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Federalismo o secessione? Il caso della sanità

Era chiaro fin dalla notte dei tempi… La “riforma del Titolo V della Costituzione” che introduceva il principio della “legislazione concorrente” tra Stato centrale e Regioni, conteneva in sé il nucleo forte – costituzionalizzato – dell’”Autonomia differenziata”. Quindi della secessione di fatto, dello smembramento del paese in base alla ricchezza (temporaneamente) prodotta e disponibile.

Il “testo cornice” pensato per soddisfare le richieste dei presidenti di Regione leghisti (Zaia, Fontana, Fedriga) e di quello “democratico” dell’Emilia Romagna, Bonaccini, dovrebbe arrivare a giorni in Consiglio dei ministri per l’approvazione finale.

Punto essenziale per la dimensione delle risorse pubbliche investite per la salute dei cittadini, è proprio la sanità. Pesantemente privatizzata nelle Regioni che la stanno chiedendo.

Il che è semplicemente paradossale, perché questo avviene proprio nel momento in cui un’emergenza sanitaria internazionale sta dimostrando che questo “modello” localistico e privatistico è controindicato di fronte a un problema di queste dimensioni.

Per noi, e non solo per noi, non si tratta di una “sorpresa”.

L’analisi concettuale e istituzionale, e delle conseguenze per i servizi che interessano tuti i cittadini, era stata fatta già allora. Era tutto chiaro fin dalla notte dei tempi…

Qui, per dimostrarlo, ripubblichiamo l’articolo che Pasquale Cicalese, nel 2002, scrisse per la rivista La contraddizione *. Non c’era nulla che non si potesse equivocare. Pd (che fece approvare a maggioranza semplice quella “schiforma costituzionale”) e Lega sono in realtà lo stesso partito, i rappresentanti delle stesse classi sociali. Solo, con stile narrativo appena un po’ differente…

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Federalismo o secessione? Il caso della sanità

Pasquale Cicalese

A fronte delle modifiche costituzionali intervenute dopo il referendum sul federalismo dell’ottobre scorso e delle innovazioni legislative che danno maggiori e più esclusivi poteri alle regioni a statuto ordinario, contenute nel nuovo Titolo V della Costituzione, si può e si deve arrivare, dopo varie analisi dei dati riguardanti la materia del federalismo fiscale e della probabile e futura devolution, a una bocciatura drastica della riforma costituzionale e di tutto ciò che essa comporterà per il salario sociale di classe, in particolare riguardo ai ceti proletari delle grandi città e del mezzogiorno.

Il tutto deve essere inquadrato nell’impianto liberista e neocorporativo dei trattati di Maastricht e Amsterdam, soprattutto gli articoli riguardanti il principio di sussidiarietà e il patto di stabilità [come riferimento si veda anche il lavoro del gruppo emiliano di giuristi coordinato da Bersani (Luigi Mariucci, Roberto Bin, Giandomenico Falcon e altri, Il Federalismo preso sul serio, una proposta di riforma per l’Italia, Il Mulino, Bologna 1995), i cui dettami sono stati in gran parte recepiti nella riforma costituzionale del citato Titolo V della Costituzione – cfr. anche Le vie del neocorporativismo, in la Contraddizione, no.58, febbraio 1997].

Si vedrà come queste filosofie giuridiche ed economiche investano fino in fondo diritti costituzionali a difesa dei lavoratori e come esse si dispieghino in vari impianti legislativi nazionali e regionali volti allo smantellamento del salario sociale di classe e alla riproduzione dell’esercito industriale di riserva.

Come esempio di questo ennesimo attacco alle condizioni di vita dei lavoratori pongo all’attenzione il mezzogiorno, la Calabria in particolare, in rapporto con una regione del nord come la Lombardia ed in relazione alla riforma costituzionale in senso federalistico con l’introduzione nell’ordinamento del principio di sussidiarietà [per un’analisi del principio di sussidiarietà si veda la Contraddizione, no.34; sul neocorporativismo la raccolta di scritti, attualissimi, di G. Ciabatti, Il neocorporativismo, Laboratorio politico, Napoli 1995].

La Svimez [Italia Oggi, 2 aprile 2001] arriva ad ipotizzare “una discriminazione tra i cittadini” per una serie di motivi che andremo più avanti ad analizzare. A partire da queste considerazioni, i motivi della bocciatura sono molti e coinvolgono tutti i settori.

Mi limito, al di là dei paroloni che in questi anni sia da parte del centro-sinistra che del centro-destra hanno incensato una supposta maggiore vicinanza dei governi locali ai cittadini, ad informare, a seguito di leg­gi e modifiche di norme costituzionali, di quel che ci si prepara in uno dei settori più delicati della vita pubblica, quello della sanità e della tutela della salute pubblica ( il campo di applicazione potrebbe essere la scuola, l’università, i servizi sociali, ecc.). Questo è il settore dove con più forza si è applicato il motto “più stato per il mercato”.

Basti dire che l’Italia è il decimo paese dell’Ue per incidenza della spesa sanitaria sul Pil (meno del 6%) ma è il primo nel rapporto tra spesa sanitaria privata e pubblica: dei 169 mmrd £, spesi nel 2000 per consumi sanitari il 25% è riferibile al settore privato (il Sole 24 ore, 23.1.2002).

Già nel 1999 il governo di centro-sinistra aveva dato una spallata decisiva al sistema sanitario nazionale, nato dopo la riforma del 1978, poiché emanava una legge, che ai più non risultava determinante, ma che invece apportava delle modifiche sostanziali al diritto alla salute dei cittadini, così come è previsto dalla Costituzione repubblicana del 1948. Si tratta della legge 133/1999 – Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale dove all’articolo 10, riguardante la sanità, si disponeva la soppressione dei trasferimenti statali nella spesa sanitaria corrente sostituiti da nuove entrate regionali: essi comprendono il trasferimento alle regioni del 20% (successivamente 25%) dell’Iva prodotta nella varie regioni, una maggiore compartecipazione all’accisa sulla benzina e un aumento dell’aliquota addizionale regionale.

È esattamente ciò che nel lontano 1994 la fondazione Agnelli prevedeva come nuovo assetto statuale. Nello stesso tempo, per far fronte alle disparità socio-economiche – enormi – tra le regioni del nord e quelle del sud era previsto, nelle somme derivanti dalla compartecipazione regionale all’Iva, un fondo perequativo nazionale di tipo solidaristico finalizzato alle regioni più povere in modo che si garantissero livelli di assistenza sanitaria “essenziali e uniformi a livello nazionale”.

Questa legge fu esaltata dal governo di centro-sinistra come una vera risposta alle esigenze dei cittadini stufi del centralismo e della burocrazia “romana” e una legge che dava potere alle regioni che meglio di altre conoscono il loro territorio.

L’impianto del federalismo fiscale risale al Dpef 1999-2001 il quale prevedeva l’accelerazione del processo di decentramento fiscale volto a riallineare le responsabilità in ordine al prelievo fiscale con quelle relative all’erogazio­ne della spesa [cfr Nerina Dirindin, Gli obiettivi del decentramento fiscale, in Salute e territorio, n. 129/2001]. Agli elettori e ai lavoratori in genere, specie del mezzogiorno, si occultava, però, che la quota-parte delle regioni forti del nord nel fondo perequativo nazionale, a partire dal 2001, veniva diminuita del 5% ogni anno fino al 2004; a partire da quell’anno veniva decurtato del 9% annuo fino a scomparire nel 2013. Dal 2013 le regioni meridionali a statuto ordinario avrebbero dovuto autofinanziare completamente il sistema sanitario regionale visto che i trasferimenti erariali, già soppressi dal 2001, non sarebbero stati più compensati da quote-parti delle regioni economicamente più forti.

Con il decreto legislativo 56/2000 si dava attuazione alle disposizioni del famigerato articolo 10 della Legge 133/1999, che comportava l’abolizione del fondo sanitario nazionale. La novità era che con questa legge fino al 2004 è in vigore un vincolo di destinazione nella spesa sanitaria, secondo cui le regioni devono effettivamente spendere le somme trasferite per la sanità. Dal 2004, tale vincolo è rimosso per le regioni che abbiano attivato procedure di monitoraggio, verifica e garanzia dell’assistenza sanitaria. Gli eventuali risparmi resteranno a carico delle regioni che li generano, a patto che i livelli essenziali e uniformi siano garantiti. In più l’importo della compartecipazione regionale all’Iva è ripartito tra le regioni utilizzando come indicatore di base imponibile la media dei consumi finali delle famiglie rilevati dall’Istat a livello regionale negli ultimi tre anni disponibili.

Sul piano sanitario il federalismo fiscale venne formalizzato con la legge 229/1999, nota come “riforma Bindi” che, sull’onda del costruendo federalismo, assegnava poteri enormi alle regioni, in ambito di programmazione, gestione e razionalizzazione della spesa sanitaria e farmaceutica, accentuando altresì, in nome di una supposta superiorità tecnico-gestionale dei manager, il ruolo dei direttori generali che, sappiamo bene, sono di nomina della giunta regionale. Questi ultimi aspetti sono successivamente ribaditi con alcuni decreti dal governo Amato e dal ministro Veronesi. Bontà loro, avevano lasciato inalterato l’obbligo di servizi essenziali uniformi a livello nazionale in materia di sanità. Questo impianto legislativo è stato poi formalizzato nella l.cost.3/2001, successivamente sottoposta a referendum il 7 ottobre 2001, che stabilisce all’art. 3, che riforma il dettato costituzionale 117, tra le altre cose, la potestà legislativa regionale in materia di tutela della salute, una norma anticostituzionale di fatto, perché viola la prima parte della Costituzione, specie l’articolo 3 in tema di uguaglianza e l’articolo 32 riguardante la tutela della salute.

Infine nell’agosto del 2001 c’è stato un incontro tra il nuovo governo centrale e i presidenti delle regioni che hanno sottoscritto un patto di stabilità volto a razionalizzare la spesa sanitaria, ripianare i debiti pregressi delle regioni nel settore sanitario, stabilendo un nuovo piano di programmazione triennale da tutti considerato di buon auspicio. Con quest’accordo si modifica l’art. 4 della riforma Bindi attribuendo alle regioni la piena potestà di istituire aziende ospedaliere e stabilendo la piena autonomia alle regioni in materia di sperimentazioni gestionali. Ciò significa che con la piena autonomia si ha la possibilità di ottenere a prezzi inferiori, appaltandoli all’esterno, i servizi imposti dal Lea (i cosiddetti livelli essenziali di assistenza).

Da qui roboanti dichiarazioni, così come era successo con il centro-sinistra, circa un consistente aumento delle spese per fronteggiare l’emergenza sanitaria, per modernizzare le Asl e, miracolo, diminuire i tempi delle liste d’attesa. Il tutto esaltando il nuovo ruolo delle regioni, dichiarando inoltre che il federalismo del centro-sinistra è stato troppo timido e che bisogna avviarsi verso la devolution, sempre per soddisfare a livello territoriale e regionale le esigenze dei cittadini tartassati dallo stato e a cui non vengono garantiti i servizi dovuti.

Come si è potuto constatare, in questi anni c’è stata una rincorsa dei vari schieramenti a dichiararsi, uno più dell’altro, “federalisti”. Nell’ultimo decennio è stato un delirante salto del fosso di esponenti di tutti gli schieramenti, che affermavano d’essere sempre stati federalisti. Persino i cosiddetti “governatori” delle regioni meridionali usavano toni trionfalistici con le varie leggi federalistiche, specie dopo che era stata riformata la legge sull’elezione diretta del presidente della giunta regionale, sulla scia di quella riguardanti i sindaci. Nessuno però spiegava agli elettori le vere finalità e le conseguenze di queste innovazioni ed erano tutti propensi a dichiarare che – finalmente! – le cose sarebbero andate meglio, da Bassolino a Chiaravalloti ecc.

