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Nanni Balestrini: “Caro Nichi Vendola, con il piccolo Tobia fai trionfare la logica capitalistica…”

Ogni tanto anche nei giornali mainstream ci si sente soffocare. Il marciume in cui il giornalista medio è costretto a mettere le mani è talmente nauseabondo che viene la necessità di respirare un po’ d’aria fresca. Non è per nulla strano che quest’aria arrivi da lontano, addiritura dagli anni ’60 e ’70. E il fatto che dopo sia stato prodotto poco di lungimirante e significativo – sul piano intellettuale, della comprensione e crtitica del presente – dovrebbe preoccupare le nuove generazioni molto più di quanto non possa far inorgoglire quelle più vecchie. e quali hanno certamente perso, ma – come si dice – “ci hanno provato”. Le nuove, se non si inerpicano almeno su queste non possenti spalle, non avranno neanche quella magrissima consolazione.

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Nanni Balestrini per prima cosa ricorda: “Nell’antichità, gli esseri umani che si compravano e si vendevano erano gli schiavi, individui che non avevano né identità né libertà. Oggi gli schiavi offerti sul mercato sono i bambini”.

Scrittore, poeta, saggista, pittore, Balestrini è stato insieme a Umberto Eco uno dei fondatori del Gruppo 63, la macchina che ha impiantato nella letteratura italiana l’avanguardia. In politica, è stato un militante nella sinistra extraparlamentare degli anni settanta su cui ha scritto romanzi (“Gli invisibili”, “Vogliamo tutto”, “La violenza illustrata” – tutti ripubblicati da DeriveApprodi) e saggi (“L’orda d’oro”, insieme a Primo Moroni).

Non si può dire che sia un tradizionalista. Eppure, la scelta di Nichi Vendola di avere un figlio da una madre che ha partorito per lui alimenta i suoi dubbi: “I commenti fatti su questa vicenda – dice all’Huffington Post, che l’ha incontrato nel suo studio a Roma, tra i quadri e la scrivania su cui lavora – sono di due tipi. Da una parte ci sono quelli maschili, secondo cui l’uomo ha il diritto a una discendenza. Dall’altra quelli femminili, che dicono: la donna è libera di vendere il proprio corpo, prostituirsi e anche affittare il proprio utero. Nessuno prende in considerazione i diritti della persona più interessata a questa scelta: il figlio. Che viene considerato alla stregua di un oggetto, come un cagnolino nato da una madre e poi regalato, non un soggetto che ha dei diritti sin dal terzo mese dal concepimento».

Anche la donna, però, ha diritto di disporre del proprio corpo.

Ma la madre non è proprietaria del bambino che partorisce. Anche quando affitta il suo utero, il bimbo non è suo, non è qualcosa di cui può disporre. Alcuni dicono: “È come vendere un rene”. Ma il bambino non è un organo interno. È altro da te. Non puoi nemmeno dire che vuoi fare un figlio e poi regalarlo a un altro, per generosità, perché il bambino non è nemmeno un pacco dono. Provi a immaginare quando diventerà grande, un bambino così, e andrà in giro a dire che è stato comprato e venduto. Che ferita si ritroverà?

È contro questa pratica?

A me non piace l’idea dell’utero in affitto. Credo, però, che il non regolarla giuridicamente renda tutto molto più confuso. Serve una normativa che metta in primo piano i diritti del nascituro, spingendo le persone ad adottare i bambini già nati, orfani, che non hanno una famiglia. Non è entusiasmante ricorrere a questi mezzi per avere un figlio. Quest’idea di volersi creare un bimbo su misura, sceglierselo come lo si vuole, diventa un atto di egoismo. Non voglio dire che non sia legittimo desiderare di avere un figlio. E ci tengo a specificare che secondo me Nichi Vendola lo alleverà nel migliore dei modi possibili. Ma non è questo il punto. Il punto è che la logica capitalistica, l’idea che tutto si possa comprare e vendere sul mercato non solo è penetrata negli aspetti più intimi della nostra vita, ma ormai ci domina. E non a caso questa storia si svolge in America, il paese in cui tutto ha un prezzo, anche la vita di un bimbo.

Lei appartiene a una generazione politica – quella degli anni settanta – che è stata sconfitta. Che cos’è oggi, per lei, la politica?

La politica è stata completamente trasformata. Le lotte collettive sono finite. Se guardo la realtà, avverto la necessità che la generazione dei giovani precari si organizzi, si rivolti: ma mi rendo conto che è difficilissimo. Gli operai stavano tutti insieme in un luogo fisico, la fabbrica. I precari dove stanno? Ognuno ha il suo luogo di lavoro. Non c’è un luogo di aggregazione. Come si possono unire?

L’esperienza del Gruppo 63 è stata anche attraversata dalla questione generazionale. Vi opponevate a quelli più vecchi di voi per rinnovare la letteratura. Su un altro piano, dovrebbe accadere la stessa cosa oggi? 

La mia generazione, come ha detto Umberto Eco, aveva dietro cinquanta milioni di morti. Di fronte a noi abbiamo trovato il campo libero. Molti hanno avuto la cattedra universitaria a trent’anni, oggi non ce l’hanno neanche a sessanta. Entravamo nella Rai. Facevano le case editrici. Questa generazione si trova di fronte a una situazione bloccata. Ma i giochi non sono mai fatti. Lo scontro frontale è sempre utile. Però bisogna costruirlo, organizzarlo, inventarsi un modo per farlo durare.

Vede qualcuno che può farlo? Per esempio, il Movimento Cinque stelle: la su base sociale, in gran parte, è costituita da giovani.

È un movimento interessante, ma vuoto politicamente. La protesta, se non è organizzata, non porta a niente. A maggior ragione, se è fatta con un personale politico mediocre e incapace. Se hai più del venti per cento e ti riduci a far vedere in televisione che urli in parlamento, senza avere una teoria politica né una strategia, tutto finisce lì.

E la sinistra?

Non ne parliamo: lì ci sono solo macerie.

Le sottopongo un parallelo: voi del Gruppo ’63 spingete per il cambio generazionale con la letteratura d’avanguardia. Renzi con la sua politica di rottamazione. Vede una similitudine?

Ogni presa del potere – seppur la nostra sia stata minima e non duratura – è determinata e favorita da situazioni storiche. Noi avevamo davanti a noi l’Italia che cambiava, la necessità d’inventare una lingua per rappresentare una nuova società, mandando a quel paese quelli più vecchi di noi. Nel caso di Matteo Renzi il passaggio storico è diverso. E bisogna tornare all fine degli anni settanta per decifrarlo. Allora, ci sono state due generazioni (quella del ’68 e del ’77) che non sono state solo sconfitte, ma sono state decimate: trentamila persone passate per le carceri, i suicidi, il dilagare dell’eroina. Bisogna ricordare che la parte migliore di quella generazione stava nel movimento, non nei partiti politici. Voglio dire: le persone più preparate, i migliori teorici della politica. In quei movimenti, c’era una classe dirigente che è stata completamente distrutta dalla repressione, dalla disperazione della sconfitta, dalla droga. Dall’altra parte, il massimo che il partito comunista è riuscito a esprimere sono stati D’Alema e Veltroni: non proprio due geni. Ecco dove inizia il declino della classe politica italiana. Che ha favorito l’ascesi di Renzi, il quale sostanzialmente si è trovato di fronte la strada spianata. Perché, diciamoci la verità, la rottamazione non è stata poi così complicata. Chi aveva contro? Il povero Bersani? L’hanno definito un parroco di campagna. Io non voglio arrivare a tanto. Ma, insomma, non mi sembra nemmeno lui una grande figura politica.

Il suo romanzo sugli ultrà, I furiosi, è stato adattato in un’opera teatrale che è in giro per l’Italia. Com’è cambiato il tifo calcistico?

Negli anni ottanta mi avevano affascinato quei tifosi che parlavano delle loro trasferte in maniera mitica. Celebravano il senso della comunità. Si sentivano parte di qualcosa. Oggi, però, il tifo è diventato un luogo di manifestazione dell’estremismo fascista. Colpa della quantità enorme di denaro che ha cominciato a circolare. Che ha trasformato anche il tifo in una lotta per il potere. Il potere di determinare la fortuna di un giocatore, l’indirizzo della squadra, influenzando la società. La tifoseria che io ho rappresentato, probabilmente, esiste ancora da qualche parte. Ma anche nel calcio è cambiato tutto.

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