A cento anni dalla fine della Grande Guerra in Europa si continua a combattere, anche in trincea. La guerra civile ucraina, deflagrata tra il 2013 ed 2014 sull’onda delle mobilitazioni di Maidan e dell‘annessione della Crimea da parte di Mosca, ha assunto ormai da tempo le forme di una snervante guerra di posizione a bassa intensità. In Donbass, la regione del bacino carbonifero del Don, le forze di Kiev e gli insorti delle autoproclamate Repubbliche Popolari di Lugansk e Donetsk continuano a fronteggiarsi lungo 450 chilometri di trincee dove si spara e si muore quasi quotidianamente. Secondo le Nazioni Unite quattro anni e mezzo di guerra civile sono costati complessivamente circa undicimila vittime – quasi 250 civili solo nel 2018 – un numero esponenziale di feriti e mutilati e circa un milione e mezzo di profughi.
Sin dal collasso sovietico si è palesato il tentativo dell’Occidente di estraniare dal senso comune degli ucraini la loro comunanza con i popoli slavi d’Oriente e con gli altri popoli del mondo ex-sovietico. L’intento si è rinnovato nei mesi scorsi con lo scisma della Chiesa Ortodossa ucraina – adesso autocefala – e con l’acuirsi delle misure volte a disincentivare nel paese l’utilizzo della lingua russa tutt’ora utilizzata da milioni di cittadini ucraini (Figura 1).
In questi provvedimenti, del tutto incompatibili con un paese multietnico e multinazionale come l’Ucraina, emerge ancora una volta la volontà di Kiev di vanificare le trattative internazionali e la disponibilità da parte del Cremlino di rendere possibile la federalizzazione – in seno all’Ucraina – delle regioni orientali insorte: una decisione, quella ucraina, volta chiaramente a proseguire la guerra contro le regioni orientali, da sempre poco propense ad identificarsi nel potere di Kiev (Figura 2).
Con l’arrivo dell’inverno, a causa degli aumenti delle tariffe pretesi dal Fondo Monetario Internazionale come conditio sine qua non per l’accesso ai prestiti, in aree diverse del paese circa un milione di ucraini stanno affrontando il gelo senza la possibilità, per i costi, di utilizzare acqua calda e riscaldamento con temperature minime ben al di sotto dello zero. Relativamente al problema energetico in cui si trova l’Ucraina il Fondo Monetario Internazionale prevede dunque un’ulteriore crescita dell’inflazione, dovuta all’impatto degli aumenti del prezzo del gas, mentre il Ministro dell’Energia degli Stati Uniti Rik Perry ha immediatamente rassicurato la popolazione ucraina, rinnovando l’invito rivolto agli ucraini ad acquistare carbone e gas liquefatto (LGN) made in USA per ovviare ai propri problemi energetici.
La situazione economica continua a rimanere assai problematica (Figura 3), in relazione alle spese militari, alla corruzione, alle ruberie oligarchiche ed ai massicci piani di privatizzazione delle aziende pubbliche (Figura 4). Relativamente all’ affaire Donbass la guerra economica sembra il perno fondamentale della strategia attendista del Cremlino: quest’ultimo, pur avendo assicurato nel corso degli anni il proprio determinante sostegno agli insorti di Lugansk e Donetsk, sembra, da un lato, aver rinunciato definitivamente a forzare la mano sul piano militare, dall’altro, di aver inteso derubricare la questione ucraina nell’agenda diplomatica internazionale senza tuttavia abbassare la guardia.
La mobilitazione permanente sul fronte del Donbass – dove si sono appena svolte le elezioni tra le fila degli insorti – produce dei costi enormi per i conti di Kiev, e per quelli dei sostenitori d’Occidente: sin dal 2014 il bilancio di Kiev ha visto tagli massicci alla spesa sociale mossi sia dalle direttive del Fondo Monetario Internazionale sia dalla volontà del governo ucraino di mantenere vivo il conflitto del Donbass.
Nonostante la situazione disastrosa in cui versa il paese e l’evidente impossibilità di poter riconquistare la Crimea ed il Donbass, Kiev insiste nel rivendicarne la propria titolarità assoluta ed indiscutibile andando così a compromettere l’efficacia di ogni genere di compromesso.
In relazione all’oltranzismo ucraino, durante lo scorso ottobre il primo ministro russo Dmitry Medvedev ha posto la propria firma su un pacchetto di controsanzioni economiche rivolte contro Kiev. Le misure previste dal pacchetto colpiscono 68 aziende e circa 320 cittadini ucraini: tra i nomi presenti nella lista spiccano quelli dell’ex primo ministro Yatseniuk, dell’ex capo della formazione neofascista Pravy Sektor Yarosh, del Ministro dell’Interno Avakov, di Julia Timoshenko e di molti altri funzionari governativi.
Nonostante il sostegno dell’Occidente alla presidenza di Poroshenko, è verosimile che le controsanzioni provenienti da Mosca infliggano un colpo assai duro alla già precaria situazione ucraina (Figura 5).
La rapida deindustrializzazione del paese ha portato con sé effetti nefasti per il suo sistema economico: nel 2017 secondo il Ministro degli Esteri Pavel Klimkin gli ucraini emigrati nello spazio dell’Unione Europea – certamente favoriti dall’abolizione del visto di accesso per chi detiene un passaporto ucraino – sono stati oltre un milione. Negli ultimi mesi si sono svolte numerose proteste di minatori e dipendenti pubblici mosse dai gravi ritardi nei pagamenti degli stipendi. In questo quadro, il recente incontro tra la cancelliera Angela Merkel ed il primo ministro ucraino Volodymyr Groisman ha offerto l’ennesima conferma della prominenza tedesca nel processo di assorbimento del sistema industriale ucraino: le innumerevoli privatizzazioni previste in Ucraina dai piani del Fondo Monetario Internazionale sembrano infatti coincidere con un significativo rafforzamento della proiezione orientale dell’industria tedesca.
Malgrado la stanchezza di milioni di cittadini, nelle dinamiche interne la continua mobilitazione della società ucraina verso lo sforzo bellico continua a costituire il principale elemento di legittimazione e consenso politico. Senza quello della guerra, infatti, ben pochi sarebbero gli argomenti con cui Poroshenko – ed il governo Groisman – riuscirebbero a legittimarsi e guadagnarsi l’appoggio delle organizzazioni paramilitari apertamente neofasciste come “Corpo Nazionale”, “C-14”, “Svoboda”, “Karpatchka Sich”, “Pravij Sektor” .
In parallelo, se la violenza politica perpetrata da questi nei confronti di ogni dissenso si è rivelata assai proficua per Poroshenko ed affiliati, il fatto di aver permesso alle organizzazioni neofasciste di operare impunemente ha enormemente rafforzato queste ultime, facendo crescere in modo esponenziale il loro potere militare e politico. Con assidua frequenza si sono registrati attacchi ad opera dei gruppi neofascisti contro gli oppositori politici, contro le minoranze ebraiche, rom e contro le persone con un orientamento sessuale non tradizionale.
Le organizzazioni paramilitari neofasciste sono oggi giuridicamente parte dell’apparato ucraino, che sta perdendo il monopolio della violenza. il potere militare consente ai neofascisti di gestire insieme alla criminalità organizzata il contrabbando, il traffico d’armi e quello di stupefacenti. Il proliferare di gruppi, bande e milizie – spesso alle dirette dipendenze degli oligarchi locali – rischia di trascinare il paese verso una nuova fase della guerra civile.
Lo scorso ottobre nella regione di Chernigov – circa 150 chilometri a nord di Kiev – si sono nuovamente liberate fiamme ed esplosioni in un deposito di munizioni: le proporzioni dell’incendio che queste hanno prodotto hanno reso necessario sia la chiusura dello spazio aereo che il blocco del traffico stradale e ferroviario nel raggio di trenta chilometri nonché l’evacuazione di circa dodicimila persone.
L’incidente è solo l’ultimo di una lunga serie di episodi analoghi verificatisi a partire dal 2014. Sebbene non sia da escludere un sabotaggio, l’ipotesi più probabile è che incendi di questo genere nasconderebbero il traffico di armi, esplosivi e munizioni in cui sarebbero coinvolti alcuni ufficiali dell’esercito ucraino. In entrambi i casi, questi fatti evidenziano una situazione assai preoccupante per l’esercito ucraino. Secondo il procuratore militare Anatolij Matios, dall’inizio delle operazioni militari sul fronte del Donbass tra le forze armate di Kiev si sono registrati almeno 2700 morti in situazioni non connesse al combattimento: 615 suicidi, 891 morti in relazioni a motivi sanitari, 318 incidenti stradali, 175 avvelenamenti da alcool o stupefacenti, 177 incidenti, 172 morti connessi all’imperizia nell’uso delle armi e degli esplosivi, 101 morti connessi alla mancata osservanza delle norme di sicurezza e 228 omicidi: numeri che evidenziano una situazione assai complicata tra le fila delle forze armate ucraine nel quadro di una guerra che molti soldati sono, sin dal 2014, poco inclini a voler combattere.
Intanto l’agognato ingresso dell’Ucraina nelle fila dell’Alleanza Atlantica continua a procedere con difficoltà per la posizione dell’Ungheria, assai determinata a tutelare dalla spinta ultranazionalista di Kiev la minoranza magiara che vive nelle zone occidentali dell’Ucraina. Nonostante il dialogo tra Mosca e Washington, la presidenza Trump ha autorizzato per la prima volta una fornitura di armi alle forze armate di Kiev, la quale tuttavia sembra avere più un valore simbolico che una rilevanza concreta sul piano militare. In Ucraina continuano invece a svolgersi sistematicamente esercitazioni congiunte tra le forze armate locali e l’esercito statunitense: le manovre sembrano volte più a mettere alla prova i nervi della Federazione Russa – specie sul Mare d’Azov e sul resto della costa del Mar Nero – che a migliorare l’operatività militare congiunta di Kiev e di Washington.
Con il casus belli consumatosi il 25 novembre tra lo stretto di Kerch ed il Mare d’Azov dopo un’evidente provocazione ucraina, il presidente Poroshenko ha immediatamente firmato un decreto per l’istituzione della legge marziale, prontamente ratificato dal parlamento. Pur avendo chiamato alla mobilitazione generale, Poroshenko si è affrettato a specificare di non voler la guerra con Mosca. Con la legge marziale – attualmente in vigore in dieci regioni del paese per trenta giorni e rinnovabile (evidenziate in rosso nell’immagine) – Poroshenko avrà la possibilità di sigillare le frontiere, di censurare completamente i media, di istituire il coprifuoco, di obbligare al lavoro gratuito i lavoratori delle aziende strategiche, di vietare ogni sciopero, manifestazione o presidio di protesta, di liquidare ogni compagine politica a lui potenzialmente ostile e di sospendere referendum ed elezioni – previste per il marzo del 2019 – dalle quali uscirebbe quasi certamente sconfitto.
Non sorprende rilevare che tra la popolazione di molte delle regioni interessate dal provvedimento la russofonia è largamente diffusa, così come un senso comune lontano dall’Occidente: non a caso in molte di queste regioni si registrano i picchi minimi di consenso per l’attuale compagine presidenziale. Intanto, secondo alcune indiscrezioni, consapevole della probabile – se non certa – sconfitta elettorale, Poroshenko starebbe addirittura liquidando beni ed aziende di proprietà per preparare la propria fuga dall’Ucraina.
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