Proviamo ad immaginare, in soldoni e alla luce dei “brillanti” traguardi conseguiti dalle varie giunte regionali meridionali negli ultimi trent’anni cosa significhi esattamente, per i meridionali e gli italiani tutti, la regionalizzazione del sistema sanitario, stante in ogni caso la definizione a livello nazionale dei livelli essenziali ed uniformi delle prestazioni sanitarie. Dunque le regioni avranno compartecipazioni sull’Iva, sull’Irpef e sull’acci­sa della benzina per po­ter finanziare il proprio sistema sanitario, oltre che entrate proprie come l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive). Di certo è una rivoluzione, ma con pessime ripercussioni sulle condizioni di vita dei lavoratori e dei disoccupati del mezzogiorno e della aree metropolitane e questo per vari motivi:

– se la compartecipazione all’Iva è regionalizzata si cristallizzano le disugua­glianze territoriali stante il fatto che i consumi e la produzione medi pro capite delle regioni meridionali sono molto inferiori a quelli settentrionali, visto gli altissimi livelli di disoccupazione, lavoro sommerso e il sempre più forte tasso di emigrazione [ad esempio, secondo i primi risultati del censimento 2001, la provincia di Crotone ha visto diminuire la popolazione nell’ultimo decennio del 9%, esclusa la massa dei lavoratori stagionali, specie giovani, che si trasferiscono al nord per 6-8 mesi a seguito di lavori nell’edilizia, per contratti di lavoro a tempo determinato, ecc. ma che lasciano la propria residenza al meridione. In soldoni ciò significa che è ritornato alla grande il fenomeno dell’emigrazione, a seguito della chiusura di tutte le fabbriche. I fuochi del 1993 possiamo definirli come il canto del cigno del movimento operaio crotonese]; in ogni caso la compartecipazione all’Iva colpisce tutti i soggetti, al di là delle differenze di reddito;

– la compartecipazione dell’addizionale regionale Irpef e la possibilità di au­mentarlo, com’è avvenuto negli ultimi anni, non fa altro che rispecchiare le disparità socio-economiche del paese visto che nel sud la base imponibile è fortemente minore perché vi è la più alta incidenza di famiglie mono-reddito, di lavoro nero, lavoro sommerso ed evasione contributiva da parte delle imprese [come afferma Italia Oggi (2.4.2002), “se si calcola l’imponibile medio per abi­tante, anziché per contribuente, cioè si tiene conto della quota di contribuenti Irpef rispetto alla popolazione, al primo posto troviamo Bologna (12.800 €) mentre Crotone (3.600) arriva ultima … Sulla dimensione di questo rapporto, infatti, incidono la quota di popolazione che non lavora, quella a basso reddito che non paga l’imposta e il numero degli evasori. In sostanza per ogni 100 contribuenti che pagano l’Irpef, 35 non la pagano a Bologna, 76 a Roma, 221 a Crotone”]. Si tenga conto che l’autonomia tributaria (vale a dire entrate proprie rispetto al totale delle entrate) delle regioni del sud non supera il 40% contro circa l’80% della regione Lombardia;

– l’aumento della compartecipazione all’accisa sulla benzina, ancora una vol­ta, rispecchia questo storico squilibrio visto che il consumo di benzina è funzionale alle possibilità non solo dei redditi personali ma del­l’ampiezza e sviluppo dei settori produttivi pubblici o privati, soprattutto per motivi di trasporto delle merci. Ha forse il mezzogiorno la stessa struttura produttiva del nord? Anche qui la riscossione è fissa, cioè non tiene conto della progressività dei redditi, è, insomma, un’imposta indiretta.

La riforma fiscale di Tremonti non farebbe altro che mettere l’ultimo tassello ad un quadro economico che negli ultimi dieci anni, a seguito dell’entrata in vigore del trattato di Maastricht, ha visto lo smantellamento del principio della progressività dei redditi [vedi la Dit di Visco ampiamente analizzata in alcuni numeri della Contraddizione]. Assieme alla leva monetaria deflattiva, la politica fiscale, forse più della stessa politica del lavoro, si conferma come una strategica funzione riproduttiva dell’esercito industriale di riserva nel meridione d’Italia e nelle grandi aree metropolitane; infine l’Irap è di ardua riscossione, visto l’e­norme sommerso delle attività produttive nel mezzogiorno.

Certo, si afferma, il minor gettito derivante dalla fine dei trasferimenti erariali, sarà compensato dal fondo perequativo nazionale. Si dimentica di ricordare che esso, a partire da quest’anno, sarà decurtato progressivamente del 5% fino al 2003 e del 9% dal 2004 fino alla totale soppressione nel 2013, venendo meno, sempre più, i principi di eguaglianza, solidarietà ed universalità del diritto alla salute.

Lo stesso fondo nazionale perequativo è stabilito in funzione dei Lea, decisi a livello nazionale e vincolanti per tutte le regioni. Si era stabilito che i Lea fossero uniformi a livello nazionale, ma l’ondata “devolu­trice” bossiana, non accontentandosi dei disastri del centro-sinistra, ha abrogato con la legge Sirchia 405/ 2001 del novembre scorso, l’uniformità delle prestazioni a livello nazionale, stabilendo, di fatto, una gerarchizzazione territoriale del diritto alla salute. Si tenga conto che alcune prestazioni, come l’assistenza ai portatori di handicap, ai tossicodipendenti e ai disabili sono delegati, tramite la legge 68/99 (legge sui disabili) e soprattutto la 328/2000 (legge Turco sui servizi socio-sanitari), alle regioni e agli enti locali tramite fondi nazionali perequativi che via via saranno smantellati.

Le autonomie locali, già oggi, fanno un massiccio ricorso alle ester­nalizzazioni di questi servizi socio-sanitari. Si conferma in pieno, in tal modo, il binomio indissolubile tra federalismo e privatizzazioni, frutto delle politiche di smantellamento del salario sociale di classe inaugurate con il governo Amato del 1992 a seguito del trattato di Maastricht.

Una volta garantiti i “livelli essenziali” – leggi: minimi – le regioni più ricche non avrebbero più alcun “dovere” di solidarietà d’adempiere e potrebbero in qualche modo ostacolare interventi di riduzione delle proprie entrate fiscali a vantaggio di altre regioni. Si profila nei prossimi anni uno scontro sempre più ampio e visibile tra le regioni del nord e quelle del sud. Infatti, fissati a 10 i livelli di assistenza essenziali delle prestazioni, che ci si trovi a 10 o a 100 non farebbe differenza: lo stato non avrebbe obblighi.

In forza di ciò il ministro della sanità, Sirchia, il 23 febbraio 2002 ha stabilito i nuovi Lea, e regioni quali la Sicilia e la Campania hanno chiesto il blocco e la proroga al 31 maggio dell’entrata in vigore di tali Lea. All’origine della richiesta, i gravi problemi che, secondo i consiglieri regionali siciliani e campani, l’adozione immediata dei Lea comporterebbe: si teme, infatti, l’esclusione dall’assistenza pubblica di diverse prestazioni che potrebbe causare ripercussioni occupazionali e difficoltà per le fasce sociali deboli: “molte delle prestazioni totalmente o parzialmente escluse – come quelle di medicina fisica e riabilitativa ambulatoriale – sono rivolte a soggetti deboli, prevalentemente anziani o disagiati che più di altri hanno bisogno di livelli di assistenza adeguati” [Il Mattino, 12 marzo 2002].

Oltre a questi motivi, possiamo aggiungere il progressivo diminuire delle somme derivanti dal fondo perequativo. Le regioni del sud, a fronte di pesanti deficit potrebbero decidere di decurtare i livelli essenziali. In più, con il patto di stabilità in materia sanitaria voluto da Sirchia e Tremonti lo scorso agosto, le regioni che sforeranno il tetto di spesa, spendendo per la sanità più di quanto previsto dal governo, potranno rifarsi con l’aumento delle tasse locali e con i ticket. Dal 2002, infatti, lo stato non tapperà più i buchi di bilancio delle regioni e questi ultimi dovranno pagarsi da soli i deficit, ricorrendo a un ulteriore aumento dell’addizionale Irpef o a altre misure fiscali o accedendo a mutui, così come sta già succedendo, per ripagare i debiti pregressi. Ciò significa tartassare, a livello regionale, i lavoratori con minor standard qualitativi rispetto al passato. Una vera e propria secessione di fatto.

In ultimo, la finanziaria 2002 ha stabilito una progressiva trasformazione delle aziende sanitarie in spa o fondazioni e il ruolo preminente della fondazioni bancarie (tutte aventi sede al centro-nord visto che il sistema creditizio meridionale è stato inglobato da banche del centro-nord) nei finanziamenti a centri di eccellenza ospedaliere. Si attua in tal modo una direttiva ministeriale del 1994 voluta dal Giuliano Amato che attribuisce agli enti fondazioni bancarie funzioni di erogazione di risorse a scopi di assistenza e beneficenza nel settore no profit e nel settore socio-sanitario.

Nei prossimi mesi, inoltre, è prevista una nuova legge del ministro Sirchia che provocherà forti precarietà lavorativi per i neo-assunti nel campo sanitario visto che le Asl potranno assumere nei prossimi anni, sul totale del personale necessario, fino al 30% di lavoratori con contratti di collaborazione coordinata e continuativa, meglio noti, in aziende quali i call center, come co.co.co., vale a dire il ritorno del cottimo nelle stesse strutture pubbliche. I neo-assunti avranno un contratto a 5 anni, al termine dei quali saranno valutati dai dirigenti e dai direttori generali e solo allora potranno essere assunti in piena regola e accedere alla dirigenza …

È insomma un’accelerazione del processo marxiano di liquidità della forza-lavoro anche negli stessi apparati pubblici. Federalisti e devolutori, da Bassanini a Bossi, sono dell’idea che è giusto che le regioni pensino a se stesse e che gestiscano autonomamente vari settori. Ci chiediamo: è il diritto al­la salute, garantito costituzionalmente, una rivendicazione assistenzialistica, ed è giusto che debba essere regionalizzata, creando 21 sistemi sanitari regionali?

Inoltre, è poi vero che dando maggiore risorse alla Lombardia questa regione avrà standard qualitativi molto maggiori, stante il fatto che non dovrà più pagare a “Roma ladrona” vari tributi? Uno dei campioni del federalismo spinto è proprio il presidente della giunta lombarda, Formigoni: si è insediato nel 1995 avendo un buco della sanità di circa 300 miliardi £. Eppure, nonostante fortissime esternalizzazioni e razionalizzazioni della spesa sanitaria lombarda, si ritrova un debito di migliaia di miliardi di lire.

Un esempio lampante è ciò che è successo negli scorsi anni: l’incremento della spesa dal 1995 al 1997 è del 17,38% (mentre l’in­cremento del fondo sanitario regionale è stato del 9,5 %); il finanziamento alle strutture pubbliche (Asl e Ao) ha avuto un incremento del 13,68% mentre gli erogatori privati (Irccs privati, case di cura) di assistenza ospedaliera ed ambulatoriale hanno avuto un flusso finanziario maggiorato del 40% (significativo l’incre­mento per le Case di cura: 62,2%). Il disavanzo del 1995 era di 298 mrd £, nel 1997 sale a 1489 mrd (nel 1996 era 835 mrd).

Nel periodo ‘95-97, l’assetto strutturale dell’offerta ospedaliera subisce le seguenti modifiche: i posti letto ordinari diminuiscono dell’1,9%, i posti letto pubblici decrementano dell’8,4%, quelli delle strutture private aumentano del 7,25%; le quote (numero posti letto ordinari) pubblico/privato mutano dal­l’80/20 del 1995 al 75/25 del ‘97 (nel 1998 è stimato il rapporto 73/27).

L’incre­mento della quota privata è da ascrivere quasi totalmente alle case di cura accreditate (+2000 posti letto, +33%) [cfr. relazione di Alfo Gazzetti (Medicina democratica) al convegno La sanità a Milano e in Lombardia stretta tra pubblico e privato: verso quale direzione ed approdo dopo la legge regionale n. 31/ 3.6.1999, reperibile al sito internet di Medicina democratica].

Le ultime notizie sulla sanità italiana affermano che nel 2001 la Lombardia aveva un disavanzo di 223 mila € (24 € pro capite), la Campania 247 mila € (42 € pro capite), la Calabria 127 mila € (62 € pro capite), la Sardegna 166 mila € (100 € pro capite), il Lazio 857 mila € (ben 161 € pro capite di debito) [il Sole 24 ore, 16.3.2002].

Al 1999 in Lombardia risultavano 36.808 posti letto pubblici a fronte di 8.333 posti letto accreditati. In Calabria su 5.813 posti letto pubblici vi sono 3.356 posti letto accreditati. Con le nuove disposizioni in materia di federalismo fiscale, la Lombardia ha entrate maggiori del 26% in materia sanitaria (mentre alcuni studi per la Calabria parlano di minori trasferimenti in materia sanitaria di circa il 46% … da qui al 2013), ma il Piano sanitario regionale presentato nelle settimane scorse prevede, tra le altre cose, che consultori e assistenza ai tossicodipendenti siano esternalizzati ai privati.

Negli ospedali saranno tagliati 5.400 posti letto (da 5 a 4 per mille posti letto per abitanti), senza specificare se la sforbiciata coinvolgerà anche le strutture private convenzionate. La regione Lombardia garantirà i livelli assistenziali “minimi”, quel che eccede sarà coperto da assicurazioni e fondi integrativi (previsti già dalla riforma Bindi), ovviamente obbligatori per anziani, malati cronici, soggetti a rischio [questo è uno dei motivi delle battaglie finanziarie che stanno coinvolgendo le assicurazioni finalizzate alla concentrazione e alla centralizzazione di questo settore, vedi la vicenda Fondiaria]. Un altro metodo sarà l’appli­cazione anche nella sanità lombarda di una buono-sanità, così come c’è stato nel sistema scolastico. Infine accresce, con le fondazioni ospedaliere, il ruolo dei privati nel sistema sanitario regionale [Il Giornale, 14.3.2002].

Ci chiediamo: perché chiamare “federalismo” ciò che sostanzialmente significa privatizzazione di servizi pubblici primari per l’importanza che rivestono? Un’altra questione, con la riforma federalista, è l’assenza di controlli, vista la potestà legislativa concorrente e/o esclusiva delle regioni in molte materie, non ultima la sanità. In pratica: chi controlla i controllori?.

Per quanto riguarda la Calabria secondo la Corte dei Conti regionale, in merito alla riforma dello Statuto regionale, “manca qualsiasi previsione di un controllo, anche solo sulla gestione, affidato ad un organo in posizione di imparzialità, di neutralità, di terzietà. Quali solo la Corte dei Conti da sempre è in grado di offrire” [Relazione annuale 2002]. Questa regione, così lontana dalle esigenze dei lavoratori, secondo l’ultimo Conto consuntivo reso pubblico il 4 dicembre scorso sul bollettino ufficiale riferito al 1999, ha residui attivi, vale a dire entrate non riscosse per 6,5mila miliardi di lire (circa 3,3 miliardi di euro, ma bisogna anche tener conto dell’inflazioni di quasi venti anni, ndr), e residui passivi, spese impegnate ma non effettuate per circa 2.000 miliardi di lire, la maggior parte derivanti da trasferimenti statali. Se si riscuotessero anche la metà dei residui attivi e si spendesse la metà dei residui passivi il tenore di vita delle popolazioni calabresi aumenterebbe di molto e la disoccupazione sarebbe molto inferiore. Ciò non succede e per vari motivi, alcuni legati alla riproduzione di una borghesia di stato parassitaria e clientelare.

Il dubbio circa il ruolo delle regioni meridionali, se non da un amaro scetticismo, deriva dal ruolo storico che esse hanno avuto nelle materie di loro competenza, che negli ultimi anni si sono ampliati a dismisura e che, con la riforma costituzionale federalista, avranno addirittura potestà legislativa in molti settori. Diciamocelo francamente: la scandalosa, ipertrofica e tragica inoperosità, unita ad una gestione politico-clientelare della cosa pubblica, della classe dirigente meridionale è storicamente uno dei maggiori impedimenti ad un equilibrato svi­luppo del territorio, a partire dai servizi pubblici che costituiscono una pre-con­dizione di base per più decenti standard di qualità della vita.

La sanità, da decenni, costituisce, per le nomine dirigenziali di ogni colore politico, un “mercato delle vacche”: ad ogni cambio di giunta prontamente si cambiano i direttori generali scegliendone altri secondo criteri che non certo si basano su curricula manageriali di tutto rispetto, ma di appartenenza politica con relativi e brillanti consulenti esterni. Ciò ha provocato un continuo degrado della sanità, la fuga di cervelli, l’u­miliazione professionale di parte del personale medico e paramedico e la creazione di baronie che “tappano” le professionalità emergenti, costrette ad emigrare.

Come in altri, anche in questo settore storicamente si è riprodotta una borghesia parassitaria di stato che funge da cinghia di trasmissione alle politiche neocorporative nazionali ed europee finalizzate al taglio del salario globale di classe e alla creazione dell’esercito industria­le di riserva, per non parlare dei rapporti con il mondo farmaceutico.

In generale i manager della sanità, generale – amministrativo e sanitario – guadagnano più al sud. Si sono aumentati lo stipendio a seguito del Dcpm 319 (7.10 2001) fissandolo al tetto massimo di 154 mila euro aumentabili del 20% in base ai risultati raggiunti (50% in più); per i direttori sanitari e amministrativi lo stipendio sarà l’80% di quello dei direttori generali (123,950 €). È un contratto di diritto privato [il Sole 24 Ore, 11.2.2002]. In ampie parti del mezzogiorno molti ospedali presentano gravi carenze in materia di igiene e sicurezza, i livelli di diritto alla salute sono talmente bassi che hanno provocato un aumento del­l’emigrazione sanitaria verso altre regioni. In Calabria ogni anno 45 mila pazienti emigrano nelle altre regioni per motivi sanitari [Il quotidiano, 10.2.2002].

Questa vera e propria “classe” si riproduce secondo meccanismi clientelari e mafiosi attingendo, secondo i dettami di Maastricht ripresi dalla legislazione nazionale (soprattutto la 59/1997 e la 112/1998, fulcro e del federalismo amministrativo e fiscale e del ruolo sempre più marcato delle fasce dirigenziali voluto da Bassanini) ai principi di autonomia, responsabilità, efficacia ed efficienza: è un modo per dire che manca qualsiasi controllo. Infatti l’impianto legislativo della riforma Bindi si innesca in questi processi in merito a: individuazione delle competenze ed attribuzione di responsabilità reali; autonomia di gestione dei dirigenti; valutazione del grado di efficienza raggiunto attraverso un sistema che colleghi le risorse impiegate con i risultati conseguiti, posto che il valutatore debba avere competenze ad hoc.

Ciò riflette in pieno la filosofia giuridico-economica della legislazione “bas­saniniana”, fulcro del federalismo fiscale, mediante il decisivo apporto del principio di sussidiarietà, introdotto già con i governi Amato e Ciampