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Roma: da Capitale del sistema paese a periferia dell’Unione Europea

La Rete dei Comunisti ha organizzato su questo tema un dibattito pubblico a Roma mercoledi 21 febbraio. Una analisi sulle tendenze in corso nel processo di asimmetria forzata del nostro paese e nelle aree metropolitane

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La condizione di degrado che pervade gli scenari della parte periferica e maggioritaria  del tessuto metropolitano della città capitale non può essere solo materia per statistiche e graduatorie dei centri studi sullo stato delle città , né può essere ridotta a situazione contingente legata al ciclo economico e difficoltà/incapacità  gestionali.

Diverse e profonde sono le ragioni dello stato di prostrazione che vive sotto più profili la città, da ricercarsi  nella trasformazione degli assetti economico produttivi che ne hanno definito la fisionomia per un’intera fase storica. Uno spostamento del baricentro della struttura portante, intesa come sistema di relazioni  sociali, economiche e culturali, da una dimensione pressoché totalmente definita dalla prossimità politica ed istituzionale con la politica nazionale ad una identità “ globale” nello scenario in movimento della costituzione della U.E. Un processo di transizione, dunque, che attraversa l’intero tessuto metropolitano, che riattualizza l’incidenza delle trasformazioni urbane nell’analisi delle varie fasi e di intere epoche, tratteggiando la fisionomia della metropoli funzionale alla  rimodulazione del processo di appropriazione privatistica/ accumulazione capitalista

Tentare la sintesi del sostrato di relazioni che ha connotato un intero periodo storico, a sua volta attraversato da radicali trasformazioni, rischia di rivelarsi riduttivo. Tuttavia, il connubio tra gli interessi affaristici della borghesia cittadina e la sfera pubblica, con la funzione di volano dell’intervento economico pubblico nel meccanismo dell’accumulazione  (ciclo del mattone), ha indubbiamente svolto un ruolo preminente. La strutturazione del ceto medio impiegatizio, legato in larga parte al flusso migratorio interno ad alta e media scolarizzazione, convogliato nella capitale nei ranghi della pubblica amministrazione, nonché puntello alla crescita dei consumi, e la menzionata borghesia affaristica hanno rappresentato un tratto essenziale per la tenuta di un blocco sociale e di potere, mai seriamente messo in discussione dal succedersi delle amministrazioni. Naturalmente il quadro economico produttivo della città ha conosciuto un’articolazione molto più complessa: dal turismo, all’artigianato storico, passando per esperienze industriali significative ( gli insediamenti della cosiddetta Tiburtina Valley), nonché, il sistema della rendita parassitaria immobiliare ed ecclesiastica. Tuttavia, il tratto essenziale del sistema produttivo è stato stabilmente rappresentato per decenni dal trasferimento pubblico, intorno al quale si sono coagulati interessi e rapporti, egemonici, capaci di tradursi anche  sul versante della rappresentazione.

La narrazione della Roma provinciale, indolente ed apatica può essere considerato il riflesso cultural-letterario di un sedimentato nucleo di interessi economici, spesso affaristico-clientelari, che nel rapporto privilegiato con l’intervento pubblico ha costruito il suo architrave.  Il che è riconducibile  alle modalità proprie del capitalismo di relazione, rapporti tra settori della borghesia e gestione dell’apparato finanziario-produttivo  al di fuori della presunta razionalità del mercato, di cui è intessuta  l’intera vicenda economica nazionale.

Un modello di città organico al livello di sviluppo delle forze produttive, alla loro dimensione e strutturazione nazionale, nel contesto internazionale post bellico; con un ruolo strategico nella tenuta del sistema paese, fondato sulla divaricazione produttiva e sociale Nord-Sud, con un blocco sociale di interessi dominante aggregatosi intorno al sistema di finanza pubblica.

 

Il nuovo sistema di relazioni: il polo geo-economico, politico europeo

La fine del sistema di relazioni internazionali post belliche, conseguenti al crollo del sistema dei paesi socialisti dell’Est-Europa, in cui il nostro paese, con l’intero occidente capitalistico, condivideva la prospettiva della crescita economica e sociale, è la chiave di volta di una generale riconfigurazione economica e produttiva. Trasformazione interna ad una nuova fase della mondializzazione dell’economia capitalistica, la cosiddetta globalizzazione, connotata da una smisurata finanziarizzazione è da una nuova divisione internazionale del lavoro, con i mercati resi disponibili dalla fine dell’influenza politica ed economica su scala planetaria dei paesi socialisti. Sul piano continentale, la configurazione degli apparati produttivi, fino allora prevalentemente nazionali, si disloca in ragione delle nuove opportunità (lavoro, materie prime, ecc.), dando luogo a una formazione geo-economica, in cui il nucleo dei paesi promotori della Unione Europea individua il proprio spazio vitale.

