Il 20 maggio 1970 la Camera dei deputati approvava in via definitiva la legge n.300, il cosiddetto “Statuto dei Lavoratori”.
In tempi di paurosa restaurazione della logica del “padrone delle ferriere” da tutti i punti di vista, delle condizioni materiali di esercizio del lavoro, appare assolutamente necessario ricordare questo passaggio storico allo scopo di non smarrirne la memoria e rivisitare il livello di dibattito dell’epoca.
Il presente di allora, infatti, nell’immediato indomani dell’autunno caldo del 1969 consentì a Giancarlo Pajetta, intervenendo nel dibattito parlamentare per argomentare il voto di astensione dei comunisti sul provvedimento,di porre il problema del potere in fabbrica, inteso come potere politico.
Il voto di astensione fu espresso anche dal gruppo dello PSIUP.
La legge n.300 fu così approvata con il voto della maggioranza di centro – sinistra formata da DC, PSI, PSDI e PRI.
Per ironia della sorta il suo maggiore fautore, il socialista Giacomo Brodolini era scomparso pochi mesi prima l’11 Giugno 1969.
Al testo avevano lavorato intensamente giuristi e sociologi del calibro di Giuseppe De Rita, Giuseppe Tamburrano, Federico Mancini, Ubaldo Prosperetti, Luciano Spagnuolo Vigorita, Antonio Francois D’Harmant,Luciano Ventura e Nino Freni ma il lavoro più intenso nell’occasione fu svolto dal giuslavorista Gino Giugni.
In realtà lo Statuto rispondeva piuttosto ad un’idea di democrazia più industriale che classista, dove il sindacato aveva un ruolo più sociale che politico, sulla base di un impianto strettamente privatistico.
Quando lungo il decennio seguente, la UIL e poi anche la CISL posero la questione in termini riformistici, come problema di partecipazione e controllo dei lavoratori sull’azienda, rifacendosi ad istituti vigenti in altri paesi europei, si scontrarono con il fatto che la filosofia dello Statuto innestava nel sistema italiano di relazioni industriali elementi che storicamente non gli appartenevano.
Deve essere chiaro ancor oggi nel pieno della furia iconoclasta verso le regole e in piena affermazione di una egemonia di tipo neo –schiavista, come lo Statuto, nella sua ispirazione intellettuale originaria, poneva, come vincolo esclusivo e, per sua natura, invalicabile all’azione sindacale, il mercato, inteso in senso privatistico, assai distante sotto rilevanti aspetti dalla realtà storica italiana ancora caratterizzata da una massiccia presenza dell’intervento e della gestione pubblica nei settori strategici realizzata attraverso il sistema delle partecipazioni statali.
I riferimenti originari dello Statuto dei Lavoratori si potevano dunque trovare nella legislazione del New Deal americano.
Un quadro di riferimento quindi affatto diverso dalla realtà italiana nella quale il testo doveva essere applicato e concretamente calato.
Il libro di Selig Perlman “Theory of the Labor Movement” fu uno dei testi consacrati, così come poi quello di Otto Khan Freund, un classico nel suo genere, su come si fossero formati nel tempo e consolidati legalmente gli istituti del sistema di relazioni industriali delle Trade Unions in Gran Bretagna.
L’ispirazione che derivava da questi archetipi presupponeva la centralità dell’azienda, la piena libertà di contrattazione e il costituirsi di un reticolo di istituti procedurali e di soluzioni normative affidate principalmente alla contrattazione.
Questi principi si innestavano in un sistema di relazioni industriali quale il nostro, che storicamente si rifaceva piuttosto ai modelli sindacali dell’Europa continentale, ispirati a criteri di contrattazione confederale e categoriale, con una duplica struttura organizzativa, territoriale e di categoria.
Il sindacato poteva così concepire la propria azione contrattuale con un rilievo che poteva formularsi anche in termini pubblicistici, concezione che nel dibattito costituente si era espressa nella formulazione dell’articolo 39 della Costituzione.
Lo Statuto tentava di modificare quell’impostazione, senza però sostituirla interamente.
Si apriva così per il Sindacato italiano una fase dialettica al proprio interno e nel complesso dell’azione rivolta al mondo del lavoro e dell’intera società italiana, che vorremmo definire feconda: sicuramente per buona parte degli anni’70, la miglior stagione del sindacato italiano nella sua storia.
La categoria rimase il perno del sistema e gli aspetti merceologici, nonché la forma orizzontale e verticale dell’organizzazione definivano rigidamente i diversi ambiti contrattuali.
Delle due forme concorrenti ed integrate di organizzazione, per prima la CISL privilegiò quella categoriale, costituendola come principale fulcro della sua struttura associativa.
Gino Giugno, Federico Mancini e altri lavorarono intorno a questo riferimento per modulare un nuovo principio di libertà contrattuale.
Ma l’istituto della categoria poteva, ancora, essere interpretato in termini classisti.
La ripresa dell’unità d’azione tra le Confederazioni, dopo la ripresa conflittuale del 1959, venne a poggiare proprio su questo ibrido concettuale, su questa “doppiezza positiva” per definirla con un termine di origine per così dire “togliattiana”.
Dopo il 1969 e l’autunno caldo il principio classista si impose così da unificare idealmente le componenti del mondo del lavoro e tentò di improntare anche quel processo di unità organica del sindacato che ebbe, tuttavia, una breve storia, per molteplici motivi, a partire dalla diversa impostazione ideologica e politica delle tre maggiori Confederazioni.
Il carattere centralistico del sistema fu così saldamente cementato dall’impianto rivendicativo caratterizzato da un forte egualitarismo, che riguardava sia il salario sia l’inquadramento professionale, e pur con le differenze di applicazione nelle diverse realtà categoriali, quello fu il riferimento che dominò trasversalmente tutta l’iniziativa contrattuale del Sindacato.
Uno schema rafforzato dalla forma assunta dalla rappresentanza sui luoghi di lavoro, che lo Statuto contemplava senza averla definita: il consiglio dei delegati, inteso come una forma di democrazia semidiretta rappresentò la grande novità nella rappresentanza sindacale sul posto di lavoro come frutto diretto della spinta dell’autunno caldo.
L’uso sindacale dello Statuto, in quegli anni, coincise con l’accettazione della legge come una utile “normativa d’appoggio” considerando quasi come “naturale” il quadro di diritti soggettivi che vi erano individuati nel testo.
E non solo perché lo Statuto appariva come espressione di una legislazione del Sindacato dei lavoratori, perché li poneva nella condizione di esplicare i diritti costituzionali, ma perché, come rilevava poco dopo l’entrata in vigore della legge la rivista della CGIL, lo Statuto si era rivelato un supporto puntuale alle lotte degli anni’70.
Le rivendicazioni sindacali, di conseguenza, erano appoggiate dal testo dello Statuto e portate avanti dalla costanza delle lotte operaie.
In realtà apparve molto positiva la confluenza della spontaneità caratteristica del ’68 – ’69 operaio, nell’organizzazione, che pure si era rafforzata anche in quella fase.
Possiamo, allora, traendo alcune rapidissime conclusioni allo scopo di chiarire come il Sindacato, al momento della fase di avvio di applicazione della legge 300, intendesse sinteticamente definirne l’uso.
Lo Statuto fu calato nella realtà in un momento in cui la dialettica tra organizzazione e spontaneità (come abbiamo già visto) appariva così acuta da permettere soltanto una valutazione molto prudente.
Il fatto stesso che, da parte di numerosi esponenti della sinistra politica lo Statuto fosse considerato adatto soltanto ad un uso burocratico, non poteva non sollevare problemi.
L’adesione allo Statuto rimase allora in bilico tra l’adesione di principio e l’adozione reale della legge come strumento di lotta sindacale.
Nel momento in cui all’interno della CGIL era in corso un cauto dibattito tra vecchio e nuovo, con in più l’incalzare di una spontaneità operaia non facilmente controllabile, l’accettazione dello Statuto ebbe un significato politico preciso, ma proprio perché tale accettazione fu vivacemente contestata dentro e fuori l’organizzazione, i toni non poterono che essere cauti.
A questo punto riteniamo di aver descritto ed analizzato lo “stato dell’arte” del dibattito all’epoca dell’approvazione della legge e negli immediati paraggi temporali della sua applicazione.
Seguì una lunga storia che non è nostro compito riferire in questa sede, se non per segnalare che, in ogni caso, lo Statuto ha comunque rappresentato un monito a prendere sul serio il dettato costituzionale quando, nell’articolo 1, pone il lavoro come fondamento della nostra Repubblica e quindi del nostro vivere sociale.
Tutto questo oggi appare completamente sfumato: il job act ha cancellato inopinatamente la tutela contro il licenziamento ingiustificato (articolo 18).
Appare lontana l’espressione di vera e propria concezione di “filosofia delle relazioni sindacali” contenuto nell’articolo 28 sulla repressione dei comportamenti antisindacali .
La tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori contenute nello Statuto rappresentavano ancora norme di civiltà che andavano a beneficio dell’intera società in cui si applicavano appaiono oggi norme completamente annegate nel mare magnum di precarietà e sfruttamento che appaiono la nota dominante nei rapporti di lavoro del XXI secolo.
Non ci sono parole per giustificare quanto avvenuto in un progressivo cedimento rispetto alle posizioni che il movimento operaio aveva tenuto nel corso degli anni e che via via sono state smantellate e abbandonate: non certo per seguire un’idea di modernità dovuta al mutamento delle relazioni economiche e dell’innovazione tecnologica ma semplicemente e soltanto per affermare e riaffermare il dominio del padrone in un rincrudirsi complessivo, proprio nel momento di una fase di spaventosa crisi nella gestione del ciclo capitalistico, delle (pur denegate) condizioni di sopraffazione di classe.
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