In un “grande quotidiano”, di quelli che pure sostengono le politiche dell’Unione Europea e il massacro sociale in Grecia come il Corriere della Sera, a volte dei ‘pezzi di colore’ sono necessari. Anche se in fin dei conti, a leggerli bene, smentiscono la linea del giornale.
Quello pubblicato ieri da Federico Fubini è esemplificativo di come la cura imposta da Bruxelles e Francoforte alla Grecia stia uccidendo il paziente. E uccidendo, in questo caso, va inteso letteralmente. Anche se l’autore prova ad addossare le responsabilità di una situazione – che definire drammatica è poco – al governo tedesco, appare più che ovvio che a sacrificare la Grecia in nome dei dogmi di bilancio e dei diktat dei creditori è l’Unione Europea in quanto costruzione brutale e antipopolare nelle sue fondamenta. E’ ora che si prenda atto di questo, prima che sia troppo tardi.
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La dichiarazione sul carbone e l’acciaio. I popoli da riconciliare. Un’unione sempre più stretta. Panagiotis Papanikolaou ieri non ha trovato cinque minuti per riflettere che altrove il 9 maggio significa tutto questo. Per lui l’Europa equivale a liste d’attesa di quaranta giorni per operare di tumore cerebrale e un ascensore in cui i piani sono stati marcati a pennarello blu per risparmiare pochi euro. Si sale così per arrivare al suo decrepito, minuscolo ufficio di neurochirurgo. È nell’ospedale nazionale di Nicea, a occidente della capitale di un club di Paesi che ha realizzato uno degli esperimenti più visionari della storia: l’Unione europea.
Vista da qui, suona come un’utopia distante. Sessantasei anni fa esatti il ministro degli esteri francese Robert Schuman gettava il seme della comunità che avrebbe portato a generazioni di pace, crescita e frontiere aperte. Oggi nel suo piccolo ufficio, il dottor Papanikolaou pensa all’Europa e si lascia sfuggire i segni di un esaurimento nervoso. Cerca di guardare i suoi ospiti ma tiene gli occhi fissi sul pavimento; credendo di parlare, urla. A lui la parola «Bruxelles» fa pensare ai cantieri stradali del suo quartiere di Atene, Pateli, e l’idea lo manda in bestia. «Spendiamo decine di milioni dei fondi europei per ricostruire i marciapiedi a prezzi criminali – dice – ma non abbiamo soldi per tenere aperti i letti di terapia intensiva».
A Nicea, questo significa qualcosa di preciso: i letti in terapia intensiva sono rimasti solo undici e si spiegano così alcune delle esperienze recenti del dottor Papanikolaou. Una malata di tumore al cervello ha dovuto aspettare tre mesi per curarsi. Un paziente già operato con successo resta ricoverato da due mesi perché ha preso a sanguinare dal cervello, dopo aver contratto in terapia intensiva un raro batterio: lo trasmettono le infermiere, a quanto pare, troppo poche e dunque costrette a curare e toccare più ricoverati in ogni turno. Da anni lavorano sette giorni la settimana. Servirebbe un paramedico per ogni postazione, in Grecia oggi ce ne sono uno ogni tre e resta chiuso oltre un quarto dei letti disponibili in terapia intensiva.
Una carenza di queste dimensioni sta sicuramente costando vite umane. Il 4 febbraio scorso una donna di 55 anni è morta d’influenza nell’ospedale Sotiria («Salvezza») aspettando invano un letto: quel giorno la lista d’attesa per la terapia intensiva ad Atene era di 75 persone. L’associazione dei medici di Atene sostiene – su basi imprecisate – che riaprire duecento letti chiusi salverebbe duemila vite l’anno e la procura proprio ieri ha annunciato «inchiesta di massima urgenza» dal sapore e clamore decisamente italiani.
Non che le radici del problema siano un mistero: per riaprire duecento letti in terapia intensiva in Grecia lo Stato deve assumere cento medici e quattrocento paramedici, al costo di quindici milioni l’anno. Non può. I creditori, i governi europei guidati dalla Germania e il Fondo monetario internazionale, non autorizzano il governo greco ad assumere un solo statale: temono il ritorno del clientelismo, oltre a quello della spesa.
Proprio ieri a Bruxelles gli europei hanno preso atto che il governo di Alexis Tsipras imporrà, su loro richiesta, nuovi tagli e un altro aumento delle tasse. Sulla scala dell’Italia, equivarrebbe a un pacchetto di sacrifici da 48 miliardi di euro. La sola differenza è che l’economia ellenica è già crollata di quasi un terzo rispetto in otto anni, nel frattempo ha ridotto il deficit pubblico dell’11% del Pil e – secondo il sito PubMed – è salita al primo posto in Europa per frequenza delle infezioni in terapia intensiva.
Papanikolaou, il neurochirurgo, sa già che le misure porteranno nuove tasse per lui, dopo un taglio di oltre metà dello stipendio dal 2011. Da domani opererà il cervello per meno di duemila euro al mese, mentre la migrazione dei nuovi laureati verso la Germania e la Gran Bretagna non potrà che accelerare: già oggi l’ospedale di Nicea fatica a trovare praticanti da formare, perché tutti si precipitano all’estero. «Abbiamo perso una generazione di medici», dice Papanikolaou.
In una lettera ai governi europei, la direttrice dell’Fmi Christine Lagarde ha definito tutto questo insensato. Gli obiettivi di bilancio imposti alla Grecia, un attivo del 3,5% del Pil sul futuro prevedibile, secondo lei non hanno più senso: «Più di quanto economicamente e socialmente sostenibile», ha scritto Lagarde. «Controproducente». Il governo di Atene finge di adeguarsi tagliando e tassando là dove è meno difficile, non dove servirebbe. Ma Wolfgang Schäuble, il ministro delle Finanze tedesco all’origine di queste richieste, non deflette: il suo partito conservatore a Berlino non intende scoprire il fianco destro all’ascesa dei nazionalisti di Alternative für Deutschland. Così, sessantasei anni dopo la dichiarazione di Schuman, le scelte vitali di una nazione vengono determinate dall’agenda di partito di un altro governo in Europa e non da un minimo di logica o di umanità. Il bilancio della Grecia al 2018 prevede già nuovi tagli sui farmaci.
In ufficio a Nicea, Papanikolaou continua a guardare per terra. I suoi strumenti di microchirurgia sono obsoleti, le macchine mobili dei raggi X bloccate. Come fate? Il dottore alza gli occhi e si capisce che il vecchio bisturi vorrebbe finirlo sull’ospite.
Federico Fubini (Corriere della Sera 10 maggio 2016)
(Ha collaborato Nikolas Leontopoulos)
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