Per una generazione vintage come la mia – ogni anno – verso metà di Aprile (anche in questi distopici giorni di forzata Quarantena) vengono in mente, con annesso corollario di ricordi e sensazioni, le giornate d’Aprile.
Veniamo ai fatti: il 15 Aprile del 1975 a Milano, di ritorno da una manifestazione per il diritto alla casa, un gruppo di compagni incrocia, nei giardinetti di Piazza Cavour, un manipolo di fascisti. Questi ultimi sparano ed a cadere è un ragazzo di 17 anni, militante del Movimento Studentesco/Movimento Lavoratori per il Socialismo, Claudio Varalli.
Da quel momento, dopo pochissime ore, a Milano si scatena una rabbia generalizzata contro i fascisti e contro chiunque osi proteggerli.
Già nella notte seguente l’omicidio alcune sedi del MSI vengono incendiate e numerosi esponenti della destra non possono dormire nelle loro case perché attesi da consistenti gruppi di compagni che intendono dare una lezione a queste carogne. Anche la redazione de “Il Giornale” allora diretto da un reazionario storico, Indro Montanelli, viene invasa da militanti di varie formazioni della Sinistra Rivoluzionaria che danno fuoco alle copie stampate, pronte per la distribuzione, che raccontavano una versione distorta dell’aggressione fascista.
Il giorno dopo Milano – come tutte le altre città d’Italia – è paralizzata da uno Sciopero Genarale chiamato dai compagni di Claudio. I sindacati complici sono costretti “a prenderne atto” perché dalle fabbriche, soprattutto al Nord, gli operai escono a frotte e dietro gli striscioni dei vari Consigli di Fabbrica si uniscono ai cortei del Movimento Studentesco e delle altre organizzazioni della Sinistra Rivoluzionaria.
Lungo i cortei le sedi fasciste vengono date alle fiamme. In molti casi la polizia decide di non intervenire condizionata dalla determinazione dei manifestanti e dall’imponenza numerica delle manifestazioni
A Firenze, però, i celerini sparano verso il corteo uccidendo il militante del PCI, Rodolfo Boschi e ferendo un compagno dell’Autonomia, Francesco Panichi. Per anni la locale federazione del PCI, vergognosamente, non ammetterà la presenza di molti suoi iscritti alle manifestazioni continuando ad accreditare la tesi che Boschi era di passaggio sul luogo in cui la polizia attaccò i manifestanti.
Tale linea di condotta è uno degli esempi di come il partito di Berlinguer, nei momenti topici del conflitto sociale, si è sempre collocato dalla parte degli apparati statali differenziandosi dalla sacrosanta protesta antifascista.
Con toni e modalità diverse – questa attitudine a “scomunicare la piazza” – era già accaduta a Genova, nel Luglio ’60, durante la rivolta di piazza contro l’annunciato congresso nazionale del MSI in città e l’avvio sul piano nazionale del governo Tambroni!
A Torino, il giorno dopo (siamo al 17 Aprile) viene ammazzato Tonino Miccichè al quartire periferico della Falchera. Tonino era, come si usava dire nel lessico gergale di quel periodo, una autentica avangurdia di massa ma era, in primo luogo, un militante di Lotta Continua.
(nella foto, a sinistra, Tonino Miccichè ai cancelli della Fiat Mirafiori)
Miccichè fu assassinato da una guardia giurata (iscritta al sindacato fascista Cisnal, l’attuale UGL) mentre nell’ occupazione di case di cui era “delegato di lotta”, assieme ad altri occupanti, discuteva con la guardia giurata, Paolo Fiocco, che si era impossessato autoritariamente ed abusivamente di alcuni box nei palazzi in cui vigeva l’occupazione. Tonino aveva 23 anni, era stato, come tanti meridionali arrivati a Torino, operaio alla FIAT da cui era stato licenziato per rappresaglia dopo essere stato arrestato alcuni anni prima per aver partecipato ad una manifestazione antifascita. Insomma una vita a tempo pieno per la lotta di classe e la rivoluzione spezzata da un colpo di pistola di uno sbirro arrogante e prepotente.
Ma l’episodio che più segnò, dal punto di vista degli effetti politici generali di quelle giornate, accadde sempre a Milano.
Ritorniamo al giorno dopo l’assassinio di Claudio Varalli ed al corteo che sta sfilando per il centro di Milano. La manifestazione, dopo aver distrutto alcune sedi fasciste e seriamente danneggiato la rappresentanza commerciale della linea area spagnola IBERIA (in quegli anni era forte il sentimento di protesta contro le istituzioni e le grandi aziende spagnole accusate di essere state complici con la dittatura di Francisco Franco) si sta avvicinando alla sede della federazione milanese del MSI in Via Mancini con l’intenzione di chiuderla per sempre. La sede di Via Mancini era il centro propulsore da cui partivano le provocazioni e le aggressioni fasciste in tutta l’area milanese.
Da ore la tensione è in crescendo e gli stessi dirigenti delle allora organizzazioni della Sinistra Rivoluzionaria faticano a tenere a bada i loro servizi d’ordine e quella massa di giovani e lavoratori che sono decisi ad andare allo scontro definitivo con le colonne di carabinieri che presidiano la sede fascista. Celebre – quasi una icona del movimento – è la foto dei carabinieri che scappano, abbandonando i loro mezzi che bruciano, inseguiti da tantissimi manifestanti inferociti. Ed è in uno degli episodi di questi scontri – in Corso XXII Marzo – che una colonna di camion dei carabinieri mentre insegue i manifestanti, salendo a forte velocità con i mezzi persino sui marciapiedi, schiaccia sul selciato il corpo di Giannino Zibecchi.
(nella foto le cariche dei gipponi dei carabinieri a Milano che uccisero Giannino Zibecchi)
Giannino, 26 anni, era un militante noto in città. Già attivo nel Movimento Studentesco era poi confluito nei Comitati Antifascisti, una rete di collettivi ed attivisti molto radicata in tutti i quartieri. Giannino era stimato in tutti gli ambienti politici per la sua generosità nell’essere sempre in prima fila pronto a rintuzzare qualsiasi provocazini fascista.
La sua morte, assieme a quella di Claudio – al di là delle giornate di rabbia che stiamo ricordando – scosse profondamente Milano e l’intero mondo della sinistra.
Ai suoi funerali parteciparono oltre 100000 persone e all’orazione funebre presero la parola numerosi comandanti partigiani che onorarono questi protagonisti della Nuova Resistenza. Inoltre anche la stampa – che in quella congiuntura politica del nostro paese non era ancora totalmente asservita al pensiero unico del capitale – non si allineò completamente alle veline della Questura ma numerose testate e tanti onesti giornalisti denunciarono l’operato liberticida delle forze dell’ordine e la chiara volontà di uccidere manifestata platealmente dai Carabinieri in quella giornata di proteste.
Insomma nell’arco di 48 ore nel nostro paese fascisti e apparati dello stato uccisero 4 compagni (oltre all’abituale numero di feriti) e lo Stato dimostrò concretamente, senza neanche troppa mistificazione, da che parte stava.
Per decine di migliaia di compagni, di giovani e di operai fu chiaro che le bombe e le stragi compiute prededentemente – da Piazza Fontana all’Italicus passando per la carneficina di Piazza della Loggia a Brescia – non erano frutto di “apparati dello stato deviati” o di “pazzi fascisti” ma erano una articolata strategia della tensione finalizzata ad una guerra (di bassa intensità) contro il movimento operaio e la possibilità di rendere attuabile l’opzione comunista nel nostro paese.
Ma le giornate d’Aprile costituirono il primo palesarsi nelle piazze d’Italia di una inedita e variegata composizione sociale e politica che poi – nel movimento del ’77 – ebbe il suo generalizzato battessimo militante ma che nella metropoli milanese conobbe una prima anticipazione pratica nel “movimento dei Circoli Giovanili” nell’autunno del 1976.
Per decine di migliaia di militanti – molti provenienti dalla crisi dei “gruppi della Sinistra Rivoluzionaria” particolarmente da Lotta Continua – e per un ampio segmento di giovani che iniziarono a percepire che la crisi economica metteva in discussione la loro naturale ascesa sociale si trattò di scegliere ed imboccare la via della consequenzialità politica e pratica nei confronti di un modello sociale che mostrava il suo duro volto attraverso la politica dei sacrifici e la repressione del dissenso.
Infatti da dopo quelle giornate cominciò ad aumentare la tendenza alla “militarizzazione dello scontro” e, successivamente, alla “scelta clandestina” sulla base di un approccio analitico ed interpretativo da parte di tanti compagni che – semplicisticamente anche se con grande generosità – credettero che nel nostro paese stavano addensandosi i fattori politici e materiali di un possibile sbocco rivoluzionario nel breve periodo.
Del resto era evidente a molti che il PCI di Berlinguer aveva scelto di andare avanti con il “compromesso storico”, di accettare “l’ombrello protettivo della NATO” e di farsi portatore dela filosofia dei “sacrifici necessari”.
Questa “mutazione genetica” fu una sorta di catarsi liberatoria per tanti militanti e contribuì alla convinzione di molti compagni che, a breve, “la guerra civile sarebbe stata la porta stretta dove sarebbe dovuto passare il corso dell’antagonismo tra la borghesia e il proletariato”.
Le giornate di Aprile – quindi – sono state un evento collettivo che per molti ha costituito un nuovo inizio verso soglie politiche ed organizzative del conflitto nel nostro paese fondate sull’accelerazione soggettivistica e sulla immediata “verticalizzazione dello scontro”.
Parimenti, però, le giornate di Aprile – a Milano come altrove – rappresentarono un punto fermo della memoria antifascista nel nostro paese, un segno distintivo tra un antifascismo di maniera, attento – ieri come oggi – alle alchimie istituzionali e,invece, una pratica quotidiana di lotta al vecchio ed al nuovo fascismo, alle sue diverse declinazioni e, soprattutto, alla matrice vera di questa forma di espressione delle classi dirigenti: il capitalismo!
La figura dei compagni caduti in quelle giornate resta ferma e distinta nelle lotte che per decenni – in condizioni e contesti politici diversi – sono continuate ed ancora si daranno nel nostro paese. Anche e, soprattutto, per tale compito non vanno dimenticate o lasciate cadere nell’oblio!
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Nicola Vetrano
Giusto