La crisi sistemica che dal 2008, attraverso il domino finanziari, mettendo a nudo il tratto strutturale comune della decrescita della profittabilità degli investimenti, ha accelerato il carattere della dimensione imperialista  nella competizione tra poli. Nella U.E, la crisi ha, tra gli altri risvolti, l’implementazione del meccanismo di centralizzazione della governance,  operando in un quadro di chiara gerarchizzazione delle relazioni tra paesi, in cui attraverso un impianto multilivello, il trasferimento delle decisioni, tanto nazionali che locali, giunge in modo immediato in ragione del sistema di vincoli assunti nei trattati e recepiti nelle normative, evidenziando uno svuotamento dei livelli decisionali e dell’intera  “filiera politica”.

La rappresentazione finanziaria della crisi, l’uso abnorme della leva finanziarie e speculativa in funzione di neutralizzazione della caduta dei profitti, il cui contenuto reale  riafferma  la “legge del valore” sulle iperboliche costruzioni finanziarie, trova espressione nella definizione del debito sovrano. Il trasferimento nella sfera del debito pubblico del ripianamento della  finanza tossica, tale  proprio perché priva di relazioni con il valore reale socialmente prodotto, segna il “rinculo” devastante della finanza fittizia nell’ambito sociale produttivo. Aspetto rilevante della gestione finanziaria  della crisi è l’utilizzo, sin dagli anni ’90, delle politiche del debito  con il taglio sistematico dei trasferimenti pubblici e le politiche di rientro imposte alle amministrazioni locali.  Il vincolo esterno applicato alle politiche di bilancio segna la brusca contrazione delle politiche ridistributive intorno a cui nei maggiori paesi del continente europeo si era realizzato il compromesso sociale alla base del modello europeo. L’equilibrio pubblico-privato cede il passo ad una strutturazione neo-liberale, funzionale ad un trasferimento imponente di ricchezza dal lavoro al profitto e alla rendita finanziaria: la privatizzazione di beni e servizi, di cui, la fuoriuscita dello stato dalla proprietà e gestione della cosa di interesse comune, ne è la condizione ineludibile.

La schematica ricostruzione consente, quindi, di individuare almeno tre delle principali componenti del processo– governance, debito, privatizzazioni – distinte sotto il profilo dell’analisi ma “condensate” in un dinamico e dirompente impatto sull’intero modello sociale. Elementi peraltro decisivi nella strutturazione  politica di una solida componente della borghesia nazionale funzionale al processo di formazione della U.E..

La ricollocazione nel contesto della U.E. del rapporto centro-periferia, la fisionomia delle forze produttive negli apparati economici dislocati in una filiera continentale, riconfigura le catene del valore di comparti considerevoli e qualificati della base produttiva nazionale in rapporto alle esigenze del capitale industriale e finanziario dei paesi core. Insomma, il superamento della centralità produttiva nazionale, la perdita di significato sotto il profilo economico della definizione di territorio nazionale per la sempre più problematica estensione della qualifica alla proprietà, proietta il territorio, non solo nella sua accezione economica e produttiva ma anche storica e culturale, in una dimensione competitiva “globale”. Il territorio metropolitano non solo si ridefinisce nel sistema di relazioni dell’attuale dimensione geo-economica della U.E. ma  introietta nello spazio nazionale il “peso” della gerarchizzazione,  aree a maggiore integrazione con il centro economico e aree più o meno marginali. L’interesse del sistema paese non è più solo questione interna ai confini nazionali, la relazione con il “polmone economico e finanziario” della U.E., se, da un lato ne prevede la subordinazione , causando distruzione di capacità e forza produttiva, dall’altro con un processo di crescente integrazione nelle filiere del valore “continentale”, ne impone le dinamiche competitive all’interno della stessa area geo-economica. Il territorio  ridefinito economicamente dalla strutturazione multinazionale delle forze produttive  del capitale è il connotato della metropoli globale, la cui centralità è definita dalla capacità di attrarre  i flussi finanziari  nell’appropriazione privata  del proprio patrimonio, economico, sociale, culturale, ecc.

La competizione geo-economica tra poli imperialistici è strutturalmente collegata alla competizione interna tra borghesie nazionali che nelle aree territoriali trasferisce le  esigenze del modello di accumulazione, ponendo le aree metropolitane al centro delle dinamiche competitive del polo geo-economico, politico imperialista.

