Non si può certo dire che il business delle autostrade fosse ignoto agli addetti ai lavori e anche alla grande stampa. Persino LaVoce.info * – ma sì, proprio quella dell’attuale presidente Inps, Tito Boeri – aveva a suo tempo messo sotto esame questa “stranezza”: una colossale rete viaria costruita con soldi pubblici “concessa in gestione” a un ristrettissimo gruppo di “prenditori” perché si arricchissero comodamente, senza rischiare nulla, ma proprio nulla…
Ci sembra giusto che anche i nostri lettori possano rispolverare informazioni note da almeno dieci anni.
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Anticipiamo alcuni brani del libro di Giorgio Ragazzi “I signori della Autostrade”, uscito pochi giorni (12 settembre 2008, ndr) fa per il Mulino (206 pagine, 18 euro). Perché le concessionarie autostradali registrano da tempo profitti molto elevati? Per spiegarlo, il volume ripercorre la storia del settore. Il capitale investito della maggior parte delle concessionarie era già stato ammortizzato e remunerato alla fine degli anni Novanta e i pedaggi avrebbero potuto essere drasticamente ridotti. Il ruolo delle società pubbliche. E un sistema tariffario ben lontano dal modello regolatorio del price cap.
Di Pietro (Antonio, ex magistrato e ministro dei lavori pubblici, fino al 2017 curiosamente presidente dell’Autostrada Pedemontana spa, ndr), appena assunta la carica di ministro, parlando delle concessionarie ha dichiarato: “la cuccagna è finita”, anche se poi non pare sia riuscito nel suo intento. Il settore registra da tempo profitti molto elevati. Per citare solo i casi più rilevanti, in sei anni la Schemaventotto dei Benetton ha moltiplicato per sei/sette volte il valore del suo investimento. L’imprenditore Gavio, entrato nel settore meno di dieci anni addietro con un piccolissimo investimento controlla oggi un “impero” che vale quattro miliardi.
Per cercare di capirne i motivi abbiamo ripercorso la storia del settore dalle origini ad oggi. Poiché le concessionarie erano prevalentemente pubbliche, dell’Iri o di enti locali, ministri e Anas sono sempre stati molto benevoli nei loro confronti (alle spalle degli utenti). Già le rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 erano state una fonte di grandi profitti per le concessionarie; senza quelle rivalutazioni, nella maggior parte dei casi le autostrade sarebbero già state interamente ammortizzate alla fine degli anni ’90. La privatizzazione di Autostrade ha poi innescato una vera “cuccagna” e ne hanno beneficiato anche gli azionisti privati. È l’obiettivo di massimizzarne il valore che ha indotto alla proroga generalizzata delle concessioni alla fine degli anni ’90 e all’introduzione di un price cap particolarmente favorevole per le concessionarie, per non parlare delle clausole privilegiate inserite nella convenzione della Autostrade.
Non esiste nessun settore dove un governo, o addirittura solo un ministro, possa fare “regali” così imponenti a società (pubbliche o private) mediante la proroga della concessione e la regolazione delle tariffe, senza che gli utenti ne percepiscano nemmeno i costi addizionali.
LE RIVALUTAZIONI MONETARIE
Se si fosse seguito negli anni il modello teorico della concessione, secondo il quale gli introiti tariffari dovrebbero consentire al concessionario di ottenere una “congrua” remunerazione e di ammortizzare nel tempo il capitale investito sino ad azzerarlo allo scadere della convenzione, le convenzioni di moltissime concessionarie avrebbero dovuto essere scadute già da molto tempo, per avvenuto integrale rimborso del capitale investito.
Una delle ragioni per cui questo non è avvenuto sono le rivalutazioni monetarie del 1976 e 1983 grazie alle quali le concessionarie hanno enormemente “gonfiato”, nei loro bilanci, il valore contabile dei beni gratuitamente devolvibili (cioè il capitale investito nell’autostrada).
Gli investimenti erano stati finanziati pressoché interamente a debito, da tutte le concessionarie. A fine 1975 le 21 concessionarie avevano un capitale proprio (equity) di 115 miliardi di lire, a fronte di 5.100 miliardi di investimenti .
A fronte delle rivalutazioni dell’attivo (beni gratuitamente devolvibili) le concessionarie hanno iscritto al passivo riserve monetarie che hanno aumentato enormemente il valore contabile del loro patrimonio. Hanno poi ottenuto che questi maggiori valori venissero considerati “capitale investito”, da remunerarsi in tariffa e da rimborsarsi entro la scadenza della concessione . Ad esempio, il capitale sociale dell’Autostrada del Brennero ammontava nel 1997 a 107,4 miliardi di lire, ma di questi ben 104,5 miliardi derivavano dalla rivalutazione monetaria effettuata in base alla legge 72/1983: il capitale proprio sottoscritto dagli azionisti è stato davvero minimo, mentre oggi il patrimonio della società ammonta a ben 310 milioni di euro. Lo stesso può dirsi per molte altre .
Il capitale investito della maggior parte delle concessionarie era già stato ampiamente ammortizzato e remunerato, tra la metà e la fine degli anni ’90. Le tariffe avrebbero quindi potuto essere drasticamente ridotte (o gli “extraprofitti” girati allo Stato come era previsto dalla legislazione degli anni ’60). Al termine delle concessioni i beni avrebbero dovuto essere devoluti gratuitamente allo Stato. Le concessionarie sono invece risorte a nuova vita con la proroga generalizzata delle convenzioni nel 1999-2000 (vedasi paragrafo 2.7). Il nuovo sistema tariffario (price cap) è partito poi stabilendo norme per gli incrementi di tariffa, ma accettando per buoni i livelli tariffari esistenti, senza verifica della loro congruità rispetto al capitale netto investito residuo di ciascuna (paragrafo 2.6).
Altre rivalutazioni monetarie sono state effettuate da molte concessionarie nei primi anni 2000 . L’Anas, in occasione del rinnovo della concessione alla Satap A4 (Torino-Milano), ha accettato di calcolare il capitale investito sulla base dei valori rivalutati a bilancio . Se la rivalutazione viene equiparata a un incremento del capitale netto investito, il maggior valore deve essere poi “rimborsato” alla società entro la scadenza della concessione, e remunerato nel frattempo, con corrispondenti incrementi di tariffa. Questa è una richiesta del tutto ingiustificata, non solo perché le rivalutazioni sono facoltative e non obbligatorie ma soprattutto per la logica sottostante. La maggior valutazione dell’autostrada (o del ramo d’azienda cui è intestata la concessione) si giustifica solo perché produce “extraprofitti”, cioè profitti molto superiori a quanto sarebbe “congruo” rispetto ai valori storici. Il maggior valore viene stimato attualizzando questi “extraprofitti” futuri attesi. Se si riconosce alla società il diritto a vedersi “rimborsare” (e remunerare) il maggior valore per il solo fatto di averlo iscritto a bilancio, in pratica si raddoppiano gli extraprofitti: oltre a pagarli come flusso si pagano anche per il loro valore attuale!
UN GIUDIZIO COMPLESSIVO
Il sistema tariffario italiano è chiamato price cap ma in realtà è ben lontano dall’applicare tale modello regolatorio (Coco & Ponti 2006). Mentre si regolano le variazioni delle tariffe non si è proceduto a determinare i livelli congrui delle tariffe iniziali sulla base dei capitali netti residui di ciascuna commissionaria; non si specifica che l’obiettivo della regolamentazione sia quello di pervenire a una remunerazione “congrua” del capitale netto investito (Rab Regulated Asset Basis), né che si debba riportare la redditività al livello “congruo” alla fine di ogni quinquennio (“claw back” dei profitti), aspetto che è invece la caratteristica essenziale della regolamentazione tramite price cap. Attribuire poi il “rischio traffico” ai concessionari non introduce alcun incentivo all’efficienza ma si è solo rivelato una fonte di “extraprofitti” per le prudentissime previsioni inserite nei piani finanziari.
E’ evidente che la nuova regolamentazione tariffaria è stata pensata principalmente, se non esclusivamente, al fine di massimizzare il ricavo della privatizzazione di Autostrade. A tal fine, non era certo opportuno indicare né un “tetto” alla remunerazione “congrua” sul capitale investito, né come si dovesse determinare il capitale netto investito (Rab). Con la convenzione del ’97 sono state d’altronde concesse alla sola Autostrade anche due clausole di particolare favore: il recupero dell’inflazione (negato alle altre concessionarie) e la limitazione della X al massimo pari all’incremento del traffico nel quinquennio precedente.
La “formula” ha lasciato nel vago i criteri per la determinazione del parametro X aprendo la porta a un elevato grado di arbitrarietà e a “mercanteggiamenti” periodici tra l’Anas e le singole concessionarie. La remunerazione per la qualità, che non trova riscontro né in Francia né in Spagna, appare “fantasiosa” e genera incrementi tariffari che non hanno alcun riscontro nei costi sostenuti per ottenere i miglioramenti qualitativi; anche questa clausola sembra pensata soprattutto per incrementare i ricavi prospettici delle concessionarie ed in particolare di Autostrade.
Nel complesso, i risultati conseguiti dalla regolazione delle autostrade italiane dal 1997 ad oggi sembrano davvero fallimentari. Non si ha evidenza di miglioramenti significativi nell’efficienza di costo, al di là dell’applicazione di sistemi automatici di esazione già avviati nel periodo precedente (e i costi delle nostre concessionarie sembrano molto maggiori di quelli francesi, vedasi paragrafo 3.3). Gli investimenti previsti, sulla base dei quali le concessionarie ottennero nel 1999 lunghe proroghe delle concessioni (vedasi paragrafo successivo) e incrementi di tariffa, non sono stati realizzati se non in piccola parte. Le concessionarie hanno invece registrato enormi extraprofitti, cioè rendimenti sul capitale investito largamente eccedenti non solo rispetto ad un ragionevole Wacc ma anche rispetto agli stessi generosi livelli previsti nei piani finanziari.
UN VENTENNIO DI “CUCCAGNA”
Tentiamo qui una sintesi di quanto precede, e il termine “cuccagna”, usato dal ministro Di Pietro, sembra il più appropriato per indicare ciò che è accaduto nell’ultimo ventennio.
La costruzione della rete autostradale italiana è stata finanziata pressoché interamente a debito grazie anche alla garanzia con la quale lo Stato assicurava i debiti delle concessionarie perché, sino alla fine degli anni ’90, quasi tutte erano considerate “pubbliche”. Le concessioni erano basate sulla logica della tariffa-remunerazione. I pedaggi dovevano servire a coprire i costi operativi e l’ammortamento dei debiti con i quali veniva finanziato l’investimento. La legge 463 del 1955 prevedeva che l’eventuale eccedenza dei ricavi oltre una contenuta remunerazione del capitale investito venisse devoluta allo Stato; questo principio veniva ribadito e rafforzato ancora nel 1961 con la legge 729 ed in leggi successive, sino al 1993.
Finito il grosso degli investimenti a metà anni ’70, dopo 15-20 anni molte concessionarie erano già state in grado di rimborsare i debiti finanziari e di ottenere una buona remunerazione sul capitale proprio versato (di regola modestissimo). Molte convenzioni avrebbero quindi potuto scadere negli anni ’90 per avvenuto integrale recupero del capitale investito . Ma quasi due terzi della rete apparteneva allo Stato tramite l’Iri, e l’Iri aveva bisogno di tutto l’ossigeno che poteva venirgli dalla Autostrade (definita al tempo la “gallina dalle uova d’oro” dell’Iri). Il resto della rete, con la sola eccezione della Torino-Milano, era di proprietà di province e comuni e quindi anch’essa “pubblica”. E’ questo che spiega o giustifica l’incredibile generosità dello Stato-regolatore, che proroga “gratuitamente” concessioni in scadenza, mantiene tariffe elevate e crescenti, accetta l’ammortamento in tariffa delle rivalutazioni monetarie.
Per massimizzare il ricavo dalla cessione di Autostrade la sua convenzione viene prorogata (in due tempi) di 35 anni, e lo Stato non può esimersi dal concedere generose proroghe anche alle altre concessionarie allora considerate “pubbliche”, anche se oggi si definiscono “private” e vantano i loro diritti contrattuali dimenticando tutti i “regali” ricevuti in passato proprio in quanto possedute da province e comuni. Ancora per massimizzare il ricavo dalla cessione di Autostrade viene introdotta la “formula” di revisione tariffaria detta price cap che “regala” ad ogni concessionaria il “diritto” di mantenere il livello tariffario del 1999 e accrescerlo secondo la “formula” sino alla scadenza della concessione, senza alcun riferimento a quale fosse nel 1999 il capitale netto residuo da ammortizzare. La fortuna di Gavio è di essere entrato nel settore poco prima del “banchetto” offerto dallo Stato (alle spalle degli utenti) per far incassare all’Iri più soldi possibile.
Insomma, a parte il caso Autostrade, per l’acquisto della quale gli azionisti hanno versato dei soldi veri (tanti o pochi
), quasi tutte le altre concessionarie hanno da tempo più che largamente recuperato e remunerato il (modestissimo) capitale originariamente versato dagli azionisti e i diritti che oggi accampano riflettono essenzialmente “regali” ricevuti a più riprese dallo Stato, nell’ultimo ventennio.
Basta dare un’occhiata ai bilanci delle concessionarie italiane per vedere che il valore residuo dell’autostrada è ormai generalmente una quota modesta dell’attivo, e in molti casi si è quasi azzerato, pur dopo le rivalutazioni monetarie e la capitalizzazione degli interessi e di ogni altra possibile spesa (vedasi il capitolo 5). Se si applica la logica della tariffa-remunerazione i pedaggi dovrebbero dunque essere drasticamente ridotti o azzerati. Si potrebbe anche applicare la tariffa-scommessa, come in Francia, ma gare per l’assegnazione delle concessioni con questa logica non sono mai state fatte, né le concessionarie hanno mai pagato il “biglietto” per questa scommessa. Manca dunque un’origine storica per la legittimità dei diritti che oggi esse accampano.
Quasi tutte le concessionarie, avendo rimborsato ormai i debiti finanziari, si sono trovate, già a partire dagli anni ’90, con flussi di cassa rilevanti e stabilmente crescenti che non avevano opportunità di impiegare nella costruzione di nuove autostrade . Le concessionarie “parapubbliche” (controllate da enti locali) hanno investito questa liquidità in strumenti finanziari e diversificando gli investimenti in altri settori . Gavio ha invece usato questi ampi flussi di cassa per accrescere la propria quota nel capitale delle partecipate e soprattutto per acquisire altre partecipazioni nel settore; egli ha costruito il suo “impero” con un impegno iniziale minimo di capitale, e ha acquistato in pochi anni tutte le partecipazioni facendo leva sui flussi di cassa delle società stesse (vedasi paragrafo 5.1).
Analogamente, Schemaventotto (la società che controlla Autostrade), tramite l’Opa e il “progetto mediterraneo” (paragrafo 4.7) ha accresciuto la propria quota di Autostrade spa dal 30 al 63 per cento, addossando alla concessionaria (e quindi agli utenti che pagano i pedaggi) l’onere del rimborso del debito contratto per finanziare l’Opa. Schemaventotto ha poi mantenuto il 51 per cento e ha rivenduto il 12 per cento rientrando così in buona parte dei soldi versati all’Iri per il 30 per cento acquistato al momento della privatizzazione.
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