E’ stato ricordato in questi giorni il centenario dalla fondazione della III internazionale: occorre anche rammentare però come nel tempo l’espressione “marxismo della III internazionale” abbia assunto un significato negativo come sinonimo di rigido dogmatismo, di schematismo spinto all’estremo, di paralisi dello spirito critico.
La vulgata corrente di ricostruzione di quella vicenda sembra essere, infatti, legata allo scontro tra “rivoluzione mondiale” e “socialismo in un solo paese”: scelta quest’ultima dalla quale avrebbe avuto origine la fase di degenerazione nell’inveramento statuale della rivoluzione russa.
E’ il caso allora di contribuire alla ricostruzione di quella fase utilizzando quello “spirito critico” che rimane l’essenza stessa del marxismo e attraverso il cui esercizio può essere avanzata la possibilità di una sua riattualizzazione.
Riattualizzazione resa urgente in questa fase della modernità caratterizzata dall’intensificazione dello sfruttamento e dalla crescita esponenziale di complessi processi di disuguaglianza sociale a dimensione planetaria.
Se si vuole fornire un apporto in questa direzione ritenendolo utile al fine di comprendere la storia e di conseguenza la realtà, sarà allora opportuno enucleare e approfondire il dato di rappresentanza che la III internazionale aveva assunto come “primo grande esperimento d’interpretazione collettiva dei fenomeni del mondo” (Franco De Felice, Roma 1974).
Non si tratta allora di proclamare un impossibile ritorno alla dialettica originaria interna al movimento operaio internazionale all’epoca delle rivoluzioni ma – appunto – di recuperare il senso della” capacità di interpretare i fenomeni del mondo”.
Far questo potrà apparire del tutto fuori moda ma se si vuol comprendere bene la natura e la dinamica del portato storico che queste vicende hanno effettivamente avuto.
Non ci si può limitare, infatti, a un approccio sociologico – organizzativo ma appare necessario delineare le coordinate ideologiche entro cui si è situato lo sviluppo di quell’iniziativa politica.
E’ noto, ed è ormai ampiamente documentato, che nell’analisi delle forze costitutive del movimento comunista internazionale all’indomani della rivoluzione d’ottobre l’accento battesse fortemente sulla natura internazionale del processo rivoluzionario.
All’origine erano queste le radici di una visione di tipo essenzialmente internazionalista.
Era comune l’analisi, nonostante importanti differenze, per l’intera sinistra comunista nella II internazionale, a Lenin, come a Pannekoek, a Rosa Luxemburg come a Trockij: il capitalismo, giunto allo stadio monopolistico del suo sviluppo, non poteva non espandersi sempre di più in una dimensione mondiale e, per ciò stesso, dilatare i propri caratteri antagonistici dai rapporti di classe ai rapporti tra gli Stati.
Per certi versi, spostandoci per un momento sull’attualità, abbiamo vissuto analoga situazione all’inizio del XXI secolo con il movimento no-global, capace di annullare nel cosmopolitismo la contraddizione di classe, esaltando il movimento rispetto alla “forma – partito” senza esercitare fino in fondo la critica a un esistente nel quale si affermava egemonicamente la contro ideologia liberista.
Dal II congresso dell’IC, pur riaffermando l’obiettivo finalistico di lottare con tutti i mezzi per l’abbattimento della borghesia internazionale, l’accento si spostò verso l’idea generica della “subordinazione agli interessi proletari nazionali a quelli internazionali” e dell’“aiuto reciproco” interno al concetto di centralizzazione.
Il ruolo del Comintern si definì come quello di “organizzazione madre” chiamata a formulare e a programmare la strategia dell’intero movimento comunista e ad assegnare a ogni partito membro i compiti necessari a rafforzare la sua posizione nazionale e il ruolo più conveniente per promuovere lo sviluppo e il consolidamento del movimento internazionale (Gruber, New York 1972).
E’ a questo punto, e non prima, che il modello bolscevico del partito s’impose come punto di riferimento, tanto da essere proposto nei suoi vari gradini nello Statuto dell’Internazionale (Agosti, Roma, 1974).
Naturalmente la conseguenza più importante e più duratura di questa centralizzazione del “partito mondiale” fu la cosiddetta “russificazione” del Comintern, rimettendo in discussione proprio lo stesso concetto di “partito mondiale”.
Con il 1929 l’orizzonte internazionale divenne ancora più propizio al consolidarsi di questa visione fortemente unilaterale del processo rivoluzionario.
Dopo l’esplosione della crisi economica mondiale la concezione della costruzione del socialismo “in un paese solo” s’impose sempre più come teoria globale della rivoluzione mondiale.
Sullo sfondo di questa evoluzione la “via obliqua” (Pannekoek, Vienna 1920: definizione analoga a quella gramsciana della “Rivoluzione contro il Capitale”) attraverso la quale i bolscevichi avevano assunto il potere in Russia.
Una storia quella del Comintern che può tornare a essere studiata con profitto anche guardandoci attorno per riscoprire l’esprit che, in tempi di allargamento del peso sociale delle contraddizioni, l’analisi marxista può e deve ancora offrire.
Una cultura della critica politica rivolta in senso internazionalista, che si basi quindi sulla rielaborazione delle nozioni acquisite da tutte le correnti rivoluzionarie di un ‘900 che rimane ancora tutto da studiare, sule loro analisi e sul confronto tra le stesse allo scopo di recuperare il senso pieno della lotta per mantenere viva l’idea dell’“abolire lo stato di cose presenti”.
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