 

Roma, area metropolitana ai margini della competizione

La riconfigurazione complessiva del modello sociale , sulla scorta del processo di valorizzazione  accennato, è, dunque, all’origine della disgregazione del sistema di relazioni che hanno contrassegnato un’intera fase storica. Il loro impatto sulle condizioni della città capitale sono la cifra interpretativa del declino di funzione, della incapacità di riconvertire il proprio apparato produttivo e di relazioni sociali e politiche nella sfera del segmento di produzione a diretto traino dei paesi dominanti della U.E., caratterizzato da processi  ad alta composizione tecnologica e immateriale. La scomparsa dal territorio romano dell’industria manifatturiera, a seguito dei processi di ristrutturazione degli anni 80-90, ha segnato l’abbandono di una presenza produttiva, privata di possibilità di riconversione, di tenuta di un presidio industriale e della condizione di un possibile rilancio. L’economia dei servizi, in tutta la sua gamma, diventa il tratto caratterizzante della  struttura produttiva, che in un contesto di deindustrializzazione trova supporto prevalente nel rapporto con i flussi finanziari pubblici, con una scarsa relazione con i settori economici trainanti  emersi dalla fine del ciclo fordista.

L’elemento caratterizzante della metamorfosi  involutiva  della città ruota intorno alla destrutturazione del suo cardine: la finanza pubblica. Gli elementi  economico- normativi introdotti a modifica dell’intervento pubblico, non solo ridimensionano il ruolo pubblico ma lo rendono sussidiario al ruolo del privato. Il piano di rientro dal debito comunale, con tagli strutturali e privatizzazioni all’intero sistema del Welfare cittadino, chiude definitamente la possibilità di utilizzo della leva pubblica per la programmazione delle politiche del territorio. La linea guida dell’intervento sulla città diviene la gestione dell’emergenza, dall’ambiente alla pavimentazione stradale all’immigrazione , con un sistema di illegalità diffusa, causata, come dimostrato dalle vicende giudiziario-amministrative, non  dalla presenza ma dalla perdita di funzione dell’indirizzo  pubblico. Insomma, il territorio metropolitano della capitale fuori dal sistema di investimento pubblico, incapace di rapportarsi con un valido sistema produttivo e infrastrutturale alla dimensione europea e di intercettarne i flussi finanziari è oggetto di una marginalizzazione che appare irreversibile. L’altra faccia della medaglia dei flussi è quello della forza-lavoro, tanto comunitaria che extracomunitaria, accomunata dalla collocazione nelle fasce basse del mercato del lavoro: servizi alla persona e commercio. Pur costituendo, quella legata all’immigrazione, la parte largamente maggioritaria delle neo- imprese in particolare commerciali, la loro presenza sul mercato non costituisce un arricchimento quanto una sostituzione delle attività che chiudono, magari  per l’impossibilità di sostenere il confronto con la grande distribuzione.

La politica che nella gestione di Roma ha trovato spesso un avamposto per disegni nazionali, segna il passo.  Il ritiro alla candidatura per le olimpiadi 2024, l’evento globale  per definizione che avrebbe attivato capitali, operato in nome della legalità(?) e non di una diversa ipotesi di rilancio della città, oppure, la difficoltà a trasferire il “modello Expo” nella capitale per la mancanza di  una adeguata capacità manageriale, il compromesso operato dalla giunta sulla speculazione dell’area di Tor di Valle, l’inclinazione alla gestione securitaria della dilagante emergenza sociale, sono tutti segnali, non solo dell’impasse della politica nella gestione metropolitana e delle convulsioni della crisi di modello, ma della impossibilità di recupero di una visione di città stretta  nella spirale debito- privatizzazioni. Neanche l’incommensurabile  giacimento storico e artistico, artefice della promozione globale del brand della città, nonostante i dati di relativa crescita,  riesce a sostenere la citta nella competizione turistica con altre città,  in cui il sistema di offerta  ne aumenta l’attrattiva ben oltre i meriti.  E’ questo il contesto che determina l’abbandono della città da parte di aziende che giudicano evidentemente incolmabile, a dispetto delle soluzioni tecnologiche, il divario tra la sede della struttura produttiva e il crocevia delle relazioni con le componenti dominanti del sistema geo-economico europeo, collocato  nell’area metropolitana milanese.

Allora, la condizione di metropoli al collasso,  in cui le articolazioni del sistema di relazioni affaristico-speculativo si diramano nel modello della città privata, senza un piano di sviluppo perché impedito dai vincoli neo-liberisti e costantemente depredata delle risorse dall’appropriazione privatistica, costituisce la contraddizione irrisolvibile dall’interno del sistema e superabile solo con una rottura politica, fuori e contro i vincoli U.E..

 

Roma-Milano: declino e ascesa delle aree metropolitane

Il dualismo Roma-Milano è stata una costante della rappresentazione nazionale: la Roma della burocrazia, la Milano della produzione. Un dualismo giocato all’interno di un quadro nazionale unitario sia pure con le note differenziazioni di contesti economici e forze produttive ,che si è

trascinato lungo decenni trasferendosi anche sul piano culturale e politico. Due realtà metropolitane Roma e Milano, che all’interno della trasformazione imposta dalla “globalizzazione” nella espressione del polo geo-economico europeo e dell’accelerazione operata dalla crisi, stanno conoscendo percorsi differenti: di marginalizzazione dal nuovo scenario produttivo di Roma, di crescente integrazione nelle relazioni economico-produttive ma anche socio-politiche di Milano.

L’area metropolitana milanese è certamente un caposaldo nell’attuale fase di integrazione economica, in cui la portante tecno-struttura manifatturiera trova collocazione nella catena del valore formatasi intorno al polo europeo. La lettura dei dati economici per aree territoriali, che è quello più adatto a fornire valutazioni nello scenario delle filiere produttive internazionali, non lascia dubbi: l’apparato produttivo del territorio metropolitano meneghino, dalla tecno-manifattura , all’economia digitale, all’agroalimentare, alla moda, ecc. è un sistema di imprese sostenuto da un territorio e infrastrutture politicamente  predisposto alla competizione “globale”.

Una carrellata dei numeri, forniti dal centro studi di Assolombarda, rende chiara l’effetto economico dinamico dell’integrazione della piattaforma industriale e commerciale milanese nel contesto europeo: indice di produttività dal 38,9 del 2013 al 48,3 attuale; innovazione prodotto/processo esteso dal 15, 8 delle aziende nel 2013 al 31,4 attuale; ricerca e sviluppo dal 39,9 del 2013 al 49,8 con quota di fatturato pari al 6,1; brevetti depositati dal 5,7 2013 al 11,9. E’ evidente che l’integrazione/competizione  è qui rivolta al segmento alto e qualificato della produzione, quello interno alla filiera europea, e il raffronto è con le aree metropolitane di paesi dello zoccolo duro: Stoccarda, Monaco di Baviera, Lione e Barcellona. Scenario competitivo che si misura anche con la capacità di assorbimento della forza lavoro professionalizzata e scolarizzata: dal 2008, anno della crisi, al 2016 a Milano si sono avuto assunzioni di 210mila laureati. Naturalmente a fronte di numeri anche maggiori di fuoriuscite dal processo produttivo in altri segmenti, ma comunque a documentazione della configurazione della struttura produttiva  e di sostituzione di forza lavoro adeguata per i nuovi processi produttivi.

La collocazione all’interno  dello scenario competitivo del polo europeo della divaricazione tra le aree metropolitane è, da un lato la riconferma del carattere  dualistico , riassunto convenzionalmente nella relazione Nord-Sud, insito nel Modo di Produzione Capitalistico; dall’altro delle nuove caratteristiche assunte dagli squilibri dell’attuale modello di accumulazione con la disarticolazione del tessuto produttivo nazionale ad opera di un dimensionamento degli apparati di produzione e forze produttive su scala multinazionale.

In questa dimensione, la centralità delle aree metropolitane acquista ulteriori incidenze, oltre quelle portanti economico-strutturali, nelle relazioni  politico- istituzionali.  Il già citato cambio di collocazione del rapporto centro-periferia  provocato dalla costituzione del polo europeo, con un protagonismo crescente delle aree territoriali, destruttura l’impianto centralizzato dello stato nazionale ( vedi fenomeni diffusi con valenze diverse autonomisti e indipendentisti), rendendone necessaria la rifunzionalizzazione. In altri termini, la perdita di presa della dimensione politica sui territori, per l’imporsi del meccanismo di governance  multilivello centralizzata, e l’attrazione esercitata sugli stessi dal combinato di integrazione/competizione, obbliga la dimensione politica nazionale a misurarsi con il peso specifico dei territori. La vicenda dell’EMA, l’agenzia del farmaco europea, in cerca di una nuova sede a seguito della Brexit, che ha visto la sconfitta della candidatura di Milano, è emblematica della nuova funzione imposta alla politica nazionale nella competizione interna alla U.E.

Allora, individuare nella dimensione U.E. il baricentro del sistema di relazioni dominanti, ci obbliga ad una lettura nuova del rapporto politico con il territorio metropolitano e nella relazione con il nostro blocco sociale, la competizione interna al polo tra i settori integrati della borghesia europea e la sua proiezione esterna nella dimensione imperialista, non sono semplici dati dell’analisi ma elementi che pervadono le contraddizioni a cui dobbiamo adeguare il nostro intervento e l’organizzazione del conflitto di classe.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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