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Stranieri e illegalità nell’Italia criminogena

Questo studio di Vincenzo Ruggiero, docente presso la Middlesex University Londra (UK),  era stato  pubblicato su Micromega nel febbraio del 2008, ed è  tratto da “Diritto, Immigrazione e Cittadinanza” rivista promossa da Magistratura Democratica.
Uno studio che non ha affatto perso di attualità col passare degli anni, viste le attuali condizioni nelle quali è costretta la popolazione migrante. Ruggiero fornisce inoltre una lettura decisamente fuori dalle classiche e scontate chiavi di lettura del fenomeno migratorio.

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Stranieri e illegalità nell’Italia criminogena

Nella letteratura accademica su migrazione e criminalità, prodotta a ritmi sempre più elevati, spicca l’assenza di riferimento a una tradizione argomentativa e di ricerca che potrebbe capovolgere, almeno in Italia, i termini del dibattito. Penso al lavoro di Sutherland (1924), il quale rifiuta l’associazione automatica immigrazione-criminalità, osservando che, al massimo, la criminalità degli immigrati aumenta con la loro crescente integrazione nel tessuto sociale dei paesi ospiti.

Il processo da lui definito di ‘acculturazione’ fa in modo che gli immigrati di seconda generazione siano maggiormente coinvolti in attività illecite di quanto lo siano quelli di prima generazione, lasciando per altro osservare carriere criminali tra soggetti immigrati che nel paese di origine avevano poca dimestichezza con l’illegalità. In breve, Sutherland nega validità al nesso immigrati-crimine, e capovolgendolo, suggerisce piuttosto che l’acculturazione dei migranti nel sistema ospite espone costoro a rischi crescenti di coinvolgimento nell’illecito.

Chi ha seguito questa traccia argomentativa e di ricerca, recentemente, ha fatto notare ad esempio che gli immigrati di origine ispanica residenti da 16 anni negli Stati Uniti hanno probabilità tre volte superiori, rispetto a chi di analoga origine vi risiede da 5, di subire una condanna custodiale (Rumbaut e Ewing, 2007).

Un articolo apparso nel New York Times ha suscitato sconcerto quando, analogamente, e dopo elaborazione dei dati disponibili, ha concluso che il declino generale dei reati negli Stati Uniti a partire dei primi anni ‘90 si deve in parte all’intensificarsi dei flussi migratori (Sampson, 2006). Infine, lo stesso declino dei reati di violenza, secondo alcuni studiosi, si deve all’arrivo negli Stati Uniti di persone pacifiche, dedite al lavoro e alla famiglia, che statisticamente contribuiscono a temperare l’incidenza di questi tipi di reati sulla massa degli atti criminosi commessi (Lee e Martinez, 2000; Martinez, 2006; Hagan e Phillips, 2008).

Nell’affrontare il fenomeno della criminalità dei migranti in Italia, mi ripropongo di far riferimento a questo quadro argomentativo e ai relativi risultati di ricerca. Ma prima di verificare in quale misura un simile quadro possa essere di aiuto per l’analisi della criminalità degli stranieri in Italia, vorrei brevemente esaminare il contesto economico nel quale gli stranieri medesimi trovano ospitalità da noi.

Lavoro senza lavoratori

L’Italia ha bisogno del lavoro dei migranti; il suo problema, mi pare, è liberarsi dei lavoratori migranti. Questo paradosso viene perseguito attraverso la riduzione delle loro aspettative e l’incoraggiamento a rendersi invisibili.

Vediamo come queste due ingiunzioni s’intrecciano tra loro (Ruggiero, 2000).

Nel periodo dell’ultimo dopoguerra, la ricostruzione dell’economia richiedeva lavoro non professionale, in particolar modo nella produzione di massa dei beni durevoli, ma anche nei settori delle costruzioni e dei servizi. Mentre la prospettiva di un lavoro attirava le masse dal Sud al Nord del paese, una serie di servizi essenziali e alcune forme minime di diritti sociali facevano in modo che i nuovi arrivati s’insediassero in permanenza. Vi era un prezzo da pagare per la mobilità del lavoro: ai migranti andavano offerte delle tutele elementari, in termini occupazionali e assistenziali.

Nel periodo attuale, con la domanda crescente di lavoro flessibile e occasionale, l’Italia (come altri paesi europei) tenta di ridurre, o eliminare totalmente i costi sociali del lavoro. In molti contesti, ad esempio, i migranti più o meno stabili vengono sostituiti dai nuovi arrivati, mobili e sradicati, più idonei al tipo di produzione prevalente.

L’economia, così, si assicura i benefici del lavoro senza doverne pagare i costi sociali, in termini di formazione, assistenza, e in generale di riproduzione.

In breve, i paesi cosiddetti avanzati, mentre diventano meno attraenti per il lavoro migrante, mettono a punto meccanismi selettivi per cui soltanto chi è disposto ad accettare le peggiori condizioni viene ammesso nei loro territori. Quest’abbassamento delle aspettative è, a sua volta, il risultato della crescente polarizzazione dell’economia mondiale, un divario che va forse letto come manifestazione di una ‘minore preferibilità globale’, secondo cui maggiore la povertà dei paesi, minori le aspettative di coloro che li abbandonano emigrando. Emigrare, allora, diventa una forma di resistenza individuale, adottata da coloro che sono disposti a rinunciare a una serie di diritti goduti dai migranti che li hanno preceduti. Tra questi diritti, vi è quello di spostarsi liberamente da un paese all’altro, diritto invece pienamente goduto da ogni tipo di merce.

Va notato che la selezione del lavoro migrante si compie anche attraverso l’imposizione di un contributo monetario, una somma di denaro in cambio del privilegio di migrare.

Mi riferisco al prosperare delle modalità illecite di trasferimento del lavoro, per cui non sono i paesi sviluppati ma i migranti stessi a pagare i costi della loro mobilità, mostrando così in anticipo le pretese modeste che accamperanno una volta divenuti lavoratori ospiti. Il traffico di esseri umani verso l’Italia descrive non solo metaforicamente la condizione d’invisibilità che molti migranti sono costretti ad accettare. E’ questo anche l’unico caso nel quale il costo del trasferimento di una merce (il lavoro) non ricade sul produttore o sul consumatore, ma sulla merce medesima.

Accettare il proprio status d’illegalità nel paese di destinazione è un criterio non scritto che consente la selezione dei lavoratori migranti più disperati, segnatamente quei lavoratori che sono disposti a ‘scomparire’. In questo senso si può sostenere che rafforzando il controllo alle frontiere non si produce una riduzione dei flussi migratori, ma si aumentano i costi economici e umani della migrazione.

Si veda di nuovo l’esempio degli Stati Uniti, dove nel corso degli anni ’90 il controllo sempre più severo del confine Sud ha avuto l’effetto di spostare i flussi verso aree di confine più remote, impervie e pericolose, aumentando del triplo la probabilità di morte per chi intende oltrepassarle (Massey, 2005).

Similmente, si consideri il rischio fatale per chi intende raggiungere l’Italia illegalmente, la probabilità di morte aggiungendosi al costo d’ingresso in un mercato del lavoro che attrae e respinge simultaneamente. Sia nel caso statunitense sia in quello italiano, va aggiunto, la crescente severità dei controlli produce effetti contrari a quelli desiderati: se i migranti benvenuti sono quelli stagionali, che si ritirano senza pretese non appena inoccupabili, quelli che riusciranno a entrare, visti i costi pagati, saranno propensi a rimanere.

Nascondersi o scomparire, in Italia, vogliono dire cercare occupazione nelle economie e nei mercati irregolari, dove si producono e distribuiscono beni, o si erogano servizi, indipendentemente dalla loro designazione ufficiale come legali o illegali. L’economia nascosta e quella criminale, infatti, sono spesso adiacenti, e finiscono per condividere sia alcuni degli imprenditori sia alcuni settori della forza-lavoro.

In questa zona occupazionale grigia, lavoro precario e attività furtive di varia natura s’intrecciano, rendendo incerti non solo i confini tra occupazione e disoccupazione, ma anche quelli tra legalità e illegalità.

Potremmo trarre delle prime conclusioni da quanto detto.

Le legislazioni particolarmente restrittive in tema di migrazione producono effetti considerevoli, razionalmente perseguiti o meno, sulle aspettative dei migranti che, a dispetto di ogni ostacolo, riescono a giungere alla destinazione desiderata.

Si tratta di legislazioni che definiscono i migranti come nemici (Caputo, 2007) e che costringono alla clandestinità mentre forgiano dei gruppi discriminati, non solo economicamente e socialmente, ma anche giuridicamente: i migranti non hanno ‘diritto ad avere diritti’ (Ferrajoli, 2007: 353).

Lo stesso atto di migrare si accompagna a un processo di svalutazione culturale e materiale che, producendo una sensibile limitazione delle aspettative, rende disponibili a lavori usuranti, insicuri, mal retribuiti e a volte illegali.

L’economia parallela, che in Italia possiede dimensioni senza eguali in Europa, si presenta come candidata ideale ad occupare simili lavoratori. In un circolo vizioso, in questo modo, prenderà forma la convinzione ideologica secondo cui, quanto più sono obbligati ad accettare lavori che ne svalutano la posizione sociale, tanto più i migranti verranno percepiti come individui di scarso valore.

Il rapporto tra economia sommersa e migrazione è anche tra le preoccupazioni di altri studiosi, che vedono nelle situazioni lavorative ai limiti della legalità altrettanti collettori di un “esercito post-industriale di riserva”, estremamente adattabile, disposto a interpretare anche le condizioni occupazionali di maggior degrado come occasioni di promozione sociale.

In una lettura delle dinamiche migratorie esclusivamente centrata sulla domanda, si può vedere ‘nella pressione migratoria e nella stessa ampia partecipazione degli immigrati all’economia sommersa una riprova dell’entità dei fabbisogni di manodopera e persino del carattere restrittivo delle politiche d’ammissione’ (Cesareo, 2008: 23). L’enfasi sulla domanda di lavoro avvantaggia principalmente gli imprenditori, i quali scaricano volentieri sulla società e sugli apparati statali i problemi che insorgono quando i lavoratori assunti, improvvisamente, non vengono più ritenuti necessari. L’impresa irresponsabile, caratteristicamente, mira alla polarizzazione estrema dei costi e dei benefici: le tensioni sociali prodotte dal licenziamento di chi non è più desiderato verranno affrontate dallo stato, al quale si richiede forza per gli altri e debolezza per sé.

Liberalizzare la circolazione del lavoro senza contrastare l’economia sommersa, viene detto, è una scelta ‘economicamente miope e socialmente imprudente’ (ibid. 23). Aggiungerei che è anche una manifestazione di connivenza nei confronti dei mercati illeciti che attraggono quei lavoratori periodicamente ritenuti ridondanti.

Sono le stesse agenzie internazionali ad ammettere l’eccesso di potere che, in virtù dell’egemonia esercitata dai principi economicisti, viene lasciato al sistema delle imprese (o più precisamente ai datori di lavoro) di decidere chi e a quali condizioni può varcare i confini nazionali, fino a esautorare i governi da questa fondamentale prerogativa della loro sovranità…. Si tratta di un potere che scarica sulla società di oggi e di domani i costi degli “scarti” umani ritenuti improduttivi’ (ibid. 24).

Questi ‘scarti’ umani improduttivi, a ben vedere, una volta abbandonati dall’economia sommersa, semi-lecita, potrebbero trovare occupazione nell’economia apertamente illecita, che si profila così come una sorta di cassa integrazione temporanea in attesa che la domanda di lavoro nella prima torni a farsi vivace. Come si vedrà tra breve, gli immigrati irregolari sono statisticamente più coinvolti nell’economia criminale, ma il loro status di irregolarità, a ben riflettere, li rende anche particolarmente benvenuti nell’economia sommersa, dove costituiscono forza lavoro a buon mercato. In una simile situazione vi è da chiedersi se le campagne di sicurezza che prendono di mira gli irregolari non vadano piuttosto rivolte a chi ne sfrutta il lavoro. Né appare vantaggioso rafforzare il sistema dei controlli sulle imprese, sistema tradizionalmente debole in Italia, ma ancor più debole oggi in settori come le costruzioni e il lavoro domestico, dove non a caso si osserva un’elevata presenza di immigrati irregolari. Infine, la stessa economia sommersa sembra la prima beneficiaria di quell’anomalia tutta italiana secondo cui solo l’1% di coloro che vengono colpiti dall’ordine di un Questore di lasciare il paese ottemperano all’ingiunzione e meno del 4% degli inottemperanti viene arrestato (Sciortino, 2008).

Immigrati come rei e vittime

In Italia, come altrove, l’economia parallela e quella criminale condividono una serie di caratteristiche, tra cui la precarietà della forza lavoro, il rischio per la salute e la vita di chi vi è occupato, lo status clandestino dello stesso rapporto di lavoro, il disprezzo per le norme, il risentimento verso lo stato, e il rifiuto degli obblighi fiscali. In altre parole, chi lavora nell’economia parallela viene sottoposto a un implicito apprendistato di illegalità che può facilitare o accelerare la scelta criminale. Questa scelta può anche derivare dall’inadeguatezza della stessa economia sommersa, che non garantisce il tenore di vita illusoriamente perseguito da chi vi è occupato (Sbraccia, 2007). Per i migranti, come per altri gruppi esclusi, la scelta criminale comporta, insomma, costi piuttosto limitati: percepiti come extra-legali a priori, deprezzati dall’ostilità e dai pregiudizi, svalorizzati dalla legislazione, i migranti che compiono scelte devianti o criminali non fanno altro che permettere alle profezie dell’esclusione e del pregiudizio di auto-compiersi.

Secondo l’ipotesi fin qui suggerita, il rapporto migranti-illegalità, in Italia, si nutre perciò di condizioni di illegalità pregresse che caratterizzano l’impresa e il mercato del lavoro in alcuni settori dell’economia. Questa ipotesi si avvicina molto alla nozione di Sutherland secondo cui la criminalità dei migranti si deve alla loro ‘integrazione’ nel sistema sociale del paese ospite. Tornerò sull’argomento nella parte finale di questo contributo, dove proporrò di arricchire la nozione di Sutherland con alcuni aspetti supplementari: Sutherland non conosceva l’Italia contemporanea. E’ ora il momento di dare uno sguardo alle statistiche ufficiali relative alla criminalità dei migranti nel nostro Paese.

Nel 2006, tra i denunciati per omicidio, uno su tre era straniero, un incremento rispetto agli anni precedenti che rispecchia l’incremento della popolazione straniera registrato nel Paese. Il 74% degli omicidi era imputabile a stranieri senza regolare permesso di soggiorno (Fondazione ISMU, 2007). L’incidenza dei non italiani tra i denunciati, però, varia molto a seconda della fattispecie criminale Si osservano valori piuttosto bassi per le rapine in banca (3%) e per quelle in uffici postali (6%), mentre i valori alti riguardano i furti con destrezza come il borseggio (intorno al 70%) e i furti in abitazione (51%). Per altri reati l’incidenza degli stranieri si distribuisce come segue: i non italiani costituiscono il 45% dei denunciati per rapina in pubblica via, il 19% per le estorsioni, il 29% per le truffe e le frodi informatiche, il 38% per i furti di autovetture e il 29% per gli scippi (Ministero Dell’Interno, 2007). Occorre aggiungere che oltre il 90% dei cittadini italiani vittime di omicidio vengono uccisi da connazionali e solo nell’8% dei casi da stranieri; mentre per i cittadini stranieri vittime di omicidio le statistiche si invertono, con il 74% che vengono uccisi da altri stranieri. Tra i rapinati italiani, il 68% subisce questo reato da un connazionale, mentre tra i rapinati stranieri il 71% viene derubato da altri stranieri.

Si osserva una crescita significativa dei denunciati nel Nord Italia, che corrisponde alla maggiore presenza degli stranieri in questa area del Paese, mentre la crescita assai modesta di popolazione straniera nelle regioni meridionali e insulari è associata a un incremento piuttosto marcato dell’incidenza di stranieri sul totale degli autori di omicidio tentato e consumato (ibid.: 369). Se gli immigrati diventano un motivo d’inquietudine crescente, si afferma, tale inquietudine si deve al fatto che ormai sono straniere oltre il 20% delle persone denunciate per reati in generale, mentre sono il 30% in molte regioni del Nord e il 40% in alcune città come Bologna, Firenze, Verona e Padova (Cesareo, 2008: 9).

Nel 2005 un condannato su cinque era straniero, con incidenza di gran lunga superiore in regioni come il Veneto e la Lombardia. Un detenuto su tre era straniero, mentre in Veneto e Lombardia il rapporto era due a tre (Di Nicola, 2008). La percentuale di stranieri sul totale delle vittime è, tuttavia, altrettanto elevata, soprattutto nel caso dei reati violenti e delle violenze sessuali (Ministero Dell’Interno, 2007: 372). Le percentuali relative a quest’ultimo reato esprimono, ovviamente, una sensibile sottostima, in quanto le vittime straniere possono omettere di denunciare la violenza subita per non rivelare il loro status di irregolari.

E’ straniero il 30% delle vittime di omicidio tentato e il 28% di quello consumato nelle regioni del Centro-Nord, l‘8% e il 7% di quelle del Sud e delle Isole; lo è il 22% delle vittime di violenze sessuali e il 18% di lesioni dolose nelle regioni Centro-Settentrionali, contro, rispettivamente, il 10% e il 4% nell’altra macroaerea…. Oggi, nel nostro Paese, una donna su quattro vittime di omicidio e un uomo su cinque sono stranieri’ (ibid.: 374).

Infine, gli stranieri lasciano osservare una presenza spiccata tra le vittime degli infortuni sul lavoro: mentre il totale di tali infortuni denunciati ha registrato un calo dell’1,3%, quelli che hanno visto coinvolti lavoratori immigrati hanno subito un incremento del 3,7% (Cesareo, 2008).

Sovrarappresentazione: razzismo istituzionale?

Le categorie e le variabili di uno studio statistico possono rivelare il grado di sensibilità o maturità civile del paese nel quale viene condotto. Si è visto come nei dati forniti dal Ministero dell’Interno figurino anche i reati commessi ai danni degli stranieri, e si è fatto osservare come simili reati possano avere come autori altri stranieri oppure individui di cittadinanza italiana. Un’assenza sensazionale nei dati ufficiali italiani riguarda i reati commessi contro gli stranieri in quanto stranieri. Mi riferisco, ovviamente, alle violenze verbali e fisiche, alle aggressioni e alle spedizioni punitive, agli episodi di giustizia sommaria ex-lege che colpisce comunità e gruppi etnici ritenuti meritevoli di punizione. Il “crimine di odio”, che si consuma contro individui non già in quanto individui, ma in quanto membri di un gruppo disprezzato, è oggetto di scrutinio, in diversi paesi europei, vuoi da parte della comunità accademica, vuoi da parte delle agenzie istituzionali. In Inghilterra e Galles, lo scorso anno, si sono registrati 179.000 ‘incidenti’ di natura razzista (Home Office, 2007). Se non si crede nell’adagio grottesco secondo cui ‘gli italiani non sono razzisti’, occorre spiegare la ragione per cui simili reati non compaiono nelle statistiche del nostro Paese. Ho menzionato il grado di sensibilità e maturità civile che è all’origine della percezione di un comportamento come riprovevole o criminale. E’ su iniziativa dei governi, spesso, che viene conferita rilevanza statistica a simili comportamenti, non solo in virtù di specifica produzione legislativa, ma anche in forma di direttiva indirizzata alle forze dell’ordine e alla magistratura affinché ai reati di razzismo corrispondano precise imputazioni.

Sarà poi compito delle forze dell’ordine e della magistratura classificare le imputazioni, isolarne le caratteristiche, e raggrupparle in categorie precisamente delimitate. Infine saranno le vittime a denunciare i reati da cui sono colpiti come reati a motivazione razzista.

E’ quanto manca in Italia, dove alle carenze legislative, al vuoto delle direttive, all’incapacità di classificare i crimini di odio, si aggiunge la circostanza per cui chi ne è vittima è riluttante a denunciarli per scarsa fiducia nei confronti delle agenzie istituzionali del paese ospite, oppure per il proprio status di non residente ufficiale, che trasformerebbe la denuncia in autodenuncia.

I dati riassunti sopra sono il risultato di una serie di componenti alle quali corrispondono altrettante azioni e interazioni. Il sistema della giustizia criminale viene attivato da un’azione/interazione che consiste nella denuncia di un reo su iniziativa di una parte lesa Non è dato sapere, visto il clima di allarme diffuso in Italia relativamente all’immigrazione (in particolar modo quella clandestina), se le vittime di reato siano più propense a denunciare autori di reato stranieri in quanto partecipi emotivi o promotori di questo allarme. Altra azione/interazione si sostanzia nei controlli di polizia effettuati sulla popolazione. E’ questo, se vogliamo, il momento di ingresso privilegiato degli stranieri nel sistema della giustizia criminale. Le statistiche ufficiali non rivelano le scelte delle forze dell’ordine in merito ai gruppi di cittadini ai quali i controlli si rivolgono in maniera prioritaria. La visibilità degli immigrati, nella pigmentazione della pelle come nella maniera di vestire, non dovrebbe lasciare dubbi al proposito: come altrove nel mondo, l’altro, il diverso, e nel caso italiano il probabile irregolare, saranno oggetto di attenzione differenziata. Nella scelta delle aree urbane nelle quali l’attività poliziesca sarà più intensa, inoltre, grande considerazione verrà data alla composizione etnica di chi le abita, producendo così la situazione paradossale che si osserva altrove. Segnatamente: le zone controllate più intensamente diventeranno attraenti per coloro che sono alla ricerca di beni e servizi illeciti Le statistiche, in poche parole, daranno il segno dell’attività poliziesca e del loro effetto promozionale anziché darci un quadro delle attività criminali contrastate (Hearnden e Hough, 2004).

Al successivo stadio dell’interazione tra stranieri e sistema della giustizia occorre collocare tutte quelle pratiche investigative che s’indirizzano specificamente agli stranieri medesimi. La quota di migranti identificati mediante rilievi dattiloscopici ha lasciato osservare un aumento sensibile a partire dal 1998, con una crescita esponenziale dopo il 2002, anno di introduzione della norma che rende obbligatoria per gli immigrati la registrazione delle impronte digitali.

La polizia italiana possiede le impronte di quasi due milioni e duecentomila stranieri regolari: al “dicembre 2005 gli stranieri con permesso di soggiorno erano 2.286.024, di fatto, quindi, i rilievi dattiloscopici della stragrande maggioranza degli stranieri regolari sono depositati in un sistema che ne consente l’identificazione” (Ministero Dell’Interno, 2007: 360).

La sovrarappresentazione degli stranieri nelle statistiche criminali potrebbe anche risultare da un’altra circostanza: costoro potrebbero subire imputazioni più gravi per gli stessi reati commessi da chi possiede la cittadinanza. Inoltre, in sede di processo gli stranieri possono trovarsi privi di difesa adeguata e la severità del giudizio nei loro confronti può scaturire dalla loro condizione marginale e dalla percezione che difficilmente autori di reato socialmente esclusi possano trovare modo di cambiare registro di vita. La presenza in carcere, ultimo aspetto della disproporzionalità, può segnalare la riluttanza dei magistrati ad applicare misure alternative alla custodia, in quanto i soggetti esclusi sono privi di quelle reti familiari e di quelle affiliazioni sociali che potrebbero aiutarli nel reinserimento.

A tutto questo viene dato il nome di razzismo istituzionale, inteso come una sommatoria di azioni, eventi e scelte che, sullo sfondo di pregiudizi radicati sia tra la popolazione generale che tra i componenti delle agenzie istituzionali, determina la vistosa sovrarappresentazione degli stranieri nel sistema della giustizia (Palidda, 2001; Marshall, 1997; Tonry, 1999; Newburn et al, 2004).

Sovrarappresentazione e disparità di trattamento s’intrecciano con quel processo da alcuni inadeguatamente definito di “criminalizzazione”, inteso come particolare accanimento delle pratiche poliziesche e giudiziarie contro gli immigrati, i quali verrebbero penalizzati per atti che a volte non hanno commesso o che, se commessi da altri, verrebbero tollerati.

Al contrario, ho fin qui descritto una serie di stadi, legati a scelte, azioni e interazioni, che conducono a una gamma di svantaggi a danno degli stranieri che compiono illeciti, non degli stranieri che non ne compiono. La scelta dell’attività illecita, a sua volta, merita specifica interpretazione, indipendentemente dagli studi quantitativi finora in Italia così copiosamente prodotti.

Deprivazione relativa

Tra gli studiosi che non sono disposti a riconoscere il fattore ‘razzismo istituzionale’, e che tuttavia rifiutano ogni associazione automatica tra retroterra etnico e criminalità, vi sono coloro che simultaneamente rifiutano l’idea che ‘le statistiche criminali vengano perennemente manipolate da una polizia razzista che arresta gli stranieri anziché dare la caccia ai veri criminali’ (FitzGerald, 2004: 22). Penso ad autori che fanno proprio il paradigma classico della deprivazione relativa, secondo cui la presenza sproporzionata delle minoranze nelle statistiche criminali è funzione degli svantaggi sociali che ne caratterizzano la condizione. La loro stessa visibilità, d’altro canto, si deve al tipo di occupazione loro disponibile, che si svolge spesso per strada, esponendoli così all’attenzione poliziesca. In questa prospettiva, non ha senso spiegare come mai tanti stranieri vengano fermati per strada dalle forze dell’ordine, ma piuttosto esaminare come mai tanti stranieri sono frequentatori assidui della strada.

Il rapporto tra criminalità e condizione sociale generale forma l’oggetto di studio di Tonry (1999), il quale distingue tra immigrati di prima e di seconda generazione, notando che i secondi incontrano problemi più acuti di assimilazione e sono più propensi all’illecito in quanto accusano in misura maggiore il senso di frustrazione per le aspettative deluse. Se ai genitori, come suggerito sopra, viene imposta una drastica riduzione delle aspettative, analoga imposizione ha scarsa efficacia nei confronti dei figli, cresciuti nella convinzione di possedere diritti uguali ai figli degli autoctoni. Le generazioni successive, viene detto, mostreranno tassi di criminalità non dissimili da quelli rilevati nella popolazione in generale.

Analogamente, Marshall (1997) focalizza l’analisi sul crimine come conseguenza della disillusione e della discriminazione sociale subita dai giovani figli d’immigrati, e la variabile “aspettative tradite” ritorna negli studi post-coloniali, che tentano di interpretare, ad esempio, le differenze nei tassi di criminalità tra i giovani di origine caraibica e quelli di origine asiatica.

Il declino delle condizioni economiche e sociali che colpisce specifiche minoranze viene indicato come uno dei fattori che favoriscono le condotte criminali.

Questi fattori includono, tra l’altro, l’inadeguatezza dell’ambiente familiare, l’assenteismo paterno, l’insuccesso scolastico e la zona urbana di residenza. ‘Le condotte criminali sono senza dubbio più diffuse nelle aree svantaggiate, particolarmente laddove si concentra la povertà estrema e dove la stabilità residenziale è limitata e la precarietà elevata’ (Webster, 2007: 65). In simili ambienti urbani, lo svantaggio sociale e l’esclusione darebbero vita a identità aggressive, mascoline da parodia, e ad atteggiamenti di sopraffazione che favoriscono le carriere criminali.

In una ricerca promossa dalla Camera dei Comuni nel Regno Unito, similmente, viene reiterato che, nell’esaminare i dati su criminalità e minoranze, occorre tener presente che queste ultime vivono condizioni di svantaggio di natura occupazionale, formativa e abitativa, condizioni che ‘in parte si presentano come fattori predittivi del comportamento illegale e che favoriscono l’incontro col sistema della giustizia criminale’ (House of Commons, 2007: 38). In breve, le analisi ufficiali del nesso tra minoranze e criminalità fanno propria la nozione di deprivazione relativa e con questa spiegano il fenomeno della disproporzionalità; e mentre quest’ultimo fenomeno viene collegato alle pratiche discriminatorie adottate dalle agenzie di controllo, un ruolo importante viene anche assegnato a fattori socio-demografici, alla presenza delle minoranze nelle strade, al loro stile di vita e alla loro visibilità, particolarmente in zone prese di mira dalla polizia.

Viene infine anche ricordato che l’investigazione poliziesca compie sforzi supplementari quando si trova di fronte a denunce contro stranieri e minoranze, sui quali per altro custodisce una mole relativamente superiore di informazione (Home Office, 2005). Questo è ancor più vero nel contesto italiano, dove come si è detto la quasi totalità degli stranieri viene forzata a depositare i propri dati dattiloscopici presso le agenzie di controllo.

Se da un lato la letteratura internazionale non fornisce dati definitivi sui tassi criminali rilevati presso le minoranze in rapporto a quelli delle maggioranze (Bowling e Phillips, 2002), dall’altro lato, gli studi di cui si è appena detto si concentrano quindi, anziché sui processi di criminalizzazione, sul nesso povertà-delinquenza. In debito con la tradizione ecologica degli anni ’20 dello scorso secolo, simili studi propongono la nozione di ‘zone devianti’ come chiave esplicativa di come determinate condotte siano concentrate in alcune aree urbane.

Tra i fattori esaminati vi sono la densità popolativa, l’abbandono, i tassi di inattività registrata, e l’instabilità demografica.

In breve, mentre le diverse zone offrono strutture di opportunità e motivazioni sensibilmente differenziate all’attività deviante e criminale, simultaneamente attraggono le persone più propense a svolgere simili attività, in quanto i meccanismi del controllo sociale in queste zone sono deboli o inefficaci’ (Barak, 1998: 198).

In conclusione, gli alti tassi di criminalità tra le minoranze si devono in larga misura all’area urbana nella quale queste risiedono, piuttosto che al loro retroterra etnico o alle risposte istituzionali che la loro criminalità sollecita.

Questa ipotesi, come ho notato, costituisce un’estensione delle analisi prodotte dai sociologi di Chicago i quali, tra gli anni ’20 e ’30, identificavano delle ‘aree di transizione’ nell’ambiente urbano dove si concentravano le più visibili ‘patologie sociali’. I nuovi migranti che intendevano congiungersi a conoscenti e familiari, veniva argomentato, erano attratti da zone le cui condizioni sociali e le cui subculture prevalenti determinavano una perpetuazione dell’illegalità. Quest’analisi, tuttavia, merita un decisivo aggiornamento.

Con l’espansione dei movimenti migratori e, simultaneamente, delle economie criminali, la variabile ‘zona urbana di residenza’ perde in parte di valore esplicativo, in quanto i beni e i servizi illeciti, anche quando forniti dalle minoranze, raggiungono strati di popolazione che trascendono le specifiche comunità e la loro composizione etnica. A questo proposito, gli autori che adottano una prospettiva post-coloniale prestano maggiore attenzione alle differenze di classe, all’esclusione di tipo strutturale e all’oppressione percepita dagli stranieri (Tatum, 1996), che producono ‘alti livelli di alienazione, criminalità e violenza anche internamente alle stesse minoranze’ (Barak, 1998: 209).

Vorrei partire da queste considerazioni per affrontare il rapporto stranieri-crimine da un’altra prospettiva.

Crimine e vulnerabilità

Nella ricerca che ho segnalato, condotta in Italia dal Ministero Dell’Interno, si traccia una distinzione preliminare tra reati strumentali, che mirano a raggiungere fini economici, e reati espressivi, determinati da passioni e conflitti. Per quanto utile, simile distinzione andrebbe a mio avviso corredata con categorie che stabiliscono i costi e i benefici dei singoli reati, in maniera da verificare se alcuni gruppi di rei, tipicamente, adottano condotte criminali che li espongono a rischi elevati ma producono rendimenti limitati.

L’argomentazione che mi accingo a presentare può trarre beneficio dal discernimento che ci offre un autore classico afro-americano: Richard Wright.

I suoi protagonisti, anche quando commettono crimini, sono autodistruttivi, incapaci di controllarne gli esiti e di cambiare, attraverso l’illegalità, la propria condizione sociale.

Anche se violenti, la loro è la violenza dei violati (Ruggiero, 2005). Dobbiamo a Bauman (1990) una serie di riflessioni relative alla libertà di scelta e a come questa sia profondamente differenziata tra gli individui e i gruppi. A ognuno viene offerta una gamma di scelte, e con questa, una serie di strumenti per prevederne gli effetti. Lo svantaggio sociale, in questa prospettiva, coincide con una limitata varietà di opzioni disponibili, ma anche con una percezione inadeguata dei risultati ai quali le opzioni conducono. Insomma, i migranti, ai quali vengono offerte opportunità limitate nel mercato del lavoro ufficiale, si trovano di fronte a una gamma altrettanto limitata di scelte nei mercati illegittimi. E’ questa una forma meno visibile di ‘criminalizzazione’; si tratta di una distribuzione differenziata delle opportunità criminali che sfavorisce immigrati e minoranze, alle quali vengono lasciate le mansioni e le condotte più rischiose, spesso meno remunerative, e maggiormente esposte all’intervento istituzionale. Se, come ho fatto notare, il costo della scelta deviante e criminale per i migranti è relativamente basso, sono invece gli effetti di simile scelta a presentare costi elevatissimi. In altre parole, se la condizione di marginalità favorisce l’accesso alle aree sociali adiacenti, frequentate da operatori illeciti e dalla loro clientela, una volta fatto ingresso in simili aree i migranti troveranno un rapporto costi-benefici radicalmente sfavorevole.

I dati sommariamente esposti nelle pagine precedenti indicano che per le rapine in banca e negli uffici postali, forse i reati di maggiore valore aggiunto, la quota degli stranieri è estremamente bassa. E’ alta, al contrario quella relativa ai borseggi, ai furti in abitazione e a quelli di autovetture, dai quali scaturiscono profitti presumibilmente modesti. Lo è anche per le rapine di strada, che al costo emotivo elevatissimo per le vittime non fa corrispondere benefici altrettanto elevati per gli autori. I dati ci rivelano un repertorio di reati bagattellari altamente stigmatizzati, facilmente investigabili e scarsamente remunerativi. Ci segnalano poi che esiste un tipo di vittimizzazione che si compie tra stranieri, una vittimizzazione intra-etnica e inter-etnica.

Quello che i dati non rivelano sono i crimini che definisco autoinflitti.

Mi riferisco, ad esempio, al traffico di esseri umani che, quando effettuato da stranieri, colpisce le stesse minoranze etniche che ne sono l’utenza.

La prostituzione, a sua volta, vittimizza le donne straniere, e non risulta che gli imprenditori criminali immigrati siano in grado di reclutare lavoratrici del sesso italiane, più propense, semmai, a occupare le fasce protette, voluttuarie, di simile economia. Il racket della protezione operante nelle maggiori città italiane, quando condotto da immigrati, colpisce generalmente altri immigrati, né la vittimizzazione degli italiani verrebbe tollerata dai gruppi indigeni.

Come già notato, anche molti reati di violenza, quando non commessi da italiani ai danni di immigrati, vengono perpetrati internamente alle enclave delle minoranze tecniche immigrate (Ruggiero, 1999). Per gli omicidi, infine, quando commessi fuori da strutture ben organizzate, la vulnerabilità dell’autore si deduce dalla alta probabilità dell’arresto. E’ quanto si osserva in ogni paese, dove l’uso di assassini a contratto protegge i mandanti e lascia osservare bassissime quote di denunce nei loro confronti. E’ proprio in relazione alla criminalità strutturata a mo’ di impresa che gli stranieri in Italia lasciano osservare un panorama di incerta definizione. Vediamone degli elementi desunti da alcuni degli studi disponibili.

Nella letteratura sul crimine organizzato dei migranti in Italia ricorrono una serie di giudizi, a volte poco pertinenti, che vengono trasmessi dalle agenzie istituzionali agli studiosi, da entrambi ai giornalisti, e da questi ultimi al pubblico. In una premessa che viene replicata da più parti senza fornire prove che ne corroborino il contenuto, si specifica che le organizzazioni criminali formate da stranieri ‘si caratterizzano per la particolare violenza e aggressività nella commissione dei reati e per la costante crescita delle loro potenzialità operative’ (Di Nicola, 2008: 193).

E’ davvero difficile stabilire in che cosa consista questa ‘particolarità’, vista la potenza di fuoco e la forza espansiva del crimine organizzato indigeno. Ma certo: gli stranieri sono sempre partecipi di una cultura più violenta della nostra! Più utili, semmai, sono gli studi che definirei “di settore”, mirati cioè a individuare il tipo di attività illecita, l’area geografica d’influenza e le interazioni che i gruppi stranieri lasciano osservare con la criminalità indigena in questo e quel contesto.

In maniera esitante, e in attesa di maggiori riscontri, si può allora suggerire che in alcune regioni italiane la criminalità organizzata straniera è indipendente dai gruppi italiani, questi ultimi essendo impegnati in attività produttive e finanziarie legittime.

Alcuni settori specifici dei mercati illegali possono avere osservato un processo di ‘successione’, per cui i gruppi stranieri vengono lasciati liberi di operare. In taluni casi, però, questa libertà viene concessa dai gruppi indigeni in cambio di una percentuale sui profitti (Becucci e Massari, 2001; Becucci, 2006). In altre zone, tra i gruppi stranieri e quelli italiani si possono stabilire dei consorzi, con una divisione del lavoro che dipende dal potere rispettivo o dalle abilità specifiche dei primi di accedere a beni illeciti e distribuirli. In altre ancora, i gruppi stranieri possono agire da dipendenti di quelli italiani, soprattutto in zone nelle quali la domanda di beni e servizi illeciti è tradizionalmente intensa. Infine, se si crede davvero che alcuni gruppi etnici sono specializzati in attività illecite particolari, vale la pena investigare, ad esempio, se l’immigrazione clandestina promossa dalle organizzazioni rumene non sia da collegare alla domanda di lavoro da parte dell’economia sommersa italiana, se l’abilità dei gruppi russi di penetrare nell’economia legittima non si debba alle modalità illecite che in questa sono radicate, e se l’interesse dei gruppi cinesi nell’importazione di beni contraffatti non sia l’effetto della particolare prosperità di questo settore illecito nel nostro Paese. In breve, la criminalità straniera in Italia andrebbe forse analizzata sullo sfondo delle caratteristiche criminogene che si osservano nel Paese.

E’ quanto cercherò di fare nella parte conclusiva di questo contributo.

L’Italia criminogena

Si diffonde rapidamente, in Italia, la percezione degli stranieri come una minaccia per l’identità e la cultura nazionale Suggerisco di capovolgere la questione e considerare la pericolosità e la criminalità degli stranieri a partire dalla loro stessa percezione di quella cultura nazionale che si sente ‘minacciata’. Ma prima, vorrei tornare brevemente all’assunto di Sutherland dal quale sono partito Gli stranieri, si è visto, commettono molti reati bagattellari, mentre per reati particolarmente remunerativi la quota sul totale dei denunciati ‘è assai bassa e inferiore anche a quella degli stranieri sui residenti’ (Ministero Dell’Interno, 2007: 371). Lo stesso Ministero specifica che gli stranieri regolari, non quelli irregolari, sono autori dei reati più gravi. I primi, infatti, sono responsabili principalmente di furto con destrezza, furto di automobile e furto in appartamento.

Tra i secondi vi sono gli omicidi consumati e tentati, il contrabbando, le estorsioni, le lesioni dolose, la violenza sessuale, lo sfruttamento della prostituzione” (ibid. 373).

Se si ritiene che gli stranieri regolari abbiano avuto più opportunità e più tempo di acquisire alcuni tratti della cultura ospite, di accumulare una certa familiarità con i suoi mercati illeciti, di perfezionare le abilità nell’offerta di beni illegali, e di stabilire principi di convivenza con la criminalità indigena, allora l’assunto di Sutherland trova in Italia una sua innegabile validità.

Il processo di ‘acculturazione’ fa in modo che gli stranieri lentamente apprendano le modalità operative, le tecniche di sollecitazione della domanda e i principi di regolazione dei mercati illeciti, e che acquisiscano infine la duttilità di convivere con la concorrenza, in alcuni casi, e di dissuaderla con al violenza, in altri. I mercati illeciti pre-esistenti al loro arrivo giocano un ruolo cruciale nel processo della loro ‘acculturazione’. Ma esiste un altro aspetto di questo processo, che rende l’acculturazione degli stranieri in Italia in un certo senso anomala quanto lo è il Paese che li ospita.

E’ difficile stabilire quanti italiani siano consapevoli della reputazione del proprio Paese all’estero. La scelta di migrare verso l’Italia non si nutre solo d’immagini fallaci di prosperità, di sogni irraggiungibili che ruotano intorno ad automobili rutilanti e abiti sfarzosi. Il Paese è attraente non certo per le opportunità di occupazione legittima che offre, ma in quanto Paese di illegalità diffusa.

Chi cerca lavoro in Italia possiede già un repertorio di informazioni, realistiche o meno, che descrivono il Paese come culla dell’evasione fiscale e della mercificazione dei diritti. Sa che le autorità, incapaci di imporre regole ai datori di lavoro, dimostreranno la stessa incapacità nei suoi confronti. Nella realtà o anche solo nella percezione di chi non è ancora giunto in Italia, i visti consolari, le chiamate dirette, i permessi di lavoro e di soggiorno si possono vendere o falsificare.

Il Paese offre ad alcuni i vantaggi della sua stessa cattiva reputazione, mentre suscita presso altri una serie di commenti beffardi non si sa fino a che punto prodotti dal pregiudizio.

I suoi rappresentanti politici, si dice, sono uniti da un dato comune, i precedenti penali; i suoi colletti bianchi sono noti esclusivamente per gli episodi di corruzione e per le scorribande irregolari nel mondo della finanza. Tra le altre caratteristiche del Paese, percepite o comprovate, vi sono poi: l’impunità degli imprenditori devianti; l’arroganza dei suoi faccendieri, operanti nel modo dello sport come in quello della moda; il nepotismo dilagante, tra la gente di spettacolo quanto tra i professionisti; i suoi latitanti eccellenti che per decenni vivono a pochi metri da casa; le scarcerazioni causate dall’inefficienza o dalla collusione.

La sensazione che violare le norme, in Italia, sia parte del costume, se non addirittura oggetto di orgoglio e ostentazione, è molto diffusa, tra europei e non. Vi è chi ritiene la stessa violazione delle norme una delle cause della prosperità italiana a sua volta così ostentata.

Dei turisti facoltosi che arrivano a Londra, si dice che vengano a sperperare l’ultima tangente.

E delle donne in pelliccia, uniche ormai in Europa a indossare l’indumento, si sussurra che abbiano un ruolo centrale nell’esportazione illegittima di capitali.

E’ un fatto che l’illegalità eccedente di un Paese finisce per dar forma a percezioni diffuse ancora più eccedenti rispetto agli episodi reali che vi si verificano.

Ad esempio, un collega turco, non molto tempo fa, mi ha chiesto se le patenti di guida, in Italia, non siano in vendita al mercato nero, visto che le violazioni del codice stradale da parte degli automobilisti sono così comuni.

Un mio studente pakistano è convinto che, per chi voglia vendere bambini, la soluzione migliore sia rivolgersi a mediatori e acquirenti italiani.

Le prostitute nigeriane che tornano al paese d’origine vengono chiamate “italos”: suscitano ammirazione per aver soggiornato a lungo illegalmente nel Paese in cui la polizia le lascia in pace e gli uomini, amanti della famiglia e della Chiesa, le considerano merce sessuale prelibata. Il potere della criminalità organizzata, a sua volta, valutato realisticamente o sopravvalutato, alimenta la percezione che, con apparati statali così inetti, esistano nel Paese forme vicarie di affermazione sociale. La longevità dei gruppi criminali italiani non solo rende manifesta l’inefficienza delle agenzie di controllo, ma sembra suggerire che le attività illegali siano tollerate, o persino incoraggiate da una domanda elastica che trascende il carattere illegale o meno dei beni erogati e dei servizi offerti. L’illegalità dilagante, nella percezione dei migranti, possiede capacità occupativa, offre protezione quando si è reclutati da gruppi potenti, e in generale consente di elaborare delle efficaci tecniche di razionalizzazione.

Vorrei riferirmi alle ‘tecniche di neutralizzazione’ individuate da Sykes e Matza (1957), i quali segnalano che per gli autori di reato il problema non è solo apprendere le modalità pratiche che consentono di condurre con successo un atto illegale, ma anche trovare la razionalizzazione, nei confronti degli altri e di se stessi, che legittimi quell’atto. Tra le tecniche di neutralizzazione, oltre al diniego dell’esistenza della vittima o della rilevanza del reato stesso, e oltre all’appello a una lealtà ‘altra’, gli stranieri possono elaborare la tecnica del “condannare chi condanna”: come potrà un Paese dove ogni cosa è illegale discriminare, condannandola, la mia illegalità?

Per concludere con una nota di ottimismo, occorre considerare che il processo di acculturazione degli stranieri, in Italia, non ha ancora percorso tutte le tappe che potrebbero completarlo. I gruppi criminali formati da migranti non sono in grado di stabilire sodalizi con imprenditori devianti o uomini politici corrotti, né sono in grado di designare direttamente dei rappresentanti e degli amministratori pubblici che potrebbero conferire un impeto senza precedenti alla loro criminalità. In alcuni classici della sociologia della devianza si sottolinea che le carriere criminali di successo si compiono quando i gruppi impegnati in attività illegittime entrano in simbiosi con le élite del mondo economico e politico (Cloward e Ohlin, 1960; Block, 1980; Chambliss, 1978). In questa maniera, crimine organizzato, crimine del colletto bianco, devianza imprenditoriale e crimine di stato si fondono in una varietà di forme inestricabili d’illegalità dei potenti. A differenza dei gruppi italiani, gli stranieri sono esclusi da questa simbiosi, e sembrano destinati, almeno per un po’, a frequentare i mercati nascosti e quelli della criminalità convenzionale. Vi è da augurarsi che la loro acculturazione non raggiunga presto completamento.

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