La Magistratura tra realizzazione della Costituzione e “l’illusione repressiva”: uno sguardo storico-politico
Quest’articolo è un contributo al dibattito su alcuni nodi storico-politici relativi alla discussione sulla costruzione della campagna per le dimissioni di Minniti, l’abrogazione delle leggi che portano il suo nome e la proposta di amnistia politica. Questi sono gli obiettivi espliciti che saranno al centro delle riflessioni del Convegno della Piattaforma Eurostop di sabato 23 settembre a Bologna, quaranta anni dopo il convegno sulla repressione del 1977.
“Se pur non mancano tensioni e sommovimenti, è peraltro verosimile, per l’Italia e per l’intera Europa, un futuro caratterizzato da estese zone di conflitto tra sistema politico e giurisdizione o, più esattamente, tra sistema politico e diritto. E’ l’inevitabile conseguenza di alcune tendenze di questa politica: l’aumento della divaricazione tra poteri formali e poteri reali, la crescente compressione dei diritti sociali, la amministrativizzazione dell’agire politico. Lo spostamento del governo della società fuori delle sedi istituzionali è sempre più accentuato; la marginalizzazione del parlamento, del governo, delle stesse forze politiche è sotto gli occhi di tutti; la tendenza del potere reale a collocarsi in sedi extra legali (invisibili o direttamente criminali, ma in ogni caso prive di controllo) è storia del nostro paese; l’affievolirsi del ruolo di strumento di regolazione dei rapporti sociali proprio del diritto è ormai stabile. Il contrasto tra tale situazione di fatto e il sistema delle regole è di tutta evidenza e ciò aumenta la centralità dell’intervento giudiziario a presidio (anche) della visibilità, trasparenza e controllabilità della politica. La compressione dei diritti sociali è presentata in modo martellante come prezzo da pagare alle ragioni dello sviluppo o della storia: inevitabili le ricadute sul rapporto giustizia/politica in un sistema in cui l’uguaglianza sostanziale è dato normativo, i principi di giustizia distributiva sono diritti e gli interventi per realizzarli atti dovuti”.
Livio Pepino, 11° Congresso di “Magistratura Democratica”, Napoli, 1996
Nel film di Dino Risi “Nel nome del popolo italiano” del 1971, il giudice istruttore Mariano Bonifazi – interpretato da Ugo Tognazzi – è una trasfigurazione cinematografica di un profilo di magistrato che nella realtà di quegli anni veniva definito in termini giornalistici “pretore d’assalto”.
Il genere in cui può essere collocato il film, tra la commedia all’italiana e il noir, conosce in quegli anni la realizzazione di alcuni capolavori che sfruttandone i canoni estetici raccontano uno spaccato della società italiana in maniera più o meno impegnata, basti ricordare “Un cittadino al di sopra di ogni sospetto” con uno strepitoso Volonté e “Milano Calibro 9” con un ottimo Gastone Moschin.
Nel film di Risi il giudice Bonifazi si contrappone ad un industriale: Renzo Santenocito, interpretato da Vittorio Gassman. Quest’ultimo è il ritratto negativo a tutto tondo di un esponente della borghesia corrotta, dissoluta e reazionaria, e viene accusato dell’omicidio di una studentessa che lavora per una agenzia di “public relations”, eufemismo linguistico anglosassone che nasconde il mestiere più antico del mondo.
In una scena memorabile, i due attori principali su una spiaggia deserta sotto la pioggia parlano animatamente. Ad un certo punto del dialogo il pacato giudice si sfoga, sempre tendendo ben saldo in mano l’ombrello con una posa da gentleman. Inveendo contro l’industriale, gli rivela le sue profonde convinzioni:
“E adesso senta il mio sfogo, approfittando che non c’è nessuno che ci ascolta. Io sono stufo – e non sono il solo – di essere il protettore di leggi di una società che fa SCHIFO perché consente ad individui come lei di prosperare e di proliferare […] Il signor giudice è convito che certe leggi che consentono ai detentori del potere economico di danneggiare la collettività vadano cambiate”
La finzione filmica rappresenta iperbolicamente in questo dialogo la messa in discussione del ruolo di un potere storicamente connivente con il blocco sociale dominante ed il ceto politico di cui era espressione, una crepa all’interno di un corpo coeso prono ai dettami del potere.
Pochi anni prima una opera cinematografica di tal fatta non sarebbe stata possibile, perché negli anni Sessanta, come scrive Ferrajoli in “Per una storia delle idee di MD”, la magistratura era: un corpo burocratico chiuso, cementato da una ideologia di ceto: un “corpo separato” dello Stato, come allora si diceva, collocato culturalmente, ideologicamente e socialmente nell’orbita del potere, che veniva avvertito come ostile dalle classi sociali subalterne ed avvertiva esso stesso queste medesime classi come ostili.
E oggi?
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Questo contributo nasce dalla necessità di ragionare in un delicato passaggio di fase come questo su alcuni nodi politici attuali che investono il potere giudiziario e le sue conseguenze materiali nell’attuale scontro di classe, dando un minimo di profondità storica ai temi trattati ed affidandosi anche agli scritti di quell’eresia che ha attecchito in parte della Magistratura, capendo quale possa essere la sua eredità e cosa vi sia ancora di attuale.
Innanzi tutto in tutti i frangenti in cui il conflitto di classe si è acuito o in cui lo sviluppo della torsione autoritaria è stato più marcato, lo spettro delle posizioni dei magistrati e della prassi di questo corpo si è polarizzato sempre tra i due estremi che possiamo così sintetizzare:
Da un lato l’assunzione di un ruolo organico nella repressione delle classi subalterne e la subordinazione agli sviluppi liberticidi del Leviatano, con una spinta ad un forte auto-disciplinamento corporativo.
Dall’altra la rottura con la propria complicità di ceto e di corpo per “sposare” una organicità con il processo di emancipazione degli sfruttati e ancorarsi alla sostanza garantista e progressista – ancora oggi solo parzialmente realizzata – della Carta Costituzionale, senza per altro rinunciare ad una battaglia a tutto campo che includesse il corpo della magistratura.
Da un lato la sterilizzazione della Costituzione, dall’altra la sua applicazione reale.
Per riprendere il dilemma del giudice del film, la scelta è tra l’essere parte integrante della lotta di classe dall’altro o della lotta di classe dal basso…
I vuoti richiami di alcuni magistrati ai compiti della politica, in chiave di deresponsabilizzazione del proprio ruolo, e l’assunzione di un profilo “falsamente” neutrale all’interno del conflitto di classe hanno quasi sempre mascherato una scelta di campo precisa, che ha poi delle ricadute specifiche nella relazione che si stabilisce tra la condizione di determinate fasce sociali subalterne (e delle loro lotte) e lo specifico momento giudiziario e di regolamentazione giuridica.
Se si da uno sguardo “a volo d’uccello” sui differenti temi e i differenti approcci così come alla prassi giudiziaria concreta degli esponenti di Magistratura Democratica, o della magistratura in generale, degli ultimi anni, questa divaricazione ne attraversa il corpo: il “diritto al dissenso” o più prosaicamente il reato di opinione, la questione abitativa, la questione delle disuguaglianze, i rapidi mutamenti della giurisdizione in materia di diritto del lavoro, il referendum costituzionale dello scorso anno ne sono alcuni significativi esempi.
Più recentemente abbiamo visto delle prese di posizione coraggiose da parte di MD come nel caso del Decreto Minniti (insieme ad ASGI) o in quello dello sgombero di pizza Indipendenza a Roma (“non Sgomberiamo la Costituzione”), così come posizionamenti di sostanziale allineamento con il nuovo corso inaugurato da Minniti.
Questa divaricazione, frutto della polarizzazione politica dovuta alle montanti contraddizioni sociali, si approfondirà ulteriormente o verrà ricomposta in chiave di uno nuovo “collateralismo” della magistratura con il potere politico.
Questa secondo sbocco, insieme alla grigia prassi burocratica consustanziale a questo corpo, sarà un aspetto non secondario dei problemi che ci troveremo ad affrontare, non solo in sede giudiziaria, come sa chi organizza quotidianamente la resistenza sociale.
Sta anche, e soprattutto, all’intelligenza e alle capacità di chi si contrappone politicamente all’attuale torsione autoritaria offrire non solo una sponda, ma un progetto politico in grado di articolare una campagna che sappia intercettare e influire anche sulla cultura, gli equilibri e non da ultimo sulle scelte processuali tout court del corpo giudiziario ed in generale di tutti quei settori “democratici” che fanno dell’applicazione della Costituzione e del garantismo giuridico il centro della propria azione.
Perché alla fine anche il Diritto è una questione di rapporti di forza organizzati.
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Facciamo una piccola disamina storica introduttiva per poi concentrarci sulle conseguenze dell’Autunno Caldo, sull’approvazione della Legge reale e sugli sviluppi successivi.
La magistratura è un corpo che è passato indenne e senza particolari traumi dalla democrazia liberale al regime fascista, compresa la Repubblica di Salò e dal fascismo all’Italia repubblicana. Ha sempre svolto un ruolo tutt’altro che secondario nel mantenimento dello status quo senza che la carriera dei giudici venisse mai compromessa dal compito esercitato nel precedente ordinamento politico.
La mancata epurazione della magistratura nel trapasso tra fascismo ed Italia repubblicana (meno di 20 giudici su 4000) e l’importanza di cariche ricoperte da alcuni prima con Mussolini e in “democrazia”, non solo ci danno l’idea della sostanziale continuità degli apparati dello stato ma anche del marchio storico della magistratura…
I casi più eclatanti furono quelli di Luigi Oggioni, procuratore generale della Repubblica di Salò, che da ottobre del 1959 al marzo del 1962 sarà presidente della corte di cassazione, e quello di Gaetano Azzariti, presidente del tribunale della razza, ministro del primo governo Badoglio, e presidente della Corte Costituzionale dal 1957 al 1961.
L’allineamento della magistratura al regime ebbe tra i suoi pilastri l’affermata apoliticità di giudici e giurisdizione. Così proclamava il Guardasigilli Alfredo Rocco in Parlamento il 19 giugno 1925: la magistratura non deve far politica di nessun genere. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista.
Si pensi al film “La villeggiatura” di Marco Leto, del 1973 dove il Commissario Rizzuto, interpretato da Adolfo Celi, veste i panni dello stimatore del padre del protagonista, professore di diritto, mentre riveste il ruolo di comandante di una struttura carceraria sull’isola di Lipari, una delle peggiori istituzioni del Regime…
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La magistratura è di fatto una “corporazione” che ha fatto dell’apoliticità l’ideologia portante della propria organicità al potere reazionario che fosse quello liberale, mussoliniano o democristiano…
Ma è con il ’68 che si apre una breccia all’interno di questo corpo, i cui primordi devono essere fatti risalire alla creazione di Magistratura Democratica a metà degli anni ’60: Bologna, 4 luglio 1964 per la precisione.
Vi è una propulsione da parte di una porzione della Magistratura alla messa in discussione del ruolo fin lì svolto, che avveniva su due fronti, quello squisitamente giudiziario con l’applicazione dei dettami costituzionali nel perseguire la propria azione di magistrato con particolare riferimento alle garanzie delle classi subalterne e una attività politica pubblica che portava i magistrati fuori delle aule dei tribunali a confrontarsi con le contraddizioni vive della società insieme ai maggiori vettori politico-sindacali del protagonismo operaio, anche oltre i perimetri delle organizzazioni della sinistra storica.
Questa rottura si consumava anche partecipando ad esperienze laboratoriali sul piano delle elaborazioni delle idee, come l’importante contributo dato dalla rivista “Critica del Diritto” che già dal nome si connota in senso antagonistico alla visione che aveva ispirato il corpo della magistratura fino ad allora.
Ripercorriamone le tappe con l’ausilio di una precisa e appassionata ricostruzione storica di due suoi protagonisti G. Palombarini e G. Viglietta:
“Alle agitazioni sindacali del 1969, mediante cortei, marce e manifestazioni di centinaia di migliaia di metalmeccanici, scioperi, picchettaggi, occupazioni di fabbriche, comitati di lotta, si affiancarono le lotte degli studenti, con cortei, occupazioni di scuole o interruzioni di lezioni, per contestare un’organizzazione della scuola ritenuta funzionale al riprodursi del sistema capitalistico. Così la reazione di magistratura e polizia si tradusse in circa 13.000 denunce, che colpirono 737 sindacalisti, 1103 vigili urbani, 2158 operai, 1916 ospedalieri e dipendenti di enti locali, studenti, direttori di giornali.
Quella del referendum non fu la prima opzione coltivata da Md, che caldeggiò la proposta di amnistia lanciata dall’allora segretario del PSI Francesco De Martino. A un’amnistia poi si arrivò (dPR 22 maggio 1970, n. 283), ma di contenuto limitatissimo, riguardante in pratica solo le occupazioni in occasione di manifestazioni studentesche e lievissimi reati comuni. Restava fuori la quasi totalità delle denunce delle manifestazioni sindacali e operaie, se non quando ricorreva l’attenuante del danno di particolare tenuità. La delusione fu grande e spinse Md a coltivare il progetto del primo referendum abrogativo della storia italiana.
Osservava Luigi Ferrajoli, che dette un contributo fondamentale all’elaborazione del testo e della relazione della proposta di referendum abrogativo: «Le norme di cui si chiede la soppressione sono le norme del codice penale che più marcatamente riflettono l’ideologia illiberale e autoritaria del regime fascista a tutela del quale furono introdotte. In forza di queste norme, la cui storia recente è la storia della repressione politica nel nostro Paese, le libertà sancite dalla Costituzione repubblicana sono oggi gravemente in pericolo….». Ma lo stesso Ferrajoli esprimeva un auspicio e una speranza che dimostrano come l’iniziativa contava ancora sull’apporto determinante dei partiti di sinistra: «Forse non arriveremo neppure alla votazione sul referendum. Forse l’iniziativa, mobilitando la pubblica opinione su temi istituzionali troppo a lungo ignorati, avrà l’effetto di indurre il Governo a riesaminare totalmente il suo limitato progetto di riforma e di sollecitare il Parlamento ad attuare per via legislativa l’abrogazione di tutte le norme contenute nel progetto. Ma una cosa è certa. Da questo momento il dibattito sui reati d’opinione si trasferisce nel Paese; cessa di essere un dibattito tecnico-giuridico e diventa un dibattito politico; esce dalle secche delle discussioni accademiche, dei convegni di studio e delle commissioni parlamentari in cui stagnava da oltre vent’anni e diviene battaglia popolare che impegna la responsabilità di tutte le forze politiche.»
L’inizio sembrò promettente. Infatti dopo l’“autunno caldo” del 1969 tutti i partiti di governo, esclusi socialdemocratici e repubblicani, e i partiti di sinistra avevano presentato in Parlamento disegni di legge per l’abrogazione della maggior parte dei reati politici d’opinione. Esisteva, inoltre un progetto di legge del Governo, sia pure di contenuti limitati. Dunque, l’iniziativa di Md, nonostante il suo radicalismo, non poteva certo esser considerata una provocazione. Il 22 dicembre 1970 si costituì un Comitato nazionale per il referendum abrogativo dei reati politici, d’opinione e sindacali con l’adesione del PSI, PSIUP, Movimento politico dei lavoratori, Partito radicale, Movimento giovanile della DC, organizzazioni sociali, movimenti politici e singole personalità, per la propaganda dell’iniziativa e la raccolta delle firme necessarie. Mancava però l’appoggio del PCI. Mentre le forze maggiori dapprima si defilarono e poi passarono ad un’aperta ostilità, il PCI già dal congresso di Trieste dell’Anm pose la condizione impossibile che il referendum fosse proposto dall’intera Anm, di cui conosceva le posizioni moderate e sostanzialmente conservatrici. Tanto più che quel congresso, sui temi «Uguaglianza dei cittadini e la giustizia» e «Evoluzione democratica e certezza del diritto», si concluse con l’esclusione di Md dalla giunta centrale e l’alleanza tra le correnti conservatrici e genericamente progressiste, per le quali la proposta di referendum era stata considerata quasi una provocazione. Il PCI passò poi ad un’aperta ostilità, con articoli che esprimevano perplessità sull’uso del referendum, fino al divieto di raccogliere firme alle Feste dell’Unità.
Certo l’iniziativa era radicale e complessa, come risulta dal lungo elenco di reati da abrogare, ma il segno democratico-costituzionale era chiarissimo, come risulta dalla rubrica dei reati oggetto del referendum.
Non si pensi che tali reati, a venticinque anni dall’entrata in vigore dalla Costituzione, e a 15 dall’attuazione della Corte costituzionale, fossero un armamentario desueto: tali norme come diremo tra poco, furono largamente applicate ed alcune lo sono tuttora.
In ogni caso, salvo l’aiuto dato in alcune sedi dal PSIUP, o dai sindacati dei metalmeccanici, ci trovammo da soli a gestire l’impresa disperata di propagandare l’iniziativa, raccogliere, in breve tempo, firme tutte autenticate con l’aiuto di volenterosi cancellieri e qualche raro notaio. A settembre del 1971 Md prese atto del fallimento dell’iniziativa: si erano raccolte 300.000 firme autenticate. Non mancarono critiche anche all’interno del gruppo, per il carattere troppo vasto dell’iniziativa e per l’esito complessivo. Certo, non tutti si mobilitarono al massimo, anche all’interno, come era peraltro scontato in partenza. Ma a nostro avviso, al di là dell’indubbia sensibilizzazione di parte non piccola dell’opinione pubblica sull’assurda persistenza di incriminazioni tipiche dello stato autoritario fascista, il risultato più rilevante fu spingere due o trecento magistrati (su un totale di circa 550 aderenti a Md in quell’epoca) fuori degli uffici per affrontare dibattiti, entrare a contatto con il mondo del lavoro, con gli operai e gli studenti. Insomma a rompere ogni chiusura corporativa”.
Questa lunga citazione ci è servita per introdurre alcuni elementi ancora rilevanti per noi: le conseguenze giudiziarie della lotta di classe, la proposta di amnistia politica per reati sociali, la determinazione e le difficoltà a portare avanti un referendum abrogativo su un aspetto del tutto rilevante e non da ultimo lo “smarcarsi” di uno dei maggiori partiti della sinistra istituzionale da questa “battaglia per la libertà”.
E su questo aspetto, tra l’altro, vogliamo continuare.
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La storia comune di impegno di MD arriva di fatto fino all’exploit elettorale del Partito Comunista e con la netta presa di posizione nei confronti della Legge Reale nel 1975 il suo mai più raggiunto picco di opposizione a quello che sarà lo stato di eccezione permanente con il suo corollario: “perenne” e sempre ampliata legislazione emergenziale.
Se si deve trovare un inizio, questo può collocarsi proprio con l’approvazione di quella legge.
Da allora è iniziata quella divaricazione sempre più netta in MD tra una salvaguardia del portato della carta della costituzionale riguardo alle garanzie delle classi subalterne e “l’illusione della repressione”, facendosi fedele interprete di una strategia repressiva maturata all’interno della dirigenza della sinistra istituzionale. Questa subordinazione avveniva anche non avocando più a sé un ruolo politico attivo “sganciato” dal PCI, e rivolgendo la propria azione, in senso più tradizionalmente corporativo, all’interno della magistratura tout court.
Il termine illusione repressiva fu coniato da Pietro Ingrao in un articolo apparso sul n.3 di “Questione Criminale” citato da Antonio Bevere – allora sostituto procuratore della Repubblica del tribunale di Milano – nel suo intervento al Congresso di Magistratura Democratica tenutosi nell’aprile 1977 a Rimini.
Un appuntamento non rituale immediatamente successivo alle giornate del marzo del ’77 a Bologna, in cui era emersa una “spaccatura” netta tra la valutazione di MD a livello nazionale e gli esponenti dell’associazione del capoluogo emiliano.
Questa illusione, rifletteva una ambivalenza, potremmo dire una schizofrenia, rivelata da Ingrao nel corpo dei militanti della sinistra storica per cui conviveva insieme ad un atteggiamento “garantista”, teso alla difesa gelosa dei diritti delle libertà, delle garanzie individuali, memore delle mille volte in cui questi diritti sono calpestati per attaccarlo o colpirlo, un atteggiamento che potremmo definire “giustizialista”.
Secondo Bevere questo approccio tendeva a cancellare i fenomeni sociali attraverso la repressione.
Questa tendenza – che Ingrao rintracciava nell’abito mentale dei militanti rispetto a l’esplodere della criminalità – verrà assunta dalla dirigenza del Partito Comunista Italiano nei confronti sia delle organizzazioni rivoluzionarie di quel frangente storico che nei riguardi dell’emergere di quell’insieme composito di movimenti sociali che si stavano esprimendo in quegli anni.
Con le spalle coperte dall’unanimità «negativa» di tutta la classe politica nei confronti del «movimento» è ovvio che gli apparati repressivi si sentissero a loro agio come mai in precedenza e che la macchina poliziesco-giudiziaria fosse pronta a inghiottire alcune frange più dure della nuova contestazione, scrive Romano Canosa in Storia di un pretore.
Questo cambio di rotta del PCI, ebbe ripercussioni all’inta:erno di MD.
L’appuntamento nella città romagnola fu una tappa decisiva del dibattito di MD, in cui anche se la volontà di trasformare l’associazione in una sorta di “cinghia di trasmissione” della politica del PCI in ambito giudiziario, imponendo un mutamento radicale della stessa, fu messo in minoranza, si evidenzio comunque una assoluta divergenza di approccio, che porterà alcuni magistrati “di sinistra” a farsi carico della repressione: Torino, Bologna e Padova sono gli esempi più conosciuti.
La divaricazione abbastanza netta all’interno dell’associazione di magistrati si era manifestata in seguito all’elezioni del giugno del 1976 che avevano visto il Partito Comunista Italiano prendere più voti di quanti non ne avesse mai ottenuti nella sua storia.
La “non sfiducia” data allora governo Andreotti, era l’incipit di una strategia di co-gestione nel governo della crisi politica in cui la maggior forza della sinistra faceva pesare il proprio consenso elettorale, in modo più persuasivo che costrittivo all’interno dei nuovi equilibri di potere.
La formulazione dell’“ordine pubblico democratico” da parte del PCI era la concettualizzazione di ciò che Ugo Pecchioli – responsabile del settore di problemi istituzionali del partito – aveva dichiarato all’Espresso in un articolo uscito il 20 marzo del ’77 per il quale i “fenomeni eversivi” possono essere battuti usando con fermezza le leggi che ci sono. Con fermezza, lo ripeto, perché dobbiamo ricordarci che un sistema democratico può autodistruggersi anche per eccesso di garantismo.
Tra le leggi esistenti di cui il dirigente comunista invocava l’applicazione, ve ne era una che aveva trovato la timida opposizione, appena due anni prima, da parte del PCI: La Legge Reale, contro cui invece Magistratura Democratica, compresi i magistrati legati alla sinistra storica, si erano opposti.
Alcuni esponenti di MD avevano costruito una campagna insieme alle organizzazioni della sinistra extra-parlamentare che avevano giustamente visto in questa legge una gestione più dura dell’ordine pubblico e del dissenso politico radicale.
Lotta Continua, Partito Democratico di Unità Proletaria e Avanguardia Operaia organizzarono a metà maggio del ’75 un convegno alla Palazzina Liberty di Milano, allora sede della “comune” teatrale di Dario Fo.
Questa legge promossa in primavera dalla destra democristiana, e approvata anche con i voti del PSI e con l’opposizione formale del PCI era uno spartiacque nella storia politica del paese sia per la rapidità della sua approvazione, ma molto più significativamente perché – come concluse il suo intervento al convegno di Milano Romano Canosa – : per la prima volta nella storia del paese, l’adozione di misure eccezionali era avvenuta senza l’opposizione del Pci, il quale in concreto aveva sollevato poche o nessuna obiezione alla loro introduzione.
Tre anni dopo, 11 giugno del 1978, la legge venne sottoposta a referendum abrogativo, il PCI – a poco più di un mese dal ritrovamento del cadavere di Moro – diede indicazione di votare no, e l’esito referendario nel clima politico-sociale del tempo fu negativo.
Inutile sottolineare come La Legge Reale (n.152 del 22/5/1975) era stata preceduta dal dopoguerra in poi da altri provvedimenti liberticidi.
È una legge che come si è retoricamente detto dà la licenza di uccidere, ampliando il legittimo uso delle armi da parte delle forze dell’ordine e introducendo un regime processuale di favore in caso di abuso.
È la pena di morte de facto. Viene scritto in 625. Libro Bianco sulla Legge Reale. Nei primi 15 anni di applicazione della legge, si conteranno 625 vittime delle forze dell’ordine (254 morti e 371 feriti). Di queste ben 208 non stavano commettendo né reato né erano in procinto di commettere reati. Un contesto tipico (ricorre in 153 casi) è il posto di blocco o l’intimazione dei alt. In 65 casi (pari al 10% del totale) le forze dell’ordine sono ricorse alla giustificazione del “colpo partito accidentalmente.
La legge rende possibile la perquisizione sul posto, senza l’autorizzazione della Magistratura, estende la definizioni di armi improprie, vieta il travisamento e l’uso di caschi protettivi in manifestazioni, ripristina l’istituto fascista del “confino” per ragioni politiche.
Sarà la prima di una lunga serie di provvedimenti legislativi che di fatto inaugurano la stagione delle emergenze, su cui torneremo in seguito.
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Note e riferimenti bibliografici:
Ordine Pubblico e criminalità. Per una risposta alle leggi liberticide del governo Moro, a cura di Lotta Continua, Avanguardia Operaia, PDUP, Mazzotta, 1975
Crisi istituzionale e rinnovamento democratico della Giustizia. Atti del Congresso di Rimini, aprile 1977, Magistratura Democratica, Feltrinelli, giugno 1978
Storia di un pretore, Romano Canosa; Einaudi, 1978
625. Libro bianco sulla Legge Reale. Materiali sulle politiche di repressione e di controllo sociale, Centro di Iniziativa Luca Rossi, AA.VV., febbraio 1990
Dalla Legge Reale al Decreto Moro. Prima parte del volume Nemici dello Stato di Luther Blisset edito da Derive Approdi nel 2002: http://www.lutherblissett.net/archive/078-02_it.html
Dalla classe alla corporazione. Lo strano cammino di Magistratura Democratica dalle origini ad oggi, Romano Canosa, Milano, 2004 (saggio inedito)
https://www.romanocanosa.it/itweb/dalla-classe-alla-corporazione.html
Appunti per una storia di Magistratura Democratica, Livio Pepino, n.1/2002, “Questione Giustizia”
http://www.magistraturademocratica.it/mdem/materiale/storia_md.pdf
Avevo vent’anni il 30 giugno 1960. Giacomo Marchetti – Bruno Rossi, “Contropiano”
https://contropiano.org/news/cultura-news/2017/06/26/ventanni-30-giugno-1960-093289
Il latte nero del terrore. Breve storia della “guerra sporca” anticomunista in Italia (1945-1973), Giacomo Marchetti, “Contropiano”
https://contropiano.org/news/politica-news/2017/08/21/latte-nero-del-terrore-094889
D.L. 13/2017 Sempre più distanza tra giudici e cittadini stranieri
http://www.magistraturademocratica.it/mdem/upy/fcomunicato/press_release_md_asgi_dl_13_2017.pdf
Non Sgomberiamo la Costituzione. No all’ordine pubblico in luogo di politiche sociali. Necessario cambiamento di rotta. http://magistraturademocratica.it/mdem/intervento_all.php?a=on&id=2809
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Alfredo Simone
L’ho letto tutto d’un fiato, quasi in apnea, e lo trovo un ottimo articolo, anche per la dovizia di link a fatti e prese di posizione citati. Lo rileggerò con calma ma credo di poter dire che sia un articolo che meriti la più grande diffusione e riflessioni da parte di chi lo legge. Grazie a Giacomo Marchetti.