21 agosto: dal 1968 di Praga al 1991 di Mosca
Cinquant’anni fa, nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, 165.000 uomini e 4.600 carri armati di cinque paesi del blocco socialista penetrarono nella Repubblica socialista cecoslovacca (ČSSR) per “schiacciare la controrivoluzione, su richiesta dei compagni cecoslovacchi”. Si arrestavano – come sappiamo, l’epoca delle “primavere” non sarebbe finita lì – la “primavera di Praga” e il “socialismo dal volto umano” che, soprattutto in occidente, assunsero allora le sembianze del redentore Alexander Dubček, con Ota Šik quale profeta della “libertà economica”, Eduard Goldstücker in veste di amanuense, Zdeněk Mlynář illustratore sindonico del “socialismo dal volto umano” (amico personale di Mikhail Gorbaciov, influenzò anche le idee della perestrojka) e lo sventurato martire Jan Palach, che cinque mesi dopo si sarebbe dato fuoco a Praga, come testimone della fede.
In Italia, la sinistra, quantomeno quella che (ancora) non metteva in dubbio il socialismo, si divise subito tra fautori della “primavera” – ramificati a loro volta fra paladini del “Praga è sola” e obliqui “dissenzienti” con l’intervento, per i quali la svolta cecoslovacca “è conforme a quel processo di rinnovamento che fu avviato dal XX Congresso del PCUS” – e tifosi imperterriti della “necessità dell’operazione”, passando per gli accusatori dell’uno e dell’altra, sulla scia delle posizioni cinesi e albanesi circa il “socialimperialismo sovietico”.
Sul settimanale del DKP, Unsere Zeit, comunisti tedeschi ricordano ora come nella Repubblica federale buona parte della “opposizione extraparlamentare esprimesse solidarietà ai critici del socialismo in Cecoslovacchia, mentre la “sinistra chic”, citando Mao e Rosa Luxemburg, meditava su “terze vie” e si allontanava dal campo socialista”.
Nel decimo anniversario dei fatti, la rivista nuova unità scriveva che “noi abbiamo condannato e condanniamo l’intervento sovietico in Cecoslovacchia, perché dietro non c’era la difesa dello stato socialista, della classe operaia al potere, ma una politica imperialistica che vuole mantenere subordinati i popoli dell’est europeo per i propri fini di sfruttamento economico. Il movimento della primavera di Praga, il socialismo dal volto umano di Dubček, le libertà democratico-borghesi che venivano ripristinate, erano il risultato di una restaurazione già attuata nel campo dell’economia che, mentre apriva i mercati ai monopoli americani e tedeschi, tendeva a stabilizzare il potere di una nuova borghesia, meno legata agli interessi economici dell’URSS”.
Nel 2008, pravda.ru scriveva che sebbene “i leader cecoslovacchi non parlassero di uscita dal campo socialista, la probabilità della trasformazione dapprima in un paese semi-socialista, tipo Jugoslavia, e poi capitalista-neutrale, come la vicina Austria, era enorme. I leader di altri paesi socialisti vedevano nelle riforme una minaccia per il socialismo. Ma non fu l’Unione Sovietica la più attiva per reprimere la “primavera di Praga”. Il primo a dichiararsi per l’intervento militare fu il leader della DDR Walter Ulbricht; poi, i leader di Polonia e Bulgaria, Władysław Gomułka e Todor Živkov. Soltanto dopo, anche i dirigenti sovietici optarono per la soluzione di forza – e Leonid Brežnev non era affatto il più bellicoso tra di loro”.
In un’intervista di due anni fa al ceco Parlamentni Listy, il segretario del PCFR Gennadij Zjuganov diceva che “la cosiddetta “primavera di Praga” è tuttora circondata di miti convenienti all’Occidente. All’inizio del 1968 in Cecoslovacchia si verificò in sostanza il primo tentativo di “rivoluzione di velluto”. La guerra fredda era in pieno sviluppo. Gli altri paesi socialisti vedevano in quanto avveniva nella ČSSR una seria minaccia al socialismo e alla sicurezza comune. Pare che gli USA stessero esaminando la possibilità di un intervento, esattamente un mese prima del 21 agosto. La NATO si sarebbe ritrovata d’un colpo alle frontiere dell’URSS; poi sarebbero esplose sommosse in Polonia e Ungheria, seguite da quelle nei Paesi baltici e quindi nel Caucaso: è andata a finire così, ma solo 20 anni dopo”.
Dunque: “Praga ’68” come ouverture della “rivoluzione di velluto” del 1989, o persino come crocevia tra il 1956 e il 1991? Parlando dei contrasti all’interno del PCČ, tra i “riformatori” slovacchi di Aleksander Dubček e i “fondamentalisti” cechi del presidente Antonin Novotny, non si può dimenticare come proprio con il secondo fossero stati avviati i progetti di riforma e come il PCUS diffidasse dello “stalinista” Novotny, sospettato di simpatie per Khruščëv, ormai in disgrazia, e per il corso jugoslavo.
Un anno fa, nel centenario della nascita di Vasiľ Biľak, Sergej Bagotskij scriveva su ROT Front che “Il compagno Biľak, insieme al compagno Alois Indra e alcuni altri leader del partito cecoslovacco, giudicarono che l’inevitabile epilogo di quanto stava avvenendo nel paese sarebbe stato un colpo di stato controrivoluzionario e la fine del socialismo. Inviarono dunque una lettera alla leadership sovietica con la richiesta di ristabilire l’ordine con ogni mezzo possibile. In sostanza, fecero la stessa cosa che fece 23 anni dopo il GKČP nel nostro paese. Agirono correttamente? Penso di no. Fecero perno sulla repressione del movimento controrivoluzionario con la forza delle armi straniere, contro la volontà della parte politicamente attiva della popolazione. Prima della lettera con la richiesta di aiuto militare, avrebbero dovuto rivolgersi al popolo cecoslovacco. La classe operaia cecoslovacca era molto critica nei confronti di ciò che stava avvenendo nel paese e li avrebbe certamente appoggiati: solo a quel punto, si sarebbe potuto richiedere l’aiuto militare all’URSS”. Inoltre, come raccontato dal diplomatico sovietico Valentin Falin, “Biľak e Indra non furono i soli a chiedere l’intervento sovietico in Cecoslovacchia: il 16 agosto 1968 Aleksander Dubček telefonò a Leonid Brežnev e pose sul tappeto la questione dell’introduzione di truppe sovietiche. La registrazione della telefonata è conservata negli archivi russi”.
Quali furono i motivi che portarono all’intervento armato? Difficile pensare alla sola riforma di Ota Šik sui “Principali indirizzi di perfezionamento della gestione pianificata dell’economia”, che proseguiva il decentramento della gestione economica iniziato nel 1958 – “per 10 anni andammo avanti sulla nostra strada senza un arretramento”, ricorderà poi Šik – e riduceva da 1.122 a 48 obiettivi e standard centrali cui ottemperare. Inoltre, più o meno lo stesso percorso delineato da Dubček e Šik, era stato avviato da Aleksej Kosygin nel 1965 in URSS, seguendo le linee illustrate sulla Pravda da Evsej Liberman che, in “Piano, profitto, premio”, aveva proposto di compiere decisi passi verso la liberalizzazione dell’economia sovietica, in senso identico a quello della riforma cecoslovacca, con le imprese che divenivano la principale unità economica e il numero degli indicatori di piano che veniva ridotto da 30 a 9. Ciò implicava, tra l’altro, che gli indicatori chiave delle imprese fossero profitto e redditività, così che il sistema non funzionava più come un organismo unico, ma come un insieme di imprese che perseguono i propri particolari interessi, e non quelli dell’intero paese.
E gli economisti cecoslovacchi portavano a esempio proprio le riforme sovietiche. Dunque, non erano probabilmente “le riforme economiche e ideologiche a impensierire la leadership sovietica. Preoccupava di più la prospettiva dell’uscita del paese dal Patto di Varsavia, il suo orientamento occidentale e l’esempio che la Cecoslovacchia avrebbe potuto dare agli altri paesi dell’Europa orientale”, scrive ROT Front.
“Tra la sinistra democratica, russa e non solo” continua ROT Front, “è diffusa l’opinione che la primavera di Praga rappresentasse la lotta delle masse popolari per un “socialismo dal volto umano”, contro le sue distorsioni burocratiche, e che sia stata brutalmente repressa dalla nomenclatura comunista. Tuttavia, questi compagni rimangono incerti di fronte a due semplici domande: cosa differenzia la primavera di Praga dalla perestrojka gorbacioviana? Si può pensare che la primavera di Praga avrebbe potuto concludersi con qualcosa di più dignitoso della perestrojka? Si dice che i leader della primavera di Praga non si esprimessero contro il socialismo: è effettivamente così. Ma anche Mikhail Gorbaciov non si esprimeva contro il socialismo: “più socialismo!”, ripeteva. Cionondimeno USA e NATO sostenevano attivamente la primavera di Praga, perché ne comprendevano l’autentico valore. La valutazione della primavera di Praga data da Vasiľ Biľak era assolutamente giusta: un movimento controrivoluzionario antisocialista, con l’obiettivo di restaurare il capitalismo. Come anche in URSS, in tale movimento intervenne una parte significativa della nomenclatura comunista, ma la forza d’attacco era costituita dalla classe media”.
Lo storico Nikolaj Platoškin nota su Socialcompas che la CIA “sottolineava come lo “stalinista” Novotny fosse stato spinto alle riforme dagli elementi liberali dello stesso PCČ e che proprio l’esautoramento di Khruščëv aveva permesso alla leadership cecoslovacca di accelerare il processo di riforma”. Platoškin nega la tesi secondo cui la riforma fosse dettata da difficoltà economiche: “gli insuccessi del 1963-’64 nell’economia cecoslovacca costituivano essenzialmente una malattia della crescita. I rapidi tassi di sviluppo del periodo precedente avrebbero certamente richiesto alcuni correttivi”, mentre un “duro colpo all’economia del paese fu causato anche dalla crisi di Berlino del 1961, allorché, sotto l’influenza della propaganda occidentale, la popolazione, per il timore di una guerra mondiale e disponendo di forte liquidità, si precipitò nei negozi a comprare tutto ciò che poteva”.
Se difficoltà ci furono, furono di altro tipo. “Nel 1964, a causa degli scarsi raccolti, l’URSS ridusse le forniture di grano alla Cecoslovacchia. Fu necessario acquistare urgentemente grano in Occidente; ma i paesi occidentali non intendevano scambiarlo coi macchinari (di cui la Cecoslovacchia era il principale produttore dell’intero campo socialista), mentre il paese non aveva sufficiente valuta convertibile”. In tale situazione, la CIA notava che gli “elementi liberali” del PCČ, utilizzando il disagio economico e il malcontento dell’intellighenzia, simile alla situazione in Ungheria e in Polonia nel 1956, cominciarono a fare pressione su Novotny”. La CIA notava anche come la riforma economica rompesse con l’economia pianificata molto più di analoghe trasformazioni in altri paesi socialisti. L’economia di piano, osservavano a Langley, verrà sostituita da un “socialismo di mercato”, caratterizzato da maggiore “indipendenza alle imprese, tutte tese al profitto”.
Così, anche gli americani sottolineavano che non era stato affatto Dubček nel 1968 a dare avvio alle riforme economiche, bensì Novotny, che nell’agosto 1964 ne aveva discusso con Nikita Khruščëv e aveva ricevuto “luce verde”. Secondo l’intelligence USA, la Cecoslovacchia aveva acquisito lo stesso “grado di autonomia” dall’URSS di Polonia e Ungheria. Tuttavia, la CIA riconosceva che nella politica cecoslovacca non c’era nulla di “anti-sovietico”, nessuna “derussificazione” e la ČSSR rimaneva un membro fedele del Patto di Varsavia.
Perciò, non era il caso di allentare la presa.
A partire da Winston Churchill, ricorda Anton Latzo su Unsere Zeit, passando per George Kennan, John F. Dulles e il presidente Truman, attraverso il “contenimento forte e vigile” del comunismo, per “aiutare le tendenze centrifughe, il cui risultato finale sarà il collasso del potere sovietico”, si transita per le giaculatorie di Dwight Eisenhower, secondo cui “la coscienza del popolo americano non può essere in pace se non vengono liberati i popoli di Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria e Albania”. Le tracce evidenti di tale approccio sono gli attacchi alle democrazie popolari nella seconda metà degli anni ’40, i fatti del 1953 nella DDR e del 1956 in Ungheria e Polonia, per orientarsi quindi a una opzione differente nei confronti della ČSSR, facendo perno sulla erosione del potere dei partiti comunisti dell’Est dall’interno. Nell’ambito della “dottrina della liberazione”, aumenta l’importanza della guerra psicologica, della politica di “inclusione pacifica” e “costruzione di ponti” della presidenza Kennedy. Prendono campo le raccomandazioni di Henry Kissinger e Zbigniew Brzezinski, di mantenere pronta l’opzione militare, agendo però con mezzi non militari, perché “nell’era dell’ideologia, per avere successo l’azione politica deve essere collegata alle idee”. Si sviluppano dunque “ampi contatti con l’intellighenzia socialista, per influenzare le loro convinzioni ideologiche”. Nel maggio 1964, Lyndon Johnson lancia il “Bridge to Eastern Europe”, per promuovere il “cambiamento attraverso l’avvicinamento”, mentre Egon Bahr e Willy Brandt avviano la “nuova Ostpolitik”.
E’ così, osserva Manfred Idler ancora su Unsere Zeit, che in Cecoslovacchia “il piccolo gruppo che ora dominava l’opinione pubblica attraverso il giornale del partito Rudé Právo e l’agenzia di stampa Ceteka, aveva il potere di definire cosa fossero libertà e socialismo, cosa significasse democrazia”. Riviste quali Mlada Fronta e Literární Listy diffondevano il cambio di politica estera, esigendo la neutralità, e qualcuno chiedeva addirittura l’adesione alla NATO. Quindi, in quel 1968, mentre la Bundeswehr faceva da sponda con manovre militari in Baviera, a ridosso del confine ceco e i media occidentali sventolavano il “socialismo democratico” del PCČ”, a Praga, ricorda Klaus Kukuk, “i riformatori orientavano la protezione civile a scopi cospiratori; emittenti radiotelevisive illegali venivano dotate della necessaria tecnologia; liste nere erano state preparate per gli arresti”.
Non si può comunque negare il malcontento tra le masse per la difficile situazione economica. Nel 1967, con la riforma in funzione a pieno regime, ci fu un forte aumento dei prezzi, senza una corrispondente crescita dei salari; ne soffrirono particolarmente le famiglie con molti bambini, cui lo stato aveva tagliato i sussidi: in quell’anno, fu registrato il tasso di natalità più basso nella storia del paese: 217.000 nati vivi, contro i 250.000 del 1957. Come in Unione Sovietica 20 anni dopo, in Cecoslovacchia i riformatori, consapevoli del fallimento dell’economia, cercarono di indirizzare verso la sfera politica le energie di una società sempre più inquieta. Nel 1966, al congresso del PCČ, Šik dichiarò apertamente che le riforme economiche non davano il successo atteso, perché non erano accompagnate da riforme politiche: come dire che, al pari del passato, la burocrazia di partito non consente alle imprese di svilupparsi pienamente.
Dunque, lo sbocco pratico non poteva che essere la richiesta di maggiori libertà formali, per dare alla nuova borghesia al potere più possibilità di organizzarsi anche sul piano della sovrastruttura. E se nuova unità osservava che “Non è un caso che i borghesi levino un coro di osanna e di approvazione di questi movimenti; non è un caso che Berlinguer, Marchais e Carrillo scoprano una convergenza fra l’eurocomunismo e il socialismo di Dubček”, ecco che, nel 2012, sulla rivista teorica del PCFR, Političeskoe prosveščenie, anche Jurij Belov affrontava “Il virus dell’eurocomunismo”. E lamentava che le “critiche del PCUS all’eurocomunismo fossero state molto caute. La leadership del Partito” scriveva Belov, “lontana dalle questioni della teoria marxista-leninista, non voleva una polemica con gli ideologi dell’eurocomunismo”. Fu così che le “metastasi dell’eurocomunismo penetrarono nella élite del partito sovietico, contribuendo al tradimento dei principi del partito leninista e del potere sovietico”. Ripercorrendo i togliattiani “marxismo non ortodosso” e “stato della democrazia progressiva”; passando per “la svolta a destra sotto il nome di “terza via”, compromesso storico ed eurocomunismo”, Belov concludeva che non “è casuale il fatto che i postulati fondamentali dell’eurocomunismo risuonassero nel “nuovo pensiero” del segretario generale del PCUS e dei suoi compagni di rinnegamento durante la perestrojka. Gorbaciov & Co. avevano creato il miraggio di una nuova via al socialismo attraverso la democratizzazione di tutto, aggirando lo scontro di classe. All’inizio, questo miraggio aveva ipnotizzato molti. Quando scomparve, era troppo tardi: Eltsin era già al potere”.
Nel 1972, nella premessa a “Marxismo-leninismo e società industriale”, Ota Šik scriveva: “Anche se è stato sconfitto con la forza, il movimento riformatore cecoslovacco ha esercitato una funzione storica. La cognizione … che esiste la possibilità di uscire dalla tirannide comunista senza tornare al vecchio sistema capitalista… L’idea seguirà il suo corso e un giorno, in condizioni più favorevoli, diventerà realtà”.
Quel giorno, le linee di riforma di Kosygin in URSS e di Šik in Cecoslovacchia avrebbero costituito la base per le riforme gorbacioviane del 1987-1988. Sul piano sociale, lo sviluppo “degli interessi particolari delle singole imprese doveva condurre al rafforzamento dell’interesse particolare della burocrazia di partito e statale“ scriveva ROT Front nel 2016, e “gli elementi di mercato nell’economia, insieme alla scarsa pianificazione statale, si riflettevano nelle idee non socialiste nelle masse. Tutto questo doveva portare al collasso del sistema sovietico”.
Esattamente lo stesso 21 agosto, 23 anni dopo Praga, i carri armati di Boris Eltsin e i generali Rutskoj, Barannikov, Gračëv, a Mosca avevano facilmente la meglio sui quattro blindati che il GKČP aveva messo in strada due giorni prima, per tentare di salvare – apparentemente senza crederci nemmeno tanto e ancora una volta appellandosi al “popolo“ a giochi già fatti – quel che rimaneva dell’Unione Sovietica.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa