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Cattivissima UE. Cosa significa “rottura”? (prima parte)

Come Ross@-Parma desideriamo porre all’attenzione dei lettori di questa rubrica, in primo luogo di quelli coinvolti o interessati alla Piattaforma sociale Eurostop, due interventi proposti nel contesto di altrettanti incontri internazionali (Parigi 23-24 gennaio e Madrid 19-20-21 febbraio 2016) organizzati dalle forze politiche riunite nel cosiddetto “Piano B per l’Europa”. Come noto le proposte maggioritarie emerse da questi incontri (ai quali hanno partecipato figure come Yanis Varoufakis, Oskar Lafontaine, Jean-Luc Melenchon e Stefano Fassina) vanno dalla rivendicazione di una democratizzazione dell’assetto dell’Unione, attraverso il controllo politico sull’Eurogruppo e sulla Banca Centrale per porre termine al ricatto del debito e all’austerità, fino all’introduzione di monete parallele e, nelle versioni più radicali, al passaggio dalla moneta unica ad una moneta comune (in sostanza sul modello del vecchio SME)(1).

Ad essere esclusa è, comunque, l’opportunità di un’uscita dal sistema monetario europeo da parte di un singolo paese, così come l’idea di una rottura complessiva con l’intera macchina istituzionale dell’UE e con la sua governance, implicazione per noi particolarmente nefasta, nella misura in cui contribuisce a rafforzare l’identificazione tra il destino dell’Unione Europea come apparato neoliberale e quello dei popoli europei, così come quella tra ideologia europeista e internazionalismo. Come Ross@ abbiamo più volte esplicitato le ragioni analitiche e politiche per cui riteniamo l’Unione Europea irriformabile e come, dunque, di fronte alle ipotesi (peraltro differenziate al loro interno) di un “Piano B per l’Europa” non possiamo che condividere la posizione di quanti, pur guardando con interesse ad esse come sintomo dell’imporsi di una questione ormai inaggirabile, ne sottolineano i limiti strategici e tattici(2). Per noi, in estrema sintesi, è ormai giunto il tempo di pensare ad un vero “piano A per l’Europa” e di intenderlo in primo luogo come “piano R rispetto all’Unione Europea”, dove la R sta per “rottura”.

I due interventi che proponiamo, quello di Cèdric Durand (economista marxista, maître de conferences dell’Università di Parigi 13, membro del “Front de Gauche”(3) e quello di Frédéric Lordon (direttore di ricerca al CNRS, collaboratore di “Le monde Diplomatique” e autore di numerose opere di economia e di filosofia politica(4), escono decisamente da quella che appare poco più che una riedizione, dopo l’umiliazione subita dal tentativo greco, del coro “altro-europeista”. Per alcuni versi questi due interventi sono speculari e, per altri, complementari, nelle loro mancanze così come nei loro punti di merito. Per quanto riguarda le prime possiamo notare come la prospettiva di Lordon, tutta centrata sul problema fondamentale dell’anti-democraticità della Ue e del vincolo monetario, tenda a mettere in secondo piano la funzionalità dell’impianto europeo al capitalismo transnazionale e, più in generale, a non precisare l’articolazione tra la giusta rivendicazione di sovranità popolare e le dinamiche di convergenza o di conflittualità tra gruppi sociali all’interno dei singoli paesi e sul terreno continentale(5). D’altra parte Lordon vede chiaramente come la natura neoliberale dell’Unione Europea sia sovradeterminata dalla “complicazione” ordoliberale tedesca, mettendo in luce come la centralità della “stabilità dei prezzi” permei tutta la politica della Germania (con un significativo consenso all’interno del paese, anche tra diverse culture politiche)(6). Egli, però, ci sembra trascurare come l’ordoliberalismo informi tutto l’impianto istituzionale dell’UE e come, in connubio con una ridefinizione funzionalista del concetto stesso di sovranità, produca un assetto politico di nuovo tipo, una superstruttura parastatale capace di articolare i livelli locale, nazionale e transnazionale, trasformandoli in senso postdemocratico, secondo una tendenza che per molti versi esorbita l’innegabile egemonia detenuta, al suo interno, dalla Germania. Durand, d’altra parte, coglie i legami tra apparato europeo e istanze del capitale transnazionale, ma questo suo intervento (non ci pronunciamo, così, come per Lordon, su altri testi) sembra mettere in secondo piano l’asimmetricità che, in ambito europeo, si produce non solo, come l’autore sottolinea con efficacia, tra le condizioni dei gruppi dominati nei vari paesi, ma anche tra parti delle classi dirigenti e tra gli Stati in quanto tali.

In effetti, è impossibile rimuovere il fatto che, per quanto tendente ad approfondire l’unione tra gli Stati attraverso nuove funzioni quali quella bancaria o di bilancio (cosa ben diversa da quanto suggerito dall’idilliaco termine di “integrazione”), la struttura multilivello dell’UE, tutta centrata sul principio neoliberale della “competitività”, è anche percorsa da contraddizioni interstatali continuamente riemergenti. Possiamo aggiungere che entrambe queste opposte accentuazioni sembrano derivare dalla tendenza dei due interventi a fare coincidere la corretta analisi per cui la UE non può essere considerata una “comunità politica (democratica)” una certa sottovalutazione del suo carattere di “progetto politico”, certamente postdemocratico ma capillare, estremamente plastico e ancora aperto a nuove evoluzioni (nel senso di un ulteriore approfondimento della sua logica ordoliberale e funzionalista)(7). È per questo che, come Ross@, insistiamo tanto sull’importanza dei Trattati, ma anche delle raccomandazioni e delle decisioni della Commissione, così come dei pronunciamenti della Corte di giustizia europea e su tutta una serie di atti di natura giuridicamente ibrida, ma che assumono un valore costituente per una forma di “statualità” in gran parte inedita.

Quali sono, allora, le ragioni per cui proponiamo questi due interventi all’attenzione dei lettori? Il fatto è che essi, seppur con sfumature differenti, affrontano un punto politicamente centrale. Durand mette in luce come la natura stessa dell’UE non tenda ad omogeneizzare gli interessi e i ritmi di mobilitazione dei dominati nei vari paesi europei, ma semmai approfondisca la loro non-sincronicità(8), svuotando di fatto, almeno in tempi ragionevoli, la prospettiva di una “rivolta europea”, la quale, semmai, potrebbe essere pensabile proprio a partire da un punto di effettiva rottura nel paese politicamente più avanzato. In questo contesto una prospettiva realmente internazionalista consiste, in primo luogo, nell’impegno ad accelerare le condizioni della rottura della UE a partire dagli spazi di azione specifici di ogni paese, certo mantenendo e rafforzando costantemente i legami con tutte le forze emancipatrici interessate alla stessa prospettiva. È Lordon a sintetizzare questo aspetto nel modo più efficace, contrapponendo l’ipotesi di un internazionalismo reale all’internazionalismo immaginario condiviso dal post-operaismo moltitudinario, dal riformismo altro-europeista e, ora, dalle ipotesi di “Piano B”, mostrandone efficacemente la subalternità di fatto all’unico “internazionalismo” oggi realmente in campo, quello del capitale (un internazionalismo anch’esso “funzionalista”, che, quindi, può convivere contraddittoriamente con il riemergere di nazionalismi reattivi e con nuove contrapposizioni tra Stati e popoli). Lordon suggerisce come parola d’ordine di questo nuovo internazionalismo, spogliato da ogni pretesa (in tempi ancora profondamente segnati dalla sconfitta storica di tutto il movimento di classe!) di rispondere al capitale transnazionale sul suo stesso terreno e di trasformare in un campo di battaglia ciò che, invece, è stato pensato come arma nelle mani dei gruppi dominanti, il ritorno delle scelte economiche al campo della politica ordinaria e, dunque, la loro subordinazione al pieno esercizio della sovranità popolare.

Si tratta, allora, di accettare la dimensione nazionale come unico terreno di intervento adeguato ad incrinare il meccanismo neoliberale della UE e la gabbia dell’euro? In un dialogo con Panagiotis Sotiris (filosofo marxista che abbiamo di recente interpellato con un’intervista centrata, in parte, sugli stessi temi(9)) Lordon ha chiarito come egli intenda la sovranità democratica essenzialmente come «un decidere in comune», come qualcosa, dunque, che «nel suo concetto» deve essere comunque distinto dalla questione nazionale (in effetti è logicamente pensabile, ad esempio, un’indipendenza nazionale senza  margini di effettiva democrazia popolare, così come forme di sovranità popolare esercitata su scale diverse da quella nazionale), ma di ritenere anche che oggi lo Stato-nazione costituisca «la forma storica dominante della realizzazione di questo principio»(10). In questa prospettiva la nazione stessa viene ridefinita (in forma che lo stesso Lordon descrive come una «tautologia molto produttiva») nei termini di «comunità sovrana», retta «non da un principio di appartenenza sostanziale, ma da un principio di partecipazione»(11). Ora, sappiamo bene quanto il tema della sovranità sia ambivalente e per molti versi pericoloso, esposto com’è ad ipotesi politiche molto differenti(12). Nello stesso tempo riteniamo che, se si vuole porre concretamente il tema della “rottura”, in una fase storica in cui pensarsi come forze “all’attacco” testimonierebbe perlomeno un certo narcisismo, non è possibile rimuovere ulteriormente il problema dell’a-sincronicità tra le sequenze politiche nei diversi paesi e, di conseguenza, cosa significhi proporre un internazionalismo reale in queste condizioni. È necessario, ad esempio, chiedersi come la rivendicazione della sovranità popolare, una volta accettata la diagnosi sull’impermeabilità a questo principio da parte dell’ordoliberalismo europeo, possa essere fatta valere senza fare leva sulle contraddizioni ancora aperte tra ordinamenti nazionali, per quanto frammentati ed erosi, e impianto della governance europea. Le battaglie sulla Costituzione, a partire dal rafforzamento dell’esecutivo incarnato dalle riforme istituzionali del governo Renzi, ma anche per rimettere in discussione l’infame articolo 81 sul pareggio di bilancio, testimoniano di come questo campo non possa essere abbandonato con un’alzata di spalle(13).

La stessa rivendicazione della sovranità popolare su altra scala, locale o europea, ammesso che essa assuma un grado sufficiente di intensità politica, sarebbe comunque chiamata ad interfacciarsi con il problema del suo riconoscimento e della sua sedimentazione giuridica anche a livello nazionale per non essere, in un caso, ineffettuale o, nell’altro, per non incorrere nella stessa subalternità all’egemonia dei paesi centrali già mostrata dal processo di integrazione europea. Difficile è, insomma, pensare ad una rottura che non implichi, almeno inizialmente, anche un processo di devoluzione rispetto ai meccanismi di trasferimento della sovranità imposti in questi decenni dalla costruzione della UE.  In sintesi, fare i conti realmente con la possibilità che contraddizioni si aprano con tempi e modalità differenti a seconda dei contesti nazionali, significa non ritrarsi di fronte al compito di trarre le conseguenze politiche della parola d’ordine, altrimenti non meno astratta di quella della democratizzazione dell’euro e dell’Unione, della “rottura”. Significa porre il problema di costruire quella che Lordon chiama una “differenza” politica riconoscibile per quello stesso “popolo” e per quei movimenti sociali a cui si chiede di lottare e di riconquistare spazi di decisione. Si tratta, allo stesso tempo, di sapere che, come dice Durand, per chi si pone dal punto di vista di una politica di emancipazione non si è mai di fronte a spazi neutri e, dunque, alla possibilità scegliere astrattamente tra terreno nazionale o terreno europeo, ma di verificare sul piano strategico e tattico quale, tra diverse ipotesi, sia quella perseguibile in un momento determinato.

Ross@ manif grecia a Roma

Per ragioni di spazio e di fruibilità iniziamo con l’intervento tenuto da Cédric Durand all’incontro internazionale “Un piano B per l’Europa” (Madrid, 20 febbraio 2016)(14).
A breve sarà pubblicata la relazione di Frédéric Lordon.

Care compagne e cari compagni, sono molto contento di trovarmi tra di voi. Desidero ringraziare calorosamente gli organizzatori di questo evento (Piano B a Madrid, 19-21 febbraio). Il nostro dibattito di oggi è essenziale per le forze emancipatrici e il luogo in cui si tiene è decisivo. È di fatto nello stato spagnolo che il movimento popolare è il più creativo, il più articolato e probabilmente il più forte sua scala europea. Di conseguenze è qui che si pone più concretamente la questione di sapere che cosa si deve fare nei confronti della UE, la prossima volta che la sinistra, effettiva, acceda al governo.  Purtroppo abbiamo imparato dalla infelice Syriza che gli errori teorici in politica si pagano in contanti. Non ci possiamo permettere il lusso di un nuovo fallimento…
Noi tutti e tutte siamo qui favorevoli alla giustizia sociale, all’ecologia, alla democrazia reale. Odiamo di cuore il razzismo e la xenofobia. Ma abbiamo un punto di disaccordo strategico molto importante: qual è la priorità di un governo di sinistra che arrivi al potere in Europa.
La prima possibilità consiste nel porre in primo piano l’obiettivo di cambiare la UE e, più precisamente, le regole dell’euro. L’idea consiste nel lottare direttamente sulla scala continentale al fine di creare uno spazio favorevole al cambiamento. Questa opzione è la più ambiziosa. L’orizzonte della sua realizzazione è molto lungo e la possibilità di una sua messa in opera effettiva molto debole.
La seconda opzione consiste nelle possibilità che esistono a livello nazionale per mettere termine all’austerità, alla dittatura del debito così come alle riforme neoliberali.
Ciò presuppone una preparazione all’uscita dalla moneta unica, che si rivela molto probabile in ragione dello scontro con la BCE e con le altre istituzioni europee. Questa opzione è più realista della prima. Non si tratta di una trasformazione sistemica, dell’edificazione del socialismo, ma semplicemente di dimostrare che “sì, si può”. Ci sono delle alternative al neoliberalismo per rispondere all’urgenza sociale e ecologica. Questa opzione, però, implica di accettare un passo indietro sul terreno dell’“integrazione europea”, almeno in un primo tempo.
È molto importante essere chiari sul fatto che la questione non consiste nel sapere se preferiamo il livello nazionale o quello europeo. Non bisogna scegliere tra l’internazionalismo del capitale e il nazionalismo post-fascista. Bisogna essere pragmatici. Ciò che abbiamo di fronte sono due opzioni progressiste tra le quali bisogna scegliere su quale sia il cammino più efficace per avanzare in direzione dell’emancipazione dei “settori sociali subalterni” in Europa e nel mondo.

In questo dibattito il punto cruciale concerne la natura della UE: in che misura la UE può essere trasformata?
Un primo passo consiste nel riconoscere che i processi di ridefinizione degli spazi politici non sono neutri per ciò che riguarda i rapporti di forze tra gruppi sociali. Come scrive Immanuel Wallerstein: “è possibile che gruppi sociali specifici migliorino la loro posizione nel momento in cui le frontiere dello Stato cambiano”. È esattamente ciò che è avvenuto con l’integrazione europea.
L’Europa si è costruita fin dall’inizio attraendo i poteri economici. Dagli anni Sessanta, la Commissione europea, in ragione di una mancanza di legittimità, si è servita delle forze imprenditoriali per un’unione sua scala europea e per fare conoscere, facendo leva su questo, le loro aspettative. Poi le cose andarono di male in peggio: la tavola rotonda degli industriali ERT impose le clausole dell’Atto unico europeo del 1986 (che aprì la strada al trattato di Maastricht nel febbraio 1992) e impose le sue condizioni al lancio dell’euro. Nel punto massimo della crisi greca, le lobbies dell’Istituto Internazionale di Finanza hanno fatto irruzione nelle riunioni dell’Eurogruppo.
In questo momento di crisi, è stato dichiarato uno stato d’eccezione: la normalità democratica è stata sospesa al fine di impedire una qualsiasi influenza da parte delle classi popolari. È ciò che chiamiamo, con Ramzig Keucheyan, il cesarismo burocratico europeo.
Il commercio, la concorrenza, la stabilità monetaria e finanziaria: i trattati condizionano tutto il dibattito europeo sulla base di questi temi decisivi per il capitale e non tollerano alcuna perturbazione democratica. L’occupazione, l’ambiente e i diritti sociali sono subordinati. Queste questioni, assolutamente vitali, sono vittime di un’integrazione negativa, relegate allo statuto di variabili di aggiustamento.
Questa asimmetria è centrale. Essa significa che i “subalterni” non dispongono di punti d’appoggio per lottare su scala europea, il che spiega anche perché la scena politica europea è debole: perché mettere energia in uno spazio politico che nega ogni legittimità alle proprie preoccupazioni?
Perché l’Unione europea sia un campo di battaglia sarebbe necessario che i subalterni disponessero di una qualche particella di potere istituzionale, come è già il caso nelle istituzioni di assistenza sociale o nei sistemi di educazione pubblica a livello nazionale, per esempio.
Ma una cosa simile non esiste su scala europea. L’UE, come macchina istituzionale, si colloca unilateralmente dal lato del capitale. I gesti educati della Confederazione europea dei sindacati non cambieranno nulla, così come gli assalti dei governi progressisti (o detti tali), per quanto forti possano essere, né la determinazione dei parlamentari impegnati di Strasburgo e Bruxelles. Poiché, poco a poco, un numero infinito di ostacoli, fiaccherà la determinazione più ostinata dei riformatori.
Per riassumere, l’UE non è un campo di battaglia. È una prigione. Cosa si fa quando ci si trova in una prigione? Bisogna fuggire o organizzare una rivolta.
Una rivolta? Penso che questa sia l’idea di molti di voi qui presenti. Non ci sarà posto per un’Europa sociale e per un “euro buono” a meno che il popolo europeo non forzi il destino. Che si fondi un’Europa grazie ad un atto eroico. In termini rigorosi una tale ipotesi non può essere scartata. Così come dice Judith Butler, il “Noi del popolo è performativo”.
Se il “Noi del popolo” sorgesse in Europa insieme a un forte movimento sociale europeo o una serie di vittorie elettorali della sinistra o, ancor meglio, ad una combinazione tra questi due elementi, la situazione potrebbe cambiare in maniera radicale. Nulla può resistere al potere popolare. Nemmeno la Commissione di Junker e la BCE di Draghi.
Penso, purtroppo, che questa possibilità sia poco probabile. Senza un budget federale significativo, la zona euro accentua le specializzazioni produttive e persegue la ricreazione di una polarizzazione sul continente: quando i salari aumentano in Spagna, stagnano in Germania, e quando salgono poco a poco in Germania, cadono ad Atene.
In tale contesto, come possiamo immaginare che la soggettività politica possa confluire in un momento costituente?!
Per formare un popolo, i ritmi sociali devono sincronizzarsi. Tutta la logica dell’euro si oppone a questo. Nel quadro dell’Europa dell’euro io non credo che l’opzione di una rivolta europea sia realistica. Di conseguenza, compagni, se l’Unione Europea non è un campo di battaglia e se una rivolta europea sembra molto improbabile, la scelta politica che dobbiamo operare è la seguente: o accettare, come in Grecia, una sconfitta in nome dell’illusione di cambiare l’Europa o prepararci per cominciare il cambiamento nel paese più avanzato. Per dimostrare che esistono effettivamente delle alternative un’uscita dalla moneta unica, o la sua dissoluzione, è necessaria. La giustizia sociale, la transizione ecologica e la democrazia reale sono realizzabili. Ma solo al di fuori della prigione dell’euro!

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NOTE:

http://www.jean-luc-melenchon.fr/2015/09/11/un-piano-b-in-europa/

2 Plataforma Salir del Euro, Un piano B per non andare da nessuna parte: https://www.contropiano.org/interventi/item/34981-un-piano-b-per-non-andare-da-nessuna-parte

3 Di Durand occorre segnalare l’introduzione al fondamentale En finir avec l’Europe, La fabrique, Paris 2013 e La Capital fictive. Comment la finance s’approprie notre avenir, Le prairies ordinaires, Paris 2104.

4 Per l’importanza rispetto ai temi trattati segnaliamo: La Malfaçon. Monnaie européenne et souveraineité démocratique, Les Liens qui Libèrent, Paris 2014; On achève bien les Grecs. Chroniques de l’euro 2015, Les Liens qui Libèrent, Paris 2014. Sulla ridefinizione dell’idea di sovranità proposta da Lordon è fondamentale Imperium: structures et affects des corps politiques, La fabrique, Paris 2015. In italiano si veda Capitalismo, desiderio e servitù : antropologia delle passioni nel lavoro contemporaneo, DeriveApprodi, Roma 2015.

5 La scarsa considerazione di questi aspetti quando si tratta di porre il problema della sovranità democratica è messo in luce, da un punto di vista regolazionista, non distante dalle radici teoriche dell’autore, nella critica ad Imperium sviluppata in B. Amable e S. Palombarini, “Imperium”: quelques remarques sur la philiosophie de Frédéric Lordon, in https://regulation.revues.org/11560

6 Su questo l’articolo, tratto da “Le Monde Diplomatique”, di F. Denord, R. Knaebel, P. Rimbert, L’ordoliberalismo tedesco, una gabbia di ferro per il Vecchio Continente, ripubblicato in questa stessa rubrica: http://www.rossa.red/cattivissima-ue-per-una-critica-alla-governance-europea1/

7 Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa: http://ec.europa.eu/priorities/economic-monetary-union/docs/5-presidents-report_it.pdf

8 Per un approfondimento, cf. C. Durand, E. Stockhammer, L.List, European Growth Models and Working Class Restructuring before the Crisis, Post Keynesian Economics Study GroupWorking Paper, 1508, luglio 2015: https://durandcedric.wordpress.com/articles/

9 Sovranità popolare e nuovo internazionalismo, intervista a Panagiotis Sotiris a cura di M. Baldassari e D. Melegari: http://www.rossa.red/cattivissima-ue-per-una-critica-alla-governance-europea2-sovranita-popolare-e-nuovo-internazionalismo/

10 Sulla distinzione (e la relazione) tra sovranità popolare e sovranità nazionale, in particolare rispetto alle posizioni del Front National, cfr. F. Lordon, Ce que l’extrême droite ne nous prendra pas (8 luglio 2013): http://blog.mondediplo.net/2013-07-08-Ce-que-l-extreme-droite-ne-nous-prendra-pas

11 F. Lordon, On achève bien les Grecs. Chroniques de l’euro 2015, Les Liens qui Libèrent, Paris 2015, p. 63.

12 M. Baldassari, I fenicotteri di Alice: l’impossibilità necessaria del “sovranismo politico”: https://contropiano.org/articoli/item/26906

13 Su questo cfr. l’appello Perché votare NO nel referendum costituzionale di ottobre: http://www.hyperpolis.it/online/perche-votare-no-nel-referendum-costituzionale-di-ottobre/

14 Trascrizione disponibile qui: http://alencontre.org/europe/debat-lunion-europeenne-nest-pas-un-champ-de-bataille-cest-une-prison.html

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