Si è tenuto sabato scorso a Roma il Seminario Nazionale organizzato dalla Rete dei Comunisti e intitolato “La ragione e la forza. Riflessioni sul ruolo dei comunisti tra passato e futuro”. Nella sala di Via Galilei a Roma più di un centinaio di attivisti e militanti politici, sociali e sindacali hanno partecipato all’iniziativa aperta in mattinata dalla relazione introduttiva di Mauro Casadio che oltre a evidenziare i punti salienti del documento di convocazione ha contestualizzato e approfondito alcune delle questioni politiche più dirimenti.
Nel corso della giornata tre relazioni hanno affrontato altrettanti temi al centro della riflessione della Rete dei Comunisti: l’accentuazione sulla necessità, nell’attuale fase storica e nel contesto dell’Europa a capitalismo avanzato, di una organizzazione comunista di quadri con funzione di massa; le caratteristiche del polo imperialista europeo, le sue dinamiche interne e la necessità di un’analisi e di una prospettiva che vadano al di là della mera dimensione nazionale; la necessità di una attenta analisi sulla composizione sociale della nostra società e della realizzazione dell’inchiesta di classe allo scopo di evidenziare un blocco sociale antagonista sul quale poggiare un’ipotesi di rottura e di cambiamento radicale.
Alle tre relazioni, curate da altrettanti compagni della Rete dei Comunisti, si sono alternati durante la giornata diversi interventi, non solo di militanti della RdC ma anche di compagni appartenenti ad altre organizzazioni comuniste e di intellettuali che negli anni hanno fornito all’analisi e al dibattito sui temi in esame un contributo prezioso e non circostanziale. Tra i vari intervenuti al dibattito Michele Franco, Luciano Vasapollo, Sergio Cararo, Giorgio Cremaschi, Fabrizio Marchi, il Collettivo Militant, Raul Mordenti, Claudio Ursella, Giorgio Gattei, Noi Restiamo, Massimo Grandi, Gualtiero Alunni.
A partire da oggi sul sito della Rete dei Comunisti pubblicheremo quotidianamente i testi integrali delle relazioni, a partire dall’introduzione al dibattito curata da Mauro Casadio, e poi anche quelli dei numerosi interventi che sono pervenuti a commento del documento diffuso dalla RdC prima della realizzazione del seminario nazionale di sabato 18 giugno.
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Relazione introduttiva
di Mauro Casadio (Rete dei Comunisti)
La relazione introduttiva non entrerà nel merito dell’impianto politico del documento “La Ragione e la Forza” ma intende contestualizzare lo sforzo analitico che stiamo facendo e la proposta sia rispetto alle evoluzioni del quadro oggettivo sia rispetto a quelli che sono gli obiettivi che riteniamo vadano posti rispetto al quadro suddetto. Vogliamo impostare questo incontro come momento di confronto, approfondimento e, se necessario, di espressione di posizioni diverse; ma è anche un momento di autoformazione in quanto questa si presenta sempre più necessaria per i militanti ed attivisti della Rete dei Comunisti per affrontare una condizione sempre più complessa.
Si comprende, infatti, la reale dimensione della situazione attuale se questa si concepisce come un passaggio di spessore storico che segna l’evoluzione/involuzione del capitalismo moderno prodotta dall’accentuazione delle sue contraddizioni strutturali. Una tale complessità del processo in atto non può essere affrontata alla maniera della sinistra nostrana, cioè prendendo a riferimento la fenomenologia degli eventi politici e sociali come chiave di lettura principale, ma usando e ripristinando quegli strumenti teorici che hanno permesso al marxismo di continuare ad interpretare correttamente l’evoluzione della situazione nonostante le fasi di stallo o di sconfitta registrate sul terreno dal movimento di classe. Questo è valido anche nell’attuale fase di arretramento generale dove le categorie del marxismo si mostrano ancora capaci di leggere i sommovimenti di fondo del presente modo di produzione.
IL NODO DELL’ORGANIZZAZIONE DEI COMUNISTI
Questo approccio e questi strumenti riteniamo siano validi anche per definire i caratteri della questione dell’organizzazione di classe e dei comunisti. C’è un nesso stretto tra l’evoluzione del modo di produrre, la trasformazione della composizione di classe e le forme dell’organizzazione intesa in senso largo, dalla questione del partito a quella dell’organizzazione di classe intesa come costruzione di un tessuto organico. Questo abbiamo cercato di delineare nel documento collegando le mutazioni della soggettività a quella dei processi generali ed oggettivi in quanto riteniamo necessario individuare dei parametri per poter elaborare una teoria sull’organizzazione che non sia immutabile ma in stretta connessione con le mutazioni sociali, politiche ed internazionali.
Anche uscendo dai cicli storici che abbiamo descritto nel documento possiamo individuare con chiarezza nell’ultimo quarantennio come ai cambiamenti strutturali siano seguiti processi organizzativi che hanno modificato comunque il modello e la pratica d’organizzazione, spesso in modo non pienamente cosciente anche da parte delle stesse direzioni politiche. Penso che chi ci legge ha avuto percezione diretta, per i più anziani, ed indiretta dei cambiamenti avuti negli anni ’70 dove l’irrompere del movimento operaio cresciuto nei centri produttivi fordisti, da noi fu il ’69, e di quello giovanile hanno cambiato sia i caratteri delle organizzazioni politiche, ad esempio con la nascita delle organizzazioni extraparlamentari. Ma pure di quelle sindacali con l’affermazione dei consigli dei delegati nei luoghi di lavoro che superarono per funzione e peso in quel periodo le stesse confederazioni sindacali. Certo le risposte a quegli sviluppi non furono del tutto positive ma la necessità del cambiamento si impose obiettivamente a tutti i livelli ed anche su quello dell’organizzazione del conflitto di classe.
Come la cesura avuta negli anni ’90 con la fine del campo socialista e con il rilancio delle forze produttive in funzione del capitale a livello mondiale ha cambiato “l’habitat” delle organizzazioni comuniste che, soprattutto in Europa, hanno continuato ad agire prescindendo dalla modifica del contesto complessivo, ripetendo modelli e relazioni che sono stati mano mano superati dalla situazione. Questo approccio non dialettico ha portato spesso alla superfluità delle stesse organizzazioni comuniste che, seppure sono riuscite in alcuni paesi come in Grecia e Portogallo a resistere ed a mantenere una presenza significativa, non sono riuscite più a cogliere il sentire profondo della società.
Al di la delle diverse valutazioni che si possono dare in questi anni un elemento si è mostrato in tutta evidenza. Nella storia dei partiti comunisti dell’Europa occidentale nel secondo dopoguerra la capacità, in misura più o meno maggiore, di tenere unita la prospettiva comunista di trasformazione con la rappresentanza politica del blocco sociale antagonista c’è sempre stata ed i partiti comunisti hanno sempre avuto un ruolo nei parlamenti nazionali. Dagli anni ’90 si è cominciata a manifestare una divaricazione tra queste due “stadi” della lotta di classe causata dalle condizioni oggettive prodotte dalla sconfitta avuta in quel periodo ma che non è stata percepita nei suoi effetti materiali. Questo ha portato ad avere approcci diversi da parte dei partiti comunisti europei che hanno sbandato dal nuovismo liquidazionista alla Bertinotti al settarismo come elemento di difesa del partito, legittimo ma assolutamente inadeguato ai nodi che si delineavano all’epoca.
Questa mancanza di analisi delle dinamiche profonde e delle mutazioni della classe ha portato la “rappresentanza politica” del blocco sociale penalizzato dallo sviluppo capitalista verso forme politiche diverse da quelle dei partiti comunisti. Da qui sono nate realtà quali Syriza, Podemos, in Italia il M5S che pur esprimendo opposizione in senso democratico non hanno definito alcuna prospettiva strategica alternativa. La stessa involuzione di Syriza di fronte allo scontro che l’Unione Europea andava producendo con determinazione è la conferma della necessità di una idea di superamento del capitalismo senza la quale il predominio dell’avversario di classe, per di più se ha il carattere dell’imperialismo, non può essere messo in discussione.
Ed è a questo punto che a noi, qui ed ora, ci si pone il problema del ruolo dei comunisti e di come questi possano ritrovare quel radicamento che, senza riproporre formule obiettivamente superate, permetta la ripresa se non di egemonia ma almeno di una capacità di orientamento nel conflitto di classe che comunque non potrà nei prossimi anni che aumentare. Se siamo di fronte ad un passaggio storico non possiamo non valutare anche le modalità con cui i comunisti si debbano organizzare e di come debbano essere organizzati nella società; anche se la condizione ineludibile rimane che dentro questa riflessione siano sempre chiari quali debbano essere i “fini” senza i quali il conflitto di classe si riduce a vertenza e, se le condizioni lo permettono, al massimo redistribuzione di quello che lascia l’avversario.
RITROVARE UNA CAPACITA’ TEORICA
Il seminario di oggi tenta di impostare i nodi relativi all’organizzazione ponendo le questioni che abbiamo evidenziato nel documento ma sapendo che la fase che si apre richiede uno sforzo, possibilmente non solo nostro, per riprendere un lavoro di analisi e teorico che sappia interpretare i caratteri della fase che la crisi che si protrae dal 2008 sta nel tempo svelando. Per noi gli anni ’90 sono stati un momento importante di elaborazione sulla costruzione del Polo Imperialista Europeo che solo oggi si sta manifestando in modo chiaro almeno come tendenza; da quel decennio gli sviluppi verso un mondo multipolare o di competizione globale sono stati molto forti e dunque pensiamo che bisogna rimettere mano all’arma della critica per capire le potenzialità che potranno emergere da questa realtà e di come i comunisti si debbano attrezzare per affrontarle.
In questo senso pensiamo che vada ripresa una elaborazione sulla fase organizzando un nuovo incontro entro la fine dell’anno per il quale abbiamo scritto un testo che riprende uno scritto di Gramsci descrivendo bene la condizione che oggi stiamo vivendo ovvero una condizione dove “il vecchio muore ma il nuovo non può nascere”. Sappiamo che non sarà un lavoro facile per la complessità della situazione che produce in continuazione scenari ed eventi che talvolta sembrano sfuggire ad ogni possibilità di previsione. Ma questo non è valido solo per noi in quanto chi oggi non è in grado di “pianificare” è proprio il potere finanziario e politico prigioniero della irrazionalità dell’attuale sistema. Lavoro difficile anche per i limiti che una organizzazione come la nostra non può che avere e rispetto ai quali vorremmo adottare lo stesso metodo avuto negli anni scorsi in cui le nostre ipotesi sono state oggetto di un lavoro di analisi e di critica assieme ad altri compagni, intellettuali, militanti che hanno contribuito a sviluppare una idea delle dinamiche in atto nel capitalismo sorto con la mondializzazione effettiva del modo di produzione capitalistico.
Ve detto che questo tipo di ricerca non può avere un risvolto politico immediato, come in modo miope spesso si tende a ricercare, in quanto vuole lavorare sulle prospettive e sugli scenari futuri potenziali ma non ancora reali. Qui troviamo una difficoltà nello sviluppare un lavoro collegiale tra i comunisti, soprattutto con quelli organizzati, che non tenga conto immediatamente della contingenza politica e questo per noi è un limite perché la partita che ci possiamo giocare ha tempi forse non lunghi, visto l’incedere della crisi, ma certamente non immediati dove le contraddizioni che si stanno accumulando a tutti i livelli possano precipitare in un conflitto generalizzato. In questo senso avanziamo nel documento la proposta di costruire una sede di confronto qualitativo che sappia sull’immediato prescindere dall’azione politica ma che crei nel tempo gli strumenti comuni di lettura delle dinamiche generali. Ovviamente sappiamo che è una operazione di non facile attuazione ma ci sembra necessario quantomeno tentare di praticare questo terreno ed il convegno che abbiamo proposto per fine anno potrebbe essere un prima occasione di verifica comune.
ALCUNE NOTE SUL MERITO
A questo punto è utile riprendere alcune questioni affrontate nel documento “La Ragione e la Forza” in quanto attengono alla condizione politica che stiamo vivendo e mi riferisco a due nodi centrali che abbiamo definito come rappresentanza politica del blocco sociale e organizzazione del conflitto di classe in un paese come il nostro, nel cuore di una cittadella imperialista.
Sul secondo va sottolineato come in Italia lo scontro nel mondo del lavoro, con le sue attuali configurazioni, ormai vive fuori definitivamente da quelle che sono state le organizzazioni storiche del movimento operaio. L’involuzione in atto della FIOM manifestatasi con la pratica delle espulsioni è un sintomo significativo di come il dissenso nell’ambito sindacale tradizionale non può sopravvivere alla stretta che viene fatta e che ha origine dentro i processi di centralizzazione autoritaria che impone l’Unione Europea ai paesi membri ed alle loro organizzazioni sociali. La fuoriuscita di importanti settori operai, e non solo, da quella organizzazione è un segnale che diviene ancora più forte se si mette in relazione al conflitto sindacale e politico che sta ora in pieno svolgimento in Francia dove quella che è stata da noi definita concertazione è completamente saltata e dove si dimostra che è possibile lottare anche in un contesto estremamente difficile come quello che sta determinando l’Unione Europea.
Sul terreno direttamente sindacale però non contano solo gli eventi che dimostrano la irriformabilità delle nostre organizzazioni sindacali complici ma va fatta una riflessione su come i comunisti hanno concepito l’intervento nel sindacato, in particolare nella CGIL, nel nostro paese. Il “principio” politico che è stato sempre, ed ancora oggi per alcuni, richiamato per motivare la necessità di rimanere dentro le organizzazioni complici è stato quello per cui si deve stare comunque dentro le organizzazioni di massa orientandone il conflitto anche se queste sono riformiste o “reazionarie”. Il richiamo è al leninismo ed alla funzione che i comunisti hanno svolto nel nostro paese anche dentro i sindacati fascisti nel ventennio della dittatura.
Se del leninismo va salvaguardato, dal nostro punto di vista, il nesso stretto da costruire tra il partito e le masse, tra i settori avanzati e quelli medi della classe e dunque la continuità ed il rafforzamento del rapporto di massa, quello che va capito in realtà è se questo principio oggi si possa attuare dentro o fuori le organizzazioni sindacali concertative. Questo ci rinvia alla questione della composizione di classe ovvero se le attuali confederazioni sono rappresentative di questa composizione e, dunque, se ne rappresentano gli interessi anche se solo in modo corporativo; in questo è evidente che oggi il rapporto non c’è in termini di rappresentanza organizzata in quanto basta confrontare i dati della realtà produttiva del nostro paese, ovvero dei caratteri attuali del mondo del lavoro nelle sue molteplici sfaccettature, con quelle delle organizzazioni confederali per capire che da tempo viaggiano su binari diversi e divaricanti.
Come non tiene il discorso di lavorare dentro i sindacati anche “reazionari” in quanto le contraddizioni che esistevano in altri momenti storici dove si manifestavano in conflitti molto più forti ed addirittura violenti oggi non possono emergere ed affermarsi contro apparati burocratici che sono strettamente controllati dalle direzioni. Apparati dove la funzione di rappresentanza è stata ampiamente sostituita da quella di servizio o, per essere più chiari, da quella del controllo sociale tramite diverse forme di redistribuzione clientelare.
Su questo rimandiamo per un approfondimento teorico ad uno scritto della RdC, che pubblicheremo sul nostro sito, dove nel 2002, nella nostra prima assemblea nazionale, avevamo sviluppato una riflessione più strutturata a partire dai dati storici delle evoluzioni sindacali e del ruolo avuto dai comunisti dentro questa dimensione del conflitto di classe.
L’altro nodo della rappresentanza politica del blocco sociale appare molto più evidente e si capisce che non può essere costruito e gestito, almeno in Europa, riproducendo i meccanismi del partito comunista di massa. Gli stravolgimenti produttivi e sociali avuti negli ultimi decenni hanno inciso profondamente non solo sul dato materiale ma anche su quello identitario ed ideologico dei settori proletari e di quelli di piccola e media borghesia. Il rimescolamento sociale dove si afferma la diseguaglianza ed il ruolo parassitario della finanza sta producendo sconvolgimenti nel blocco sociale del nostro paese che non può essere più paragonato a quello degli operai e contadini, con una tattica nei confronti dei ceti medi, che è quello che ha contraddistinto la condizione sociale e dei rapporti tra le classi fino agli anni ’80.
I riverberi di questa evoluzione ormai si sono affacciati sul piano della rappresentanza istituzionale sia con movimenti più o meno caratterizzati a sinistra, i già citati Podemos, Syriza e M5S in Italia, ma anche con fenomeni quali quelli del Fronte Nazionale della Le Pen in Francia e per certi versi anche l’emergere di fenomeni quali quello di Trump negli Stati Uniti. In realtà il degrado della condizione sociale di settori sempre più ampi nei paesi a capitalismo avanzato sta generando fenomeni politici con i quali bisogna fare i conti e che non possono essere demonizzati come è stato fatto in Italia con l’antiberlusconismo dove l’esito finale è stato la nascita del peggiore PD, quello renziano. Il punto su cui riteniamo indispensabile riflettere ed agire è come i comunisti riescano ad intercettare una contraddizione che se nelle forme è in discontinuità con la storia del movimento operaio del ‘900 ne ha in comune le radici di una società divisa in classi.
Società dove il capitale nella sua forma finanziaria ne rappresenta il polo egemone ma dove le contraddizioni prodotte hanno un carattere di classe sia che queste siano tradizionalmente quelle operaie e del lavoro dipendente, o che siano quelle del lavoro autonomo, subordinato, di lavoro intellettuale ma anche quelle di settori intermedi che vedono precipitare la loro condizione materiale nella gerarchia sociale. Alcuni elementi significativi di indicazione politica stanno emergendo dal voto delle principali aree metropolitane del paese dove la necessità di opposizione politica ed elettorale sopravanza la stessa spinta alla lotta diretta dei settori sociali, anche se in forme nuove in cui l’esperienza napoletana di De Magistris ne rappresenta sicuramente l’esperienza più avanzata. Non possiamo allora che tornare alla domanda principale alla quale in parte abbiamo tentato di dare una risposta sicuramente parziale nel documento, ovvero qual è la funzione che i comunisti devono svolgere in questo nuovo ed inedito contesto in cui si manifesta il conflitto di classe?
SUI TRE FRONTI
Questa disarticolazione del conflitto di classe ci sembrava che emergesse già dagli anni ’90 ed in questo senso avevamo ipotizzato il lavoro su quello che avevamo definito i tre fronti della lotta di classe. Il punto di fondo che segna la differenza dalla fase precedente è che la sconfitta storica avuta ha portato allo scompaginamento di quei tre fronti che per tutto il ‘900 avevano trovato una sintesi politica ed una capacità di azione e trasformazione nel partito. Si tratta del piano teorico-strategico relativo ai comunisti, quello politico e istituzionale e quello sindacale-sociale; se vogliamo possiamo dire che lo scompaginamento prodotto è stato paragonabile ad una sconfitta militare che ha obbligato l’esercito in rotta ad una ritirata strategica e ad una riorganizzazione che non poteva presupporre di nuovo e in tempi rapidi battaglie campali.
Riproporre invece il partito di massa così come era stato precedentemente costruito, non fare i conti con gli effetti ideologici sulla classe degli eventi di quegli anni, oltre che con le caratteristiche delle modifiche strutturali; concepire il rapporto di massa dell’organizzazione politica come semplice “cinghia di trasmissione” o, peggio ancora, come rapporto elettoralmente strumentale, significava essere fuori dalla nuova realtà maturata in quegli anni di crisi e inconsapevoli degli effetti reali delle brutali dinamiche che avrebbero agito a livello internazionale. Non a caso non aver preso atto della profonda modifica del contesto ed aver pensato di poter procedere per “coazione a ripetere” ha portato alla sconfitta nelle battaglie campali che di volta in volta sono state tentate, da quelle elettorali al movimentismo sindacale e sociale, fino alla disgregazione attuale.
In questo senso ci sentiamo di proporre all’attenzione e alla discussione, e anche alla critica, la convinzione cui siamo arrivati in quegli anni, ovvero che la sconfitta, che ancora permane, richiede un processo di ricomposizione della classe che non può essere direttamente “politico” così come è stato concepito fino alla crisi politica della sinistra italiana nel 2008. Ciò richiede, invece, nel nostro paese e, ci sembra, anche nel resto dell’Europa un’articolazione organizzata sulla base dei tre fronti del conflitto di classe sopra richiamato. In un tale processo di ricomposizione pensiamo che il “fronte” politico, che abbiamo definito anche come Rappresentanza Politica del blocco sociale, e quello sindacale-sociale debbano avere una loro specifica progettualità; in relazione ovviamente con un progetto di trasformazione rivoluzionaria della società. Progettualità che abbia anche una sua autonomia e capacità di organizzazione e rappresentazione che oggi non può essere, nel cuore dell’imperialismo europeo, direttamente rappresentata dall’identità comunista dati i rapporti di forza e la storia recente di questa parte del mondo.
Il ruolo dei comunisti in questo assetto politico e sociale non può che essere quello di dimostrare la propria capacità di essere direzione sostanziale dei processi di ricomposizione ovvero di “accettare la sfida”; non ci sono risposte formali sul ruolo dei comunisti, o questi sono capaci di essere elemento progressivo per una prospettiva di classe oppure oggi non basta definirsi comunisti per aver riposta la fiducia delle “masse”.
Se ci sembra di aver avuto a suo tempo un approccio corretto verso le dinamiche generali va detto che oggi, poiché siamo dentro una fase di mutazione, quell’impostazione va rivista ed adeguata alle evoluzioni in atto. Se rimane valido l’approccio detto sui tre fronti, e le valutazioni fatte fin qui confermano questo impianto, non possiamo non rilevare come l’incremento delle contraddizioni sta mutando l’ambiente in cui è avvenuto il conflitto di classe, dall’alto e dal basso, in questi anni.
Limitandoci alla dimensione dell’Europa unita non possiamo non rilevare come i processi di centralizzazione autoritaria, di riorganizzazione produttiva e sociale con la conseguenza divisione del lavoro a livello continentale, come il peggioramento delle condizioni di reddito e sociale stiano spingendo verso processi di politicizzazione del conflitto da intendersi come il passaggio dalla contestazione specifica a quella generale. Una tendenza che innesta, almeno fin qui in termini oggettivi, un processo di ricomposizione che pone da una parte la necessità dell’ unità delle lotte ma dall’altra anche quella della individuazione di un modello sociale alternativo a quello attuale.
Va chiarito bene che queste sono delle potenzialità che ancora non trovano un riscontro nella capacità soggettiva di produrre un processo di ricomposizione cosciente. Individuare questa modifica significa però anche individuare la strada sulla quale incamminarsi per svolgere una funzione che non sia solo rivendicativa e democratica ma anche ”rivoluzionaria” nei termini oggi possibili dentro un’area a carattere imperialista.
Per questo la seconda proposta che abbiamo avanzato nel documento, ovvero quella di avviare collettivamente con chi è d’accordo una fase di inchiesta nei settori sociali coinvolti dalla crisi, pensiamo sia utile per far avanzare una visione unitaria delle dinamiche sociali propedeutica ad un processo effettivo di ricomposizione politica ed organizzativa.
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