Un estratto dall’articolo di Antonio Pennacchi presente in La Russia in Gioco [2004]
Worst case – Prologo
L’altra notte sull’Appia – mentre pensavo ad etica e politica e agli «orrori» di Stalin – all’improvviso m’ha attraversato un volpino. Già non era più un cucciolo, ma ancora nemmeno un adulto: era solo una giovane volpe al suo primo viaggio iniziatico.
La strada era deserta. Lui era sul ciglio di sinistra e viaggiava nel mio stesso senso: avesse scartato di lato – verso il fosso – o avesse proseguito tranquillo, non ci saremmo mai incontrati, ognuno avrebbe continuato la sua strada. Ma i fari, o il motore, lo hanno insospettito: ha scartato a destra, poi a sinistra, poi di nuovo a destra, come gli aveva insegnato la madre per sfuggire ai cani. Ma io non ero un cane, ero una macchina. Ho rallentato, ho tentato leggermente di frenare, ma lui s’è spostato verso il centro. L’ho preso.
Ho tenuto duro il volante dello sterzo – dritto – e l’ho preso. M’ha pianto il cuore, ma non ci ho potuto fare niente. Forse non aveva ancora mai catturato la prima sua preda, forse non aveva ancora mai fatto l’amore, e forse sua madre lo piange. Lui non avrà mai dei figli. Una vita – anche se di volpe – per sempre spezzata. Che ci posso fare? A scuola guida – tanti anni fa – erano stati categorici: «Se vi attraversa un animale non sterzate, non provate ad evitarlo: rallentate e se possibile frenate, ma piano, non a secco, e reggete forte il volante, dritto. Se provaste a sterzare potreste andare fuori strada, ed anche se frenaste a secco. Tenete rigido il volante, puntate dritto sull’animale, perché la botta può farvi sterzare e andare fuori strada. Meglio l’animale che voi».
Se ti attraversa un cristiano invece è diverso, la cosa si fa più complicata, a prescindere dal danno alla carrozzeria che è pure più rilevante. Ma chi è più giusto che debba morire, lui o io? Sul piano etico non è assolutamente rimproverabile il comportamento di chi decide di attenersi alla scuola guida: provi a frenare ma tieni dritto il volante, chi s’è visto s’è visto, mors tua vita mea. L’istinto di sopravvivenza, in fin dei conti, non è un optional che hai scelto tu, te l’ha fornito di serie la casa madre. Certo sarebbe più bello se uno dicesse: «Preferisco morire io piuttosto che ammazzare un altro» (io lo dico tutti i giorni, ma a parole, poi bisogna vedere i fatti).
Certo sarebbe più bello, ma proprio perché non è normale, è un’eccezione, una prestazione di tipo ipererogatorio che ascrive automaticamente chi la compie ai ruoli dell’eroismo e della santità. Ma una persona normale non ha dubbi: tra te e un altro adulto – un essere umano equipollente – che abbia attraversato la strada senza tuo duolo, sei pienamente legittimato a scegliere la sopravvivenza tua. E sia pace naturalmente all’anima sua.
Se però t’attraversa la strada un ragazzino è un altro paio di maniche. Se lo ficchi sotto sei un figlio di puttana. Devi fare di tutto per salvarlo, frenare a secco, sterzare di lato, buttarti tu sotto la tua macchina, ma non lo devi prendere. Devi andare fuori strada a rischio di morire tu, ma salvare lui. Non è più un intervento ipererogatorio, è un tuo preciso e primordiale dovere. Più forte dell’istinto di sopravvivenza c’è quello di conservazione della specie. Fra te e tuo figlio non si discute: devi morire prima tu, e ogni bambino è come se fosse il tuo. E questa è etica.
Ma se tu in macchina non stai da solo, se tu anzi sei alla guida di un autobus pieno di gente e magari di ragazzini – se tu guidi uno scuolabus – e all’improvviso t’attraversa la strada un bambino, tu non hai nessunissima scelta. Devi fare come con il volpino. Tenere il volante dritto e non fare una piega, puntare e tirarlo sotto. Ma devi andare dritto. Prenderlo in pieno. Senza pensarci sopra. È un «worst case», ma pure questa è etica.
Appunti per un Elogium
È chiaro che se uno dice «Gli orrori del comunismo» e si mette a pensare ai gulag, ai milioni di morti, alla vita di stenti, ammassati nelle baracche, poco pane e poco vino, a trenta gradi sotto zero, in mezzo alla steppa o alla tundra siberiana, lavori forzati, migliaia di chilometri a piedi, gli aguzzini che ti sparano, le purghe staliniane, la Ceka o la Ghepeù che ti vengono a prendere nel cuore della notte e ti strappano alla moglie e ai figli, in carcere alla Lubianka, le torture, e poi in Siberia, e guai a chi parla, pure i bambini ti fanno la spia, è chiaro che se uno pensa a tutto questo non può che mettersi le mani nei capelli: «E questi volevano costruire un mondo nuovo e di giustizia? Ma questo è il male assoluto».
È chiaro che è così, e pure a me qualche volta mi vengono dei dubbi: se tu vuoi operare il bene, non è con il male che lo puoi realizzare. Però questa è etica, non è politica, e non è nemmeno storia. La storia è prendere ogni cosa e inquadrarla nel tempo suo, con la corretta valutazione di tutti i fatti e di tutte le relazioni che li hanno in qualche modo determinati. Dice: «Vabbe’, ma qui c’è poco da valutare, basta un minimo di coscienza civile per ribellarsi a certe cose». Ecco: la coscienza civile. Anche quella è un fatto storico, storicamente determinato. Non è che c’è in qualche parte dell’universo una cosa che si chiama coscienza civile e che sta là per tutti i secoli dei secoli, basta andarla a prendere e ce l’hai in mano, buona per sempre.
La coscienza civile è una cosa che segue i tempi, si fa nel tempo e nello spazio, è buona qui e soltanto qui, in questo dato periodo storico. Vent’anni prima o vent’anni dopo è già diversa. Tu non puoi prendere la tua coscienza civile di adesso e misurarci, con quella, ciò che è accaduto in un altro tempo, e magari pure in un altro luogo. La coscienza civile che ha una tribù dell’Amazzonia non è la stessa di un condominio di Roma, il quale a sua volta non ha nemmeno la stessa di un vicolo di Cori. […].
Ora io non è che voglio dire che Stalin era uno stinco di santo. Non lo so. Potrebbe pure essere. Certo per tanto tempo tanta gente s’è pensata, in tutto il mondo, che era un vero benefattore dell’umanità e milioni di persone – nella seconda guerra mondiale e anche dopo, combattendo per la giustizia e la libertà – sono morte con il suo nome sulle labbra. A Beslan, l’altro giorno, dopo l’eccidio, la prima cosa che hanno fatto i parenti delle vittime è un corteo sotto la sua statua, una delle poche rimaste in Russia. Comunque Stalin, forse, non era un santo e se adesso, una sera, venissero da me per portarmi in un gulag, la cosa non mi farebbe sicuramente piacere. Anzi, ripugnerebbe pure alla mia di coscienza civile.
Ma quello che voglio dire è che ogni storia – intesa come racconto, logo o versione – va presa cum grano salis, va spolverata bene e guardata attentamente contro luce, perché le cose spesso non stanno come te le raccontano. E se tu hai tutto il diritto di fare revisionismo storico sul fascismo o sulla Dc, hai però il dovere di applicare le stesse categorie e lo stesso beneficio d’inventario pure sullo stalinismo. Ergo: se ti presenti con il calumet in mano e dici: «Venite qua, sediamoci intorno al tavolo e vediamo di costruire assieme il futuro», è un paio di maniche. Ma se tu ti presenti dicendo: «Viva noi» – intendendo con quel noi gli squilibri del capitalismo e delle tue presunte democrazie, costruite sulle spalle degli uomini e dei popoli più deboli – io non posso che risponderti: «Viva Stalin».
Ma veniamo al dunque. Innanzitutto un minimo di giudizio storico non può non basarsi che su dati certi, verificati e verificabili. Qua invece ci stanno solo numeri al lotto. Quanti siano con precisione i morti presuntamente causati dai gulag e da Stalin, non lo sa nemmeno Vanna Marchi. Tutti dicono «milioni», indefinito, ma un numero e un elenco preciso non c’è. Beato chi lo trova. […].
[Carta di Laura Canali]
Questi storici assai acribici hanno messo nell’elenco dei morti tutti quelli che sono stati trasferiti – compresi i sei milioni di kulaki – dall’Ucraina e dal Volga in Siberia. Magari invece qualcuno campa ancora adesso. E tutti gli altri sono morti nel tempo – perché prima o dopo tutti quanti muoiono – a buon bisogno l’anno scorso, chi in incidente d’auto e chi di infarto o di vecchiaia. Certo qualcuno sarà pure morto all’epoca, per il viaggio, le pene, gli stenti. Ma 15 milioni no, con quelli ci hanno popolato l’Asia e la Siberia. Tu invece dici: «No, è stato Stalin, li ha ammazzati tutti lui, il comunismo, avendoli deportati».
Allora pure mia madre l’ha ammazzata Mussolini. È morta dieci anni fa, però è come se l’avesse ammazzata Mussolini, perché lei era del Veneto ma nel ’32 l’hanno «deportata» in Agro Pontino. In fin dei conti è morta qua, mica in Veneto: è colpa del Duce. Ma che ti dice la capoccia? E Agnelli? Ne ha ammazzati pochi allora Agnelli? Pensa ai milioni di siciliani e calabresi che hanno dovuto lasciare il paesello loro per andare a Mirafiori, ma non contare quelli che sono morti proprio in fabbrica – solo in Fulgorcavi ne sono morti sette – sotto le presse o dentro i laminatoi, o giù dalle impalcature dei cantieri. Tu devi contare quelli che sono morti di vecchiaia – in pensione – e anche quelli che moriranno a Torino negli anni a venire. E mica puoi fare due pesi e due misure. Se vale per Stalin deve valere pure per Agnelli, e la Democrazia cristiana (a parte le bombe di Piazza Fontana).
Dice: «Vabbe’, ma tu non puoi paragonare le deportazioni di Stalin coi normali flussi migratori: il siciliano o calabrese andava al Nord di volontà sua, i kulaki ucraini no». E qua ti sbagli. L’unica differenza è tra dirigismo e fenomeni indotti. […].
Tu perché allora impedisci ai curdi e ai sudanesi di venire oggi qua? Il tuo divieto di venire corrisponde esattamente all’obbligo di andare che gli dava Stalin. Dice: «Ma no, che c’entra, questa è casa mia, ci sono i confini, è un problema di Stati». Sono tutte fesserie. Cosa vuoi che contino i confini, gli Stati, casa mia, casa tua, quando si parla di etica e diritto naturale? Se è diritto naturale è naturale. Mo’ contano pure, agli occhi dell’etica e del cosmo, le linee che tu – in una microscopicissima frazione del Tempo – hai arbitrariarissimamente tracciato su questo sasso sperduto in mezzo all’Universo? Ma vaffallippa va’. Se Stalin non aveva il diritto di mandare i kulaki in Siberia, tu non hai quello di impedire agli africani di venire in Europa.
I cosiddetti kulaki, poi, non erano che i contadini ricchi, i grandi proprietari di terra, e quello invece era uno Stato contrario alla proprietà privata: queste erano le sue leggi, questo il suo fundamentum. Uno Stato non ha il diritto di darsi le leggi che gli pare? C’è chi permette l’aborto e chi lo vieta, chi fabbrica e spaccia alcool e chi invece lo bandisce; gli Usa, fino a tutti gli anni Venti, mettevano in galera i trafficanti d’alcool – l’Arabia Saudita ancora oggi – e un certo giorno, all’improvviso, lo hanno reso legale. Chi gli ha detto niente? Era nel loro pieno diritto. E nel mio pieno diritto era essere contro la proprietà privata, perché io ero lo Stato degli operai e dei contadini, degli sfruttati cioè che s’erano stufati d’essere sfruttati. Dice: «Ma questo ripugna alla mia coscienza democratica e civile». Alla tua, non alla loro (e se è per questo neanche alla mia). La coscienza civile dell’Urss era un’altra, ed era che tutto era di tutti.
Dice: «Ma poi non ha funzionato». Questo è un altro paio di maniche. A un certo punto, effettivamente, non ha più funzionato, poiché tra gli anni Settanta ed Ottanta si è verificata la oggettiva mortificazione, da parte del sistema sovietico, delle cosiddette forze della produzione. Non c’è più stato sviluppo. S’è arrestato. E il «socialismo reale» è quindi caduto non per difetto di libertà – più o meno individuali o più o meno pluralistico-democratiche – ma perché non ha saputo dare il benessere, i tv-color, le macchine, i frigoriferi, le discoteche eccetera: è imploso. Il capitalismo invece no. Qui le forze della produzione si sono amplificate, sono esplose al massimo. Ciò non significa che il capitalismo sia pertanto l’aspirazione suprema del genere umano – la realizzazione in terra della città di Dio – poiché mi pare che qualche problema di squilibrio e tenuta planetaria ce l’abbia pure lui.
I conti però si fanno alla fine – e se non proprio alla fine della Storia, si fanno almeno in termini di tempi storici – ma non è questo il punto. Se è comunque vero che nella sua fase finale – anni Settanta-Ottanta del secolo scorso – il sistema sovietico sia imploso a causa della totale mortificazione delle forze della produzione, è altrettanto vero che dal 1917 fino agli anni Settanta il sistema delle collettivizzazioni e della pianificazione aveva fatto di una Russia affamata e semifeudale la seconda potenza industriale, con l’emancipazione di sterminate masse di diseredati. E questo è un fatto, costituito da innalzamento dei tenori di vita, sistema sanitario, standard abitativi, altissima scolarizzazione di massa e totale giustizia sociale.
Resta comunque che ai kulaki, nella fase iniziale, la proprietà delle terre gli era pure stata lasciata, per tutta la Nep – Nuova politica economica – dal 1921 al 1928. Dovevano però consegnare il grano all’ammasso. E l’ammasso obbligatorio, con prezzo imposto, è una misura che è stata adottata anche, per un certo periodo, non solo dall’Italia fascista ma anche da quella democratica. Non la poteva adottare l’Urss? E invece quelli se lo sono nascosto. Non lo hanno consegnato. Hanno fatto aggiotaggio, aspettando che salissero i prezzi. E hanno affamato le città. C’era la carestia – e intanto ai confini, e pure dentro, imperversavano le Guardie Bianche, le armate di Kornilov e di Denikin, le forze della controrivoluzione pagate dalle potenze capitalistiche – e la gente nelle città moriva di fame (sono questi forse i 6 milioni di morti che dice Rumiz, ma affamati dai kulaki quindi, non da Stalin).
E io, Stato socialista e proletario, non ho il diritto di difendermi e far valere le mie leggi? Macché diritto, ne ho il dovere. E ti mando a lavorare in Siberia, vai. Non è anche dottrina Usa del resto – quella in vigore tuttora a Guantanamo – che «l’integrità del nemico può costare la vita dei nostri»? Dice: «Ma le condizioni di vita erano inumane: fame, stenti, freddo glaciale, lavori forzati, plotoni di esecuzione per chi si ribellava». Non ho difficoltà a credere che ci fosse una certa repressione nei confronti di ogni fenomeno di resistenza o ribellione o repressione, che ripugna naturalmente alla mia coscienza civile di uomo nato e vissuto, per sua fortuna, nell’età e in un paese del benessere acquisito.
Ma le condizioni di vita dell’emigrazione forzata nell’Urss e dell’arcipelago gulag non erano – per quanto estreme – sostanzialmente dissimili dal resto della popolazione sovietica, perlomeno nella stragrande maggior parte. È in tutta la Russia post-zarista che c’era la fame. E c’era da prima. È da lì che parte l’Urss. Dal sottosviluppo. E costruisce lo sviluppo. La seconda potenza industriale ed economica del mondo. Una potenza spaziale. Ma parte dalla fame. Una fame ancora più nera di quella che c’era in Italia nello stesso periodo, dove anche però le condizioni di vita di milioni di persone non sono di molto superiori a quelle del gulag. Basta vedere un qualunque rapporto sulla situazione abitativa: le famiglie ammassate in dieci o più persone in una sola stanza, o capanna, sono la norma in tutte le zone rurali non solo del Centrosud ma anche dell’Altitalia. Pure mio padre nelle Paludi Pontine – dove la gente viveva nelle lestre, capanne di legno, di canne ed arbusti – ha mangiato per anni una sola volta al giorno. E qualche volta nemmeno. Figurati in Russia. Dice: «Ma là faceva freddo». Compa’, l’inverno scorso a Latina è morto un extracomunitario, non si sa se rumeno, polacco o ucraino pure lui. È morto di freddo, assiderato. Lo hanno trovato la mattina in mezzo al parco, tra i cartoni. Ma mica dico che lo ha ammazzato Berlusconi, o il sindaco Zaccheo.
Quello – Stalin – doveva costruire il socialismo «in un solo paese», che era appunto la questione dirimente con Trotzkij, che invece diceva che non si potesse fare, che il socialismo andava costruito in tutto il mondo, che bisognava portare la rivoluzione dappertutto, perché in un solo paese non te lo avrebbero fatto fare e il capitalismo ti avrebbe massacrato. Certo pure a Stalin sarebbe piaciuto farlo dappertutto, ma intanto s’è messo a farlo lì, «in un solo paese», partendo dalla fame e dal sottosviluppo, accerchiato dal capitalismo e coi bastoni pure fra le ruote dei trotzkisti. E in questa situazione – accerchiamento, fame, vere e proprie carestie e sottosviluppo – si è ritrovato alla guida di un paese che aveva alcune aree assolutamente sovrappopolate, con 15 milioni che gli crescevano, e dall’altra parte interminati spazi, pieni d’ogni ricchezza, ogni ben di Dio, miniere, petrolio, ma assolutamente deserti, senza nessuno che li raccogliesse. Mo’, secondo te, non spostava quei 15 milioni?
Morale
Dice: «Io t’avrei voluto vedere a te, che dicevi nei panni di Solzenicyn». Be’, intanto non so se avrei saputo scrivere Una giornata di Ivan Denisovic – un capolavoro della letteratura mondiale – però certo l’arcipelago gulag non mi sarebbe piaciuto e, nei panni di Solzenicyn, avrei tentato di fare il diavolo a quattro pure io. Ma in quelli dell’autista dell’autobus ti ficcavo sotto senza pensarci sopra. Worst case. (continua
L’articolo completo è in un numero di Limes del 2004 La Russia in gioco
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