnandosi alle già citate politiche di nazionalizzazione e di controllo dei movimenti di capitale; è altresì altrettanto importante in una fase non rivoluzionaria e particolarmente di riflusso e riorganizzazione delle forze rivoluzionarie com’è quella che viviamo in questo momento.

 

Pianificare in senso di rottura e di gestione rivoluzionaria ,come anche se con i loro limiti e contraddizioni stanno facendo oggi i governi per la transizione socialista dei paesi dell’ALBA, oggi significa prima di tutto avere la capacità di mantenere il piano alto della trasformazione RADICALE,senza per questo trascurare le condizioni reali dettate dagli attuali rapporti di forza. Senza una pianificazione razionale i partiti, i movimenti e le realtà anticapitaliste di cui facciamo parte risultano privi di una bussola che consenta di guardare in prospettiva. Solo la pianificazione consente, come dicevamo prima, di volare alto, ma con i piedi saldamente piantati per terra.

 

 

La realtà oggi ci consegna in Europa un quadro particolarmente complesso: da un lato il fallimento del governo a guida Syriza in Grecia che non è riuscito a incidere in maniera decisiva nelle trattative con le istituzioni europee, dall’altro una realtà politica che si va affermando come primo partito in Spagna- Podemos- che molto, ma solo ad una lettura poco attenta e di facciata, si rifà alle soggettività post-capitalistiche dell’America Latina. Inoltre, notizia di qualche giorno fa è la vittoria per la leadership del Labour di Jeremy Corbyn, un esponente della sinistra radicale inglese.

 

La Third Way di Tony Blair sembra aver perso nelle sinistre di mezza Europa quel mordente che poteva vantare negli anni passati (unica eccezione forse è rappresentata proprio dall’Italia a guida Renzi). Seppur non si possa parlare di una chiara soggettività anticapitalista non si può negare che in Europa- e non solo nell’Europa dei PIGS- vanno affermandosi spinte al cambiamento e, in alcuni casi, al sovvertimento di questa Unione Europea.

 

Come dovranno interfacciarsi le intellettualità militanti e le forze politiche sinceramente marxiste e rivoluzionarie con questi processi in atto?

 

Vorrei prioritariamente partire dalla situazione greca, che rimane ancora la chiave di volta per comprendere e individuare le contraddizioni che si muovono in questa Europa. Come già detto in un’altra intervista11 il governo Tsipras ha fallito, anche per il suo approccio fondamentalmente eurocentrico-riformista nel quadro politico dell’Unione Europea.

 

Ciò significa forse che le sinistre in Europa non dovranno più tentare di sfidare la cosiddetta Troika, che le intellettualità militanti europee dovranno abbandonare il già debole tentativo di sfida alle élite capitalistiche? Assolutamente no! L’errore commesso dai quadri politici greci non è stato quello della troppa audacia, ma della scarsa capacità di analizzare il carattere oppressivo della gabbia europea.

 

Come abbiamo più volte sottolineato l’Unione Europea è stata e continua a essere un progetto finalizzato al consolidamento strategico del polo imperialista funzionale e strumento della borghesia transnazionale europea; a queste condizioni non c’è alcuno spazio di trattativa né di riformabilità in senso democratico e progressista della UE.

 

A questo proposito permettimi ancora un breve passaggio su Corbyn. È vero come dici che la vittoria alle primarie del Labour del leader di sinistra seppellisce definitivamente la terza via blairiana; tuttavia basta leggere pochi approfondimenti, specie quelli delle riviste borghesi (notoriamente più solerti a cogliere il lato economico di ogni processo politico), per capire che la proposta di Corbyn, per quanto radicale, è essenzialmente keynesiana. La Corbynomics12, anche se prevede programmi minimi di nazionalizzazione, è essenzialmente basata su programmi di investimento che, anche se orientati al sociale, riconducono la crisi economica a fattori di sottoconsumo, come erroneamente ritenuto dai keynesiani e dai post-keynesiani, e non da sovrapproduzione. È senz’altro positivo che si sia aperto un nuovo spiraglio nel panorama politico europeo, ma eviterei di esaltarsi per un diverso eurocentrismo-riformista del “nuovo” Labour Party di Jeremy Corbyn.

 

E questa stessa è stata l’idea guida dell’euroriformismo del governo a guida Syriza, dopo aver suscitato grandi speranze nell’intera Europa, rischia di far avvitare le sinistre d’alternativa in un panorama ancora più arrendevole, su un piano strategico che potrebbe abbassarsi su livelli inaccettabili per delle forze rappresentatrici della classe sfruttata.

 

Dico ciò perché ho avuto modo di interloquire a lungo, proprio a seguito del fallimento del governo greco, con molti militanti e compagni spagnoli e in genere in molti Paesi europei: la loro argomentazione era sostanzialmente incentrata sull’impossibilità di sfidare la Troika visto il fallimento greco e sull’opportunità di ripiegare su obiettivi maggiormente compatibili nel quadro dell’Unione Europea, magari prefiggendosi obiettivi di più lungo periodo.

 

Non posso che rifiutare con forza una simile argomentazione. In Spagna i movimenti sociali sono forti e, anche se fra mille criticità, un partito come Podemos potrebbe ottenere la maggioranza dei voti alle elezioni politiche di novembre; ma non bisogna assolutamente rinunciare al piano alto della rottura e uscita dall’euro e dall’UE nel quadro di una prospettiva di transizione verso il socialismo.

 

Tsipras e il suo governo in Grecia hanno fallito non perché hanno osato sfidare la Troika e le sue regole, ma perché lo hanno fatto senza mettere davvero in discussioni le basi e la legittimità a esistere di questo polo imperialista; il problema alla base del fallimento del tentativo greco sta tutto nell’aver accettato di trattare con istituzioni con cui si può solo rompere e, inoltre, di avere trattato inadeguatamente e senza una chiara prospettiva politica ed economica.

 

Il caso greco non ci dice che la sinistra di classe non debba più osare mettere in discussione il funzionamento degli apparati capitalistici, ma ci dice al contrario di farlo con maggior vigore e determinazione. I compagni spagnoli, dalla sinistra di Podemos sino agli altri partiti anticapitalisti e ai movimenti sociali devono tener conto che il ruolo storico che hanno in questa fase delicatissima è quella di mantenere il piano alto della trasformazione per i percorsi verso la transizione al socialismo, tenendo sì a mente quelle che sono le condizioni materiali in cui si colloca l’agire politico, ma non arrendendosi a facili autocommiserazioni.

 

Da quanto detto in questa lunga e ragionata intervista , di cui ti ringrazio sinceramente con la testa e con il cuore per la sua profondità anche di riaffermazione della necessità dello studio della teoria della prassi , o filosofia della prassi meglio, emerge come la strada per il Socialismo sia lunga e tutto sommato possa sembrare molto in salita, ma in una fase di crisi sistemica del Capitale le sinistre di classe di tutto il mondo non possono che tentare di ottenere il massimo: è il loro preciso ruolo storico, un fallimento ora potrebbe con tutta probabilità portare l’intera umanità verso un periodo più o meno lungo di barbarie.

 

È vero che la coscienza di classe è oggi molto bassa e i rapporti di forza assolutamente sfavorevoli, specie nei Paesi occidentali, ma ciò non può in alcun modo non può far rinunciare a percorrere la strada verso il Socialismo possibile – perchè necessario – del XXI secolo. Le esigenze di sviluppo e sovrapproduzione del capitalismo creano molte delle basi oggettive per rovesciare questo modo di produzione: ora tocca a noi, come recita una famosa frase attribuita a Lenin, dare alla Storia la spinta di cui ha bisogno.

 

Ecco il perchè della nostra nobile Utopia , con la U maiuscola , per camminare nei processi e percorsi dell’ internazionalismo proletario per la costruzione dell’ALBA Mediterranea , in una impostazione anche eurochavista , avendo da subito la capacità di saper determinare rapporti di forza per determinare l’uscita dall’ euro e dalla UE, in modo da conquistare qui ed ora spazi di potere di classe :

 

CADA NUEVO ESPACIO , UN ESPACIO SOCIALISTA “, come insegnava e praticava il Comandante Chavez.

 

Roma, ottobre 2015

 

1 CARMEN M. REINHART & KENNETH S. ROGOFF, This Time Is Different: Eight Centuries of Financial Folly, 2011

 

2 PAUL MATTICK, II nuovo capitalismo e la vecchia lotta di classe, 1969

 

 

4 In Spagna appello intellettuali di sinistra propone di uscire dall’Euro – http://www.controlacrisi.org/notizia/Politica/2013/5/17/33735-in-spagna-appello-intellettuali-di-sinistra-propone-di/

 

 

6 Cfr. ZYGMUND BAUMAN, Modernità liquida, 2002

 

7 LENIN V.I, L’imperialismo – Fase suprema del capitalismo, Par. VII, L’imperialismo, particolare stadio del capitalismo, 1916

 

8 LENIN V.I., La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione “Opere Scelte”, Ed. “Progress”, Mosca 1971- pag. 153-165

 

9 LENIN V.I., L’imperialismo e gli imperialismi, Ed. Progress, Mosca 1985

 

10 ANTONIO GRAMSCI, “Noterelle sulla politica del Machiavelli”, quaderno 13, par. 17

 

11 “A cu’ si fa’ pecura, lu lupu si lu mangia!”- Tsipras doveva rompere la gabbia: accettare le regole della Troika è un suicidio! http://confederazione.usb.it/index.php?id=20&tx_ttnews%5Btt_news%5D=84044&cHash=6d9f13ee48&MP=63-552

 

 

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