L’estenuante ciclo elettorale spagnolo iniziato con le municipali e autonomiche del 15 maggio e che aveva avuto un momento centrale nelle autonomiche catalane del 27 settembre è finalmente giunto al suo culmine con le generali del 20 dicembre. Alla luce dei risultati si può affermare che, aldilà delle dichiarazioni ufficiali degli attori e rispettivi simpatizzanti, lo sblocco e il cambiamento che a queste elezioni si chiedeva con tutta probabilità non ci sarà e se si materializzerà non sarà certo nei termini proposti e propagandanti da mesi. L’elettorato spagnolo ha dato ancora una volta la vittoria al Partido Popular (PP) dopo anni di tagli sociali, sacrifici e in piena crisi istituzionale; una vittoria amara perché avvenuta forse più sulla rendita delle scorse elezioni e in piena ritirata su tutti i fronti ma pur sempre una vittoria. Il PP partiva dal 44,6% del 2011 che grazie al sistema elettorale si era materializzato in maggioranza assoluta, 186 seggi su 350. Oggi il partito conservatore è sceso al 28,7% e 123 seggi e per governare avrà bisogno di trovare un partner anche perché non sembrano possibili altre maggioranze, almeno dal punto di vista ideologico e programmatico. Perde voti anche il secondo partito di un sistema politico bipolare oggi frantumato. I socialisti (PSOE) sono scesi dal 28,8% al 22% con 90 seggi, venti in meno rispetto alle scorse generali. Fino ad oggi gli altri seggi si ripartivano tra le formazioni espressione dei nazionalismi sub-statali di varia filiazione politico-ideologica e una Izquierda Unida (IU) anch’essa in grave crisi. La lista frutto dell’alleanza tra comunisti spagnoli (PCE), verdi e altre forze della sinistra alternativa come i catalanisti rossoverdi d’Iniciativa per Catalunya-Esquerra Unida i Alternativa (ICV-EUiA) nel 2011 aveva ottenuto il 6,9% e 11 seggi. Sotto la pressione dei nuovi movimenti sociali anti-austerità cui giornalisticamente è stata affibbiata l’etichetta di indignados IU in seguito ad un lungo processo di dibattito interno ha scommesso per una lista frutto di un interessante e vivo dibattito tra i movimenti, Unidad Popular (UP). I risultati di questa impresa si possono catalogare come disastrosi: un 3,7% e solo 2 seggi, il minimo storico per il PCE e suoi successori. Una parte del tracollo è anche spiegabile con l’assenza dalla lista dei rossoverdi catalani che hanno optato per un’alleanza con Podemos anche se solo 3 degli 11 seggi del 2011 provenivano della Catalogna. Banalizzando, i voti persi dai due grandi partiti e da UP sono finiti ai due nuovi partiti spagnoli, Podemos e Ciudadanos (Cs), i quali, pur essendo la sorpresa delle elezioni, non hanno ribaltato totalmente gli equilibri di forza a favore del cambiamento di cui dicono essere portatori. Entrambi hanno giocato a proiettare un’immagine vincente, in alcuni casi fino alla trovata tutta propagandistica di presentarsi come i futuri partiti di maggioranza relativa o addirittura assoluta. La realtà è un’altra e poco entusiasmante soprattutto per quanto riguarda Cs. L’unico risultato positivo di questa è il consolidamento a livello statale del partito, con il 13,9% e 40 seggi, che fino a qualche mese fa solo rappresentava il voto unionista in Catalogna. In ogni caso poco per un partito che alcuni sondaggi davano come seconda forza politica e che più che altro sembra essere servita a evitare che l’elettorato del PP rimanesse a casa, rendendo possibile così una maggioranza di sinistra in parlamento. Per quanto riguarda Podemos, quella figura ricorrente nei sogni di una sinistra italiana orfana di un partito e sempre bisognosa di miti e riferimenti esterni, le cose risultano ancor più complesse. Nella forchetta di aspettative del partito viola si andava da una più o meno ampia vittoria elettorale alla soglia minima di essere il terzo partito e battere almeno Cs. Questa soglia minima si è compiuta materializzandosi in un 20,7% dei voti e 69 seggi, per giunta a non molta distanza dal PSOE. Un risultato che bisogna però leggere attentamente, in primo luogo perché frutto di un voto in prestito dalle periferie nazionali e dato anche perché Podemos si è presentato in alleanza con altre forze “regionali” e promesso l’apertura al processo referendario in Catalogna. In realtà Podemos in quanto tale ha ottenuto solo il 12,7% dei voti e 42 seggi e tutti gli altri sono frutto di progettualità politiche di confluenza che solitamente il partito viola rifiuta come mostra il fallimento dei negoziati con UP: En Comú Podem in Catalogna (12 seggi) e che avrà anche un gruppo parlamentare proprio, En Marea in Galizia (6 seggi) e la coalizione con i valenzianisti di Compromís a Valencia (9 seggi). I restanti seggi in parlamento vanno ai nazionalisti baschi di centro (EAJ, 6 seggi), alla sinistra abertzale (EH Bildu, 2 seggi), ai nazionalisti canari di Coalición Canaria (1 seggio) e agli indipendentisti catalani (17 seggi) di cui parleremo più avanti. Importante lo scivolone elettorale di EH Bildu che perde più di 100.000 voti e 4 seggi a vantaggio di Podemos. Però il voto per Podemos è un voto in prestito da parte di un elettorato in cerca di vie d’uscita e che può avere investito nel partito viola proprio per sbloccare questioni importanti (fine dell’austerità, riforma costituzionale, autodeterminazione) ma che potrebbe tornare a votare altre opzioni più “di bandiera”.
Dal bipartitismo alla palude?
Con questo scenario ora si aprono all’orizzonte differenti possibilità di aritmetica politica in contraddizione però con le linee politico-ideologiche delle differenti offerte elettorali. Una via d’uscita possibile sarebbe quella della lettura in chiave nazionalista (alcuni direbbero patriottica per farla sembrare meno nazionalista) del voto spagnolo. In realtà, a ben guardare, gli spagnoli hanno votato maggioritariamente per forze politiche che hanno ribadito il loro impegno contro la celebrazione di un referendum per l’autodeterminazione in Catalogna e che non considerano la Catalogna come una nazione e la Spagna come uno stato plurinazionale, concretamente 253 seggi su 350. Con tutti i numeri quindi per riformare la Costituzione. Potrebbe darsi lo scenario quindi di un accordo di ricostruzione nazionale tra PP, Cs e PSOE o anche altre formule, come una grande coalizione tra popolari e socialisti nel caso Cs volesse investire sull’opposizione frontale al governo per accumulare forze in vista del prossimo ciclo elettorale. Potrebbe anche darsi il caso di un governo di minoranza del PP, magari teleguidato dalla Troika, poco legittimato e scarsamente stabile fino alle prossime elezioni ma con una legislatura molto breve ed elezioni anticipate all’orizzonte. Tra gli accordi puntuali tra le forze parlamentari in appoggio di un governo precario potrebbero esserci una serie di norme per la difesa dell’unità della Spagna “contro la sfida secessionista” con il risultato di tenere in vita e comunque al governo la destra spagnola.
Podemos e UP, che portavano nel programma la celebrazione di un referendum catalano (pur sempre nel quadro di una riforma costituzionale o processo costituente di rifondazione dello Stato), ottengono solo 71 seggi. Resta da capire cosa farà Podemos e fino a che punto giungerà la sua capacità di rimodulare programma e principi in base alla necessità di poter influenzare maggioranze e governi o fino a che punto riuscirà a convincere il PSOE della convenienza strategica del riconoscimento della plurinazionalità della Spagna. Come più volte ripetuto e scritto dai leader del partito viola, il loro progetto non è quello di una Catalogna indipendente e la prospettiva è quella di usare il referendum per chiudere la questione dell’indipendenza e rafforzare il legame tra Catalogna e Spagna. La celebrazione di un referendum con vittoria del NO all’indipendenza sarebbe secondo Podemos la maniera migliore per garantire l’unità della Spagna. E infatti una buona parte della questione catalana è rappresentata dalla volontà maggioritaria dei catalani nel dirimere la questione dell’indipendenza attraverso una consulta popolare che entra in conflitto retroalimentato con il rifiuto da parte del governo spagnolo alla possibilità di trasferire competenze in materia all’autonomia catalana o altre vie legali e costituzionali possibili. La maggioranza dei sondaggi in materia danno una leggera vittoria del NO alla secessione. Altra cosa è pensare che queste elezioni abbiano aperto la possibilità di un qualche processo politico in cui possano trovare spazio anche i voti indipendentisti catalani e magari anche i nazionalisti baschi. Tutte queste forze assieme otterrebbero però una maggioranza parlamentare molto frammentata e difficile da tenere assieme in un momento di grandi tensioni sociali. I risultanti 186 seggi non sarebbero sufficienti per portare a termine una riforma costituzionale anche se la legislatura fosse solamente costituente e di breve durata. Inoltre non bisogna dare per scontato che quello che rimane di CiU e i nazionalisti vogliano appoggiare questo processo. Podemos potrebbe anche sedurre socialisti e Cs con altri argomenti come la difesa della sovranità spagnola contro le imposizioni della Troika, tasto questo già utilizzato in molti meeting dai leader del partito viola. D’altronde in Grecia Syriza ha trovato un solido alleato in una formazione di destra come ANEL. Ciononostante qualsiasi maggioranza dovrà fare i conti con la rinnovata maggioranza assoluta del PP al Senato, di 124 seggi su 208. Insomma la fine del bipartitismo consegna un parlamento potenzialmente ingovernabile e per giunta bloccato dal veto del PP al Senato. Ora, con volontà politica tutto si può fare ovviamente.
Ritorno al dret a decidir
Il dibattito se la Catalogna è o non è una nazione e se questo comporta diritti come quello di autodeterminazione potrebbe durare all’infinito ma l’analisi del voto del 20 dicembre in Catalogna non fa altro che ribadire una profonda diversità di fondo sia sul piano nazionale sia su quello sociopolitico. Dei 47 seggi provenienti dalla Catalogna 29 sono a formazioni di sinistra e sempre 29, anche se con una composizione differente, sono quella dati a formazioni favorevoli al referendum e 17 di questi 29 seggi sono direttamente indipendentisti. Ma questa non è la sola particolarità del voto catalano. La lista vincitrice in Catalogna è stata la coalizione tra la lista della sindachessa di Barcellona, Ada Colau, i rossoverdi d’ICV e la sezione catalana d’IU, EUiA, ed Equo. Guidata dal giovane storico Xavier Domènech la lista En Comú Podem (ECP) ha ottenuto il 24,73% inviando 12 seggi a Madrid con un programma per la verità più chiaro di quello di Podemos in materia di processo costituente e autodeterminazione. Un risultato strepitoso se messo a confronto con l’8,1% d’ICV-EUiA del 2011 e con l’8,9% di Catalunya Sí Que Es Pot (SQP) delle autonomiche catalane di settembre. Tre i due risultati il secondo è quello che ci permette di analizzare il voto con maggior (sempre relativa) profondità. Il pessimo risultato di SQP ha portato a una profonda riflessione da parte di Podemos e del gruppo della Colau. Ne è venuta fuori un’offerta politica molto meno schiacciata e identificabile con Podemos e molto più determinata rispetto alla difesa del referendum per l’autodeterminazione. Sebbene la formazione della sinistra indipendentista CUP abbia fatto campagna astensionista una parte del suo elettorato anticapitalista ha votato per ECP, in alcuni casi anche in maniera esplicita. Certamente si è trattato di un voto possibilista e utile, di un voto prestato ma anche di un voto che ribadisce una linea ultimamente meno visibile politicamente e sulla quale la cittadinanza catalana è maggioritariamente d’accordo, quella del referendum per l’autodeterminazione, per il dret a decidir. Il resto del voto CUP ha ingrossato le fila dell’astensione, salita di sette punti rispetto alle autonomiche catalane di settembre.
Un altro dato che rischia di sfuggire è quello dell’aumento del voto indipendentista rispetto al 2011 e la sua tenuta rispetto alle autonomiche di settembre. Esquerra Republicana de Catalunya (ERC) passa dal 7,1% con 3 seggi al 15,98% e 8 seggi, accaparrandosi il voto progressista indipendentista. Dopo lo scioglimento di Convergència i Unió (CiU) il catalanismo centrista si è presentato con un programma indipendentista sotto la sigla di Democràcia i Llibertat (DL) ottenendo il 15% e 8 seggi. Il risultato elettorale è difficilmente paragonabile a quello del 2011, quando CiU otteneva il 29,4% e mandava a Madrid ben 16 deputati. Tre le considerazioni da fare a tale proposito. In primo luogo, i deputati indipendentisti catalani nel parlamento spagnolo passano da 3 a 17. In secondo luogo, la sommatoria tra ERC e DL in queste elezioni è stata di dieci punti inferiore rispetto al risultato di Junts pel Sí (JPS) a settembre. Osservando il numero di voti reali e non percentuali potrebbe darsi il caso che questi voti fossero finiti a ECP, tornando in qualche modo dall’indipendentismo al sovranismo. In terzo luogo, si conferma una volta di più la tendenza verso opzioni ideologiche variamente di sinistra nel fronte indipendentista e sovranista in un panorama di netta crisi del catalanismo centrista e conservatore. A tale proposito DL rappresenta un banco di prova importantissimo per questo settore politico-ideologico. La compongono Convergència Democràtica de Catalunya (CDC), i fuoriusciti indipendentisti di Unió Democràtica de Catalunya (UDC) raggruppati attorno alla nuova sigla di Demòcrates de Catalunya e una scissione liberale di ERC, Reagrupament. CDC, il partito che ostenta la presidenza provvisoria della Generalitat attraverso Artur Mas, ha annunciato il suo prossimo scioglimento e processo di rifondazione. La confezione della lista di DL mostra che più che di una rifondazione si tratterà di una confluenza attorno all’indipendentismo liberale. Questa forza politica però è elettoralmente oggi la quarta forza, ben lungi dalle maggioranze assolute di CiU degli anni del post-franchismo. Più inclemente il destino dell’antico socio, UDC, che ostentava nel 2011 6 dei 16 seggi della coalizione a Madrid. Il partito democristiano che ha cercato di conservare la memoria di CiU perde quarantamila voti rispetto a settembre e con l’1,72% non ottiene nessun parlamentare. Il futuro di UDC è ora appeso a un filo, senza rappresentazione parlamentare e con qualcosa come 16 milioni di debiti con le entità finanziarie da sanare. Negli anni d’oro di CiU alcuni dirigenti del partito avevano negoziato con il PP la possibilità di trasformare la coalizione nella sezione catalana dei popolari spagnoli, sulle orme della relazione tra CDU tedesca e CSU bavarese. Se oggi UDC dovesse entrare nella stessa dinamica lo farebbe in ordine sparso e con poca visibilità. Inoltre, anche se al PP catalano una manciata di voti può sempre far comodo la distanza tra PP e UDC in materia di riconoscimento della nazionalità catalana è considerevole.
Un guado sempre più difficile
I maggiori partiti spagnoli che si sistemano nel fronte unionista rappresentano in Catalogna una netta minoranza dell’elettorato e della società civile. Il PSOE passa dal 26,6% e 14 seggi al 15,70% e 8 seggi, pur sistemandosi come terzo partito per una manciata di voti su DL. Cs conquista il 13% e 5 seggi in calo rispetto alle autonomiche quando ottenne il 17,9%. Il partito di maggioranza relativa in Spagna è in Catalogna l’ultimo dei partiti, con l’11,12% e 5 seggi. Potrà sembrare una banalità ma questo dato essenziale oltre ad essere un’evidenza matematica pone sul tavolo la questione dell’utilità o meno di queste elezioni per risolvere la questione catalana. Queste elezioni potrebbero finire per rappresentare più delle autonomiche di settembre la fotografia della rottura tra la Spagna e la Catalogna. Non sarebbe tanto la relativa vittoria indipendentista del 27 settembre a rappresentare una linea di frattura quanto l’enorme diversità di aspettative politiche tra voto spagnolo e voto catalano. Se il sistema politico spagnolo uscito da queste elezioni non dovesse trovare una soluzione alla sua crisi o se questa soluzione non dovesse dare una risposta creativa e democratica alla questione catalana (in termini di legittimità e non di cruda legalità) i voti che per il momento sono passati dall’indipendentismo al sovranismo potrebbero ritornare indietro, forse anche in maniera definitiva. Se gli elettori catalani dovessero avere (ancora una volta) la sensazione che i loro voti non sono serviti a nulla il cammino della secessione, per il momento incagliato nei negoziati per il governo della Generalitat tra JPS e CUP, potrebbe non avere davvero marcia indietro. Per il momento la dialettica politica catalana è governata dal dilemma tra contribuire a riformare la Spagna come durante la Transizione democratica oppure intraprendere il cammino proprio della costruzione stato-nazionale separata. Lo stesso processo costituente di cui si fa portatore ECP può prendere direzioni politiche distinte. Se l’operazione Madrid non dovesse andare in porto o dovesse fallire come accadde nel decennio passato con la riforma dello Statuto (da cui ebbe origine l’attuale processo di autodeterminazione) ci troveremo dinnanzi ad un’altra fase, probabilmente definitiva, della secessione.
L’esito negativo più che probabile di un nuovo accomodamento della questione catalana potrebbe risolvere dall’esterno i problemi in cui si è impantanato il processo catalano in questi mesi e che spiega in parte il voto alle elezioni spagnole. I catalani hanno votato dando un messaggio sia al futuro governo di Madrid che a quello in pectore di Barcellona. Il messaggio a nostro parere è mettetevi d’accordo, fateci decidere il nostro futuro a 360° o non facciamo un totem della legalità sia statale sia autonomica ma soprattutto facciamolo da sinistra in una dinamica di trasformazione e giustizia sociale. Il 27 dicembre la CUP deciderà attraverso un’assemblea dei suoi 2.000 militanti se accetta d’investire Mas come Presidente della Generalitat e a quali condizioni. In caso negativo JPS afferma che senza l’investitura di Mas si andrebbe a nuove elezioni autonomiche. La CUP sostiene che senza misure di rapido intervento sociale e un Presidente non identificato con l’austerità e l’ingiustizia sociale non ha senso parlare d’indipendenza. Il voto catalano in queste elezioni spagnole potrebbe dare delle piste su come sarebbe lo scenario elettorale in caso di nuove elezioni autonomiche a marzo. Tutto lascia presagire che ERC e CDC (frattanto estinta) si presenteranno separatamente e che sarà visibile un’opzione sovranista maggioritaria con buone possibilità di dare al processo catalano una leadership più coerente con le caratteristiche e ragioni di fondo della questione catalana: un processo costituente verso una repubblica catalana sovrana in un panorama di giustizia sociale. Per il momento l’unico scenario credibile a bocce ferme è quello di un doppio pareggio tecnico sia a Madrid che a Barcellona. Se di mezzo non ci andasse la vita quotidiana di milioni di persone già alle corde ci sarebbe davvero da divertirsi. Ben oltre le appartenenze etnoculturali i catalani sceglieranno l’opzione capace di garantirgli un futuro migliore anche se un presente complicato. Sarebbe bene che il futuro governo di Madrid, nel caso ce ne fosse uno, avesse chiaro questo fattore.
fonte: http://www.qcodemag.it/2015/12/22/spagna-in-mezzo-al-guado
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa