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Sfruttamento, salari, innovazione tecnologica

Per il tramite della cortesia sempre dimostrata dal compagno socialista Claudio Bellavita di Torino ho ricevuto un articolo sul tema del rapporto tra salari e innovazione tecnologica e di conseguenza – aggiungo – oggettivamente dello sfruttamento pubblicato da Keynesblog.

Di seguito se ne troveranno stralci con un commento conclusivo che riporto in precedenza agli stralci del testo in questione e che mi sono permesso di elaborare.

1)      E’ evidente che il tema non è quello dei salari ma quello dello sfruttamento. La forza – lavoro è, infatti, adoperata secondo l’antica logica dell’“esercito di riserva”, oggi agita soprattutto  attraverso la leva della precarietà che si accompagna oggettivamente ai bassi salari;

2)      In questo senso si comprende benissimo il deficit d’innovazione, assolutamente voluto per tenere al minimo il profilo produttivo accentrato in settori marginali sia rispetto alla necessità di produzione interna sia al riguardo delle esportazioni;

3)      Questo quadro è riconducibile alla quasi completa sparizione, in Italia, della produzione nei settori industriali strategici derivante dal fallimento dei processi di privatizzazione seguiti alla liquidazione dell’IRI. Processi di privatizzazione che hanno generato due fattori fondamentali della crisi: l’emergere di un vero e proprio “ritardo tecnologico” e una gigantesca “questione morale”;

4)      Si è anche verificato, com’è possibile notare dal testo seguente, un’assoluta carenza d’investimenti. Contemporaneamente alla crisi dell’industria registriamo un’obsolescenza delle infrastrutture (strade, ferrovie, porti) e l’esplosione della vicenda bancaria che in questo momento tiene banco sul terreno dello scacchiere politico, ma al riguardo della quale quasi nessuno fa notare come stia all’origine del complesso delle difficoltà economiche del Paese;

5)      Si è rivelata sbagliata anche la logica dei “distretti” e della “fabbrichetta del Nord – Est” (fenomeno, come stiamo notando, strettamente collegato con la situazione delle banche). Risultato: estrema debolezza della struttura ormai sede di assalto da parte di compagnie di ventura oltre alla mai abbastanza ricordata intensificazione dello sfruttamento;

6)      Completamente dismessa la possibilità d’investimenti pubblici in un quadro di programmazione economica (impedita tra l’altro, è bene ricordare, dai Trattati Europei, con la tagliola degli “aiuti di stato”) e di gestione pubblica diretta di alcuni comparti assolutamente strategici (ferrovie,aerei,utilities energetiche, ecc) oltre alla confusione legislativa al livello degli Enti Locali la situazione italiana presenta sostanzialmente tre punti da evidenziare che qui elenchiamo raccogliendo le fila del ragionamento: 1) deficit strutturale nei settori strategici della produzione industriale e delle infrastrutture; 2) intensificazione dello sfruttamento nel segmento occupato del mercato del lavoro: sfruttamento realizzato attraverso essenzialmente la leva del precariato; 3) assenza d’investimenti pubblici rivolti soprattutto all’innovazione tecnologica, mentre la gestione delle principali aziende italiane appare in forte ritardo (permangono anche, com’è ben noto, forti frizioni nel rapporto tra industria e ambiente, anch’esse derivanti dal deficit d’investimento.).

Questo lo stralcio del testo già citato (dal Keynesblog)

Secondo la teoria mainstream i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione) hanno contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti, sono condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti. I lavoratori capaci di integrarsi o essere integrati in settori più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici) sarebbero invece maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi. E’ questa la spiegazione dei bassi salari italiani? No, secondo gli autori di questo articolo, Marta Fana, dottore di ricerca in Economia e autrice di “Non è lavoro, è sfruttamento” (Laterza 2017) e Davide Villani, dottorando di ricerca in Economia, Open University (Regno Unito).

All’interno del dibattito sulle attuali condizioni del mondo del lavoro italiano, si colloca la questione salariale. Secondo la teoria dominante, ripresa su Econopoly in un recente articolo firmato da Luca Foresti, i cambiamenti tecnologici (e la globalizzazione) hanno contribuito alla polarizzazione del mercato del lavoro in cui gli strati più bassi della piramide hanno sempre più difficoltà a inserirsi o, una volta inseriti, sono condannati a salari e condizioni di lavoro meno edificanti. Allo stesso tempo, lavoratori capaci di integrarsi o essere integrati in settori più produttivi (quelli maggiormente innovativi e tecnologici) sarebbero maggiormente ricompensati, in quanto più produttivi. Si consumerebbe così la polarizzazione (e di conseguenza aumento delle diseguaglianze interne), spinta(e) principalmente dalla tecnologia. Come in ogni visione a tradizione marginalista, inoltre, spetta ai lavoratori, schiacciati dalla concorrenza di altri lavoratori nella fascia bassa delle retribuzioni, “prepararsi a fare lavori più complessi e meglio pagati” e a quelli più produttivi reclamare la propria fetta, “meritata”, di valore aggiunto prodotto. All’interno di questo ragionamento, nessuno spazio è accordato, come ricorda Bogliacino (2014), al potere, o in termini classici ai rapporti di forza tra aziende e lavoratori.

Mantenendo per un attimo da parte quest’ultimo aspetto che tuttavia è dirimente nello spiegare perché la tesi di una polarizzazione (e quindi diseguaglianza) indotta dalla tecnologia non sia in grado di spiegare la situazione italiana, è opportuno guardare ai fatti che caratterizzano il mondo del lavoro italiano. Rimanendo quindi ancorati alla teoria mainstream, ci si chiede se in Italia l’impoverimento dei salari sia dovuto alla polarizzazione e/o un’insufficienza di capitale umano capace di soddisfare le richieste tecnologiche del mercato.

Partendo dal rapporto Eurofound (2016) sulla struttura lavorativa dei Paesi europei, si nota che l’Italia, insieme all’Ungheria è il paese in cui la polarizzazione tra lavori qualificati e non qualificati non ha luogo. Tra il 2011 e il 2015 è un vero e proprio declassamento generalizzato: ad aumentare sono soltanto il numero di posizioni lavorative peggio retribuite (quelle appartenenti al primo quintile delle retribuzioni).

Inoltre, si legge nello stesso rapporto, la struttura occupazionale italiana si caratterizza per maggiori livelli di lavoro fisico e per un uso inferiore delle ICT, soprattutto rispetto a paesi come la Francia e la Germania, ma non solo. Quindi, non è l’offerta di lavoro a non essere adeguata, ma la struttura produttiva in costante impoverimento. In altre parole, più che un problema di offerta di lavoro l’Italia attraversa un problema di quantità e qualità di domanda di lavoro. Quanto alla quantità, è sufficiente ricordare che il monte ore lavorato è ancora inferiore ai valori precrisi e che la domanda di lavoro in Italia è tra le più basse in Europa, come riporta l’Eurostat.

La scarsa qualità della domanda di lavoro, è dimostrata dall’esodo di lavoratori teoricamente più qualificati (cioè in possesso di una laurea) verso altri paesi, come rileva di recente l’Istat: nel 2016, si legge nel rapporto Migrazioni internazionali e interne della popolazione residente, i laureati italiani che lasciano il Paese, sono quasi 25 mila nel 2016 (+9% sul 2015) anche se tra chi emigra restano più numerosi quelli con un titolo di studio medio – basso (56mila, +11%), a riprova del fatto che scarsa qualità e quantità di domanda di lavoro vanno di pari passo nel nostro Paese.

Inoltre, per confermare i dati Eurofound sulla scarsa qualità delle offerte di lavoro in Italia, basta guardare alla distribuzione delle nuove assunzioni nel nostro paese, riportati mensilmente dall’Osservatorio sul precariato Inps, secondo cui circa il 35% delle nuove assunzioni a tempo indeterminato tra il 2015 e il 2017 si concentrano nei settori dei servizi a scarsa produttività: commercio all’ingrosso e al dettaglio; riparazione di autoveicoli e motocicli; trasporto e magazzinaggio; servizi di alloggio e di ristorazione.

Non stupisce, allora, ritrovare una distanza profonda tra le retribuzioni dei salariati e quelle, in aumento, di dirigenti e lavoratori ai piani alti della piramide, la quale però non rappresenta un cambiamento neutrale nelle forme retributive. Infatti, l’aumento delle seconde è determinato da forme di retribuzione non legate al salario ma appunto ai profitti; non a caso esse avvengono tramite bonus e stock options.

Alcuni economisti (vedasi Lazonick e O’Sullivan, 2000; Mason, 2015) inseriscono questo fenomeno all’interno della denominata shareholders revolution, che negli ultimi decenni ha contribuito a spostare le imprese verso un modello in cui vengono privilegiati investimenti speculativi, principalmente orientati al breve periodo, con l’obiettivo di massimizzare i ritorni di un numero ridotto di azionisti. Come contropartita diminuiscono gli investimenti produttivi di lungo periodo, già colpiti dal basso livello di domanda aggregata.

Il risultato è una diminuzione della quota di profitti reinvestiti nell’economia “reale”, mentre aumenta quella destinata alla distribuzione di dividendi. Sono allora premiati coloro che lavorano per aumentare i rendimenti finanziari e/o i risparmi negli investimenti reali da drenare nelle attività speculative.

Fin qui quindi nulla conferma la teoria della polarizzazione indotta dalla tecnologia.

La ricerca della competitività da parte del settore privato sembra passare unicamente dalla riduzione dei salari e del costo del lavoro in generale, più che da investimenti produttivi e innovazione. In Italia, infatti, si investe meno che nel resto d’Europa: gli investimenti in rapporto al PIL sono costantemente al di sotto della media europea, sin dagli inizi degli anni Ottanta. Lo stesso vale per la spesa in ricerca e sviluppo: secondo dati Eurostat, in Italia il settore privato destina 207 euro pro capite mentre la media europea è di 427 euro per abitante. Per non parlare degli investimenti in istruzione che languono in basso alla classifica dei paesi europei. A questo si deve aggiungere una retorica che spesso ha enfatizzato le piccole e medie imprese, dimenticandosi che queste imprese sono meno innovative e meno produttive rispetto alle grandi aziende.

Occorre poi riflettere su come l’aumento della disuguaglianza del reddito ha effetti a livello macroeconomico. Una società più diseguale implica che una quota sempre minore del reddito è assicurata ai piani alti della piramide. Questa distribuzione del valore aggiunto prodotto, però, ha effetti negativi su crescita economica e occupazione. La maggior propensione al consumo delle classi popolari rispetto a quelle più abbienti fa sì che una distribuzione più egualitaria porterebbe a una più rapida crescita economica, per via dell’effetto moltiplicatore.

In questo contesto, le politiche di restrizione della domanda aggregata (meglio conosciute come austerity) non fanno che peggiorare la situazione, determinando crollo degli investimenti pubblici, blocco degli stipendi del settore pubblico e riduzione della spesa sociale (reddito indiretto per le famiglie), minori consumi. Considerati questi aspetti sembra quantomeno improbabile raggiungere aumenti di produttività che invertano il declino italiano. La produttività è, infatti, un fenomeno prociclico nel lungo periodo, legato alla crescita (che non può avvenire in assenza o in stagnazione di domanda aggregata e forti diseguaglianze).

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