Come ogni anno deve essere ricordata sempre la scelleratezza della monarchia, dei governanti, della borghesia, capaci di gettare milioni di vite umane dentro ad una tragedia di incalcolabile portata per la loro insensata volontà di potenza, dominio, sfruttamento.
Non dimenticare mai e ricordare sempre da che parte si collocano gravissime responsabilità storiche.
Ricordare sempre anche se sono passati più di cent’anni perché l’orrore della guerra, come dimostrano le cronache dell’attualità, è sempre in agguato ad ogni tornante della storia.
24 Maggio 1915: “mormorò il Piave” e gli italiani furono gettati, grazie ad un vero colpo di stato militar-monarchico, nella fornace divoratrice della prima guerra mondiale.
L’Italia non era obbligata a entrare in guerra.
Sebbene la Triplice Alleanza (sottoscritta per la prima volta nel 1882) la legasse formalmente all’Austria e alla Germania, il fatto che l’Austria non l’avesse consultata prima di dichiarare guerra alla Serbia alla fine del luglio 1914 aveva significato che a rigore l’Italia era sciolta dai suoi obblighi.
Così mentre l’Europa mobilitava i suoi eserciti e nel corso dell’Agosto 1914 prese a scivolare verso la catastrofe, l’Italia annunciò la sua neutralità.
E molti, compresi Giolitti e una maggioranza di deputati, pensavano dovesse rimanere neutrale. Erano convinti che il Paese fosse economicamente troppo fragile per sopportare un conflitto di grandi dimensioni, tanto più a così breve distanza dall’invasione della Libia (1911).
Giolitti suggerì che l’Italia aveva da guadagnare “parecchio” contrattando con entrambe le parti la sua rinuncia a combattere.
Ma il Presidente del Consiglio del momento, Salandra, e il suo ministro degli Esteri, Sonnino, condussero negoziati segretissimi con i governi di Londra e Parigi da un lato e di Vienna e Berlino dall’altro (nello spirito di quello che Salandra chiamò “sacro egoismo”) con l’intenzione di accertare quale prezzo l’Italia poteva spuntare per il suo intervento nel conflitto.
Gli interventisti costituivano un fascio di forze eterogenee che agivano per motivazioni diverse.
C’era una minoranza di idealisti liberali. C’era il Re, che aveva ricevuto un’educazione militare e che voleva ridurre l’influenza di Giolitti, così come suo nonno aveva tentato di liberarsi di quella di Cavour.
La maggior parte dei massoni e degli studenti universitari dotati di più viva coscienza politica erano interventisti, e gli irredentisti naturalmente lo erano “in toto”.
Il partito nazionalista, non appena cominciò a svanire la sua originaria speranza di una guerra contro la Francia, fece fronte comune contro la Germania, dato che per esso una guerra qualsiasi era meglio che nessuna guerra.
I futuristi pure erano decisamente per la guerra, vista come un rapido ed eroico mezzo per raggiungere potenza e ricchezza nazionale: nel settembre del 1914 interruppero a Roma un’opera di Puccini per bruciare sul palcoscenico una bandiera austriaca.
Marinetti dichiarò che i futuristi avevano sempre considerato la guerra come l’unica fonte di ispirazione artistica e di purificazione morale e che essa avrebbe ringiovanito l’Italia, l’avrebbe arricchita di uomini d’azione e l’avrebbe infine costretta a non vivere più del suo passato, delle sue rovine e del suo clima.
Strani compagni di viaggio di questi elementi d’avanguardia erano i conservatori che continuavano la tradizione francofila di Visconti Venosta e di Bonghi, ma anche Salvemini e i socialisti riformisti, i quali volevano una guerra condotta con generoso idealismo, nel nome della libertà e della democrazia, contro la Germania che aveva invaso il Belgio violandone la neutralità.
I socialisti rivoluzionari con a capo Mussolini furono sorpresi di essersi venuti a trovare nello stesso campo neutralista in compagnia dei loro tre principali nemici, Giolitti, Turati e il Papa.
Ma nell’ottobre 1914 Mussolini modificò il suo atteggiamento in “neutralità condizionata” per abbracciare infine nel novembre la tesi opposta dell’interventismo dichiarato.
Può darsi che questo sconcertante cambiamento fosse dovuto al denaro francese, ma senza dubbio influì su Mussolini la convinzione che la guerra avrebbe potuto preparare il terreno alla rivoluzione e abituare le masse alla violenza e alle armi.
De Ambris, Corridoni e gli altri superstiti del sindacalismo rivoluzionario aderirono a questa visione.
Arrivarono poi, nella primavera del 1915, quelle poi definite “le radiose giornate di maggio”: il contributo offerto in quei giorni da D’Annunzio con i suoi infiammati discorsi di Genova e di Roma e da De Ambris e Corridoni con le agitazioni suscitate in quel centro nevralgico che era Milano risultavano decisive per il colpo pensato dalla minoranza interventista.
Per la propaganda il governo fece ricorso ai fondi segreti, e la polizia aveva da lungo tempo imparato sotto Giolitti l’arte di organizzare “manifestazioni popolari spontanee”.
Come poi osservò Salandra, queste manifestazioni erano guidati in massima parte da studenti universitari che, poi, nell’immediato dopoguerra tornati dal fronte come ufficiali avrebbero formato il nucleo più importante degli Arditi e delle squadre d’azione fasciste.
D’Annunzio, tornato dalla Francia dove si era nascosto per sfuggire ai creditori, fu informato preventivamente del Trattato di Londra e adeguatamente retribuito per la sua opera di propaganda e concluse i suoi discorsi di Genova (4 Maggio, allo scoglio di Quarto) e di Roma (12 e 13 Maggio) con questa proclamazione:
“O compagni, questa guerra che sembra opera di distruzione e di abominazione, è la più feconda matrice di bellezza e di virtù apparsa sulla terra”.
Tale fu la carica emotiva di quel maggio 1915 che alcuni guardarono poi a esso come a un momento di rigenerazione, il momento nel quale l’Italia aveva deciso di combattere per la giustizia e di vincere per la democrazia.
Un abbaglio colossale.
Il 20 maggio la Camera concesse al Governo i pieni poteri con una maggioranza di 407 voti contro 74 (Giolitti era già rientrato in Piemonte).
Il Partito Socialista votò contro, diventando l’unico partito europeo di estrema sinistra fuori dalla Russia a non dare il suo appoggio al conflitto.
Il 24 Maggio l’Italia dichiarò guerra all’Austria.
Una nazione lacerata nel suo tessuto morale si apprestava a sostenere uno scontro che sarebbe durato più di 3 anni lasciando sul terreno 650.000 morti e un milione di feriti.
I fanti, che presto si sarebbero trovati a morire nelle trincee, non avrebbero certo potuto non sentire tutta la brutalità e tutto il cinismo di chi li aveva trascinati alla guerra attraverso una simile mistificante retorica.
Una lezione della storia, da non dimenticare mai.
Le porte ad una delle più grandi tragedie della storia erano ormai aperte e, alla fine, in fondo al tunnel non sarebbe rimasto altro da fare che imboccare il tunnel della dittatura fascista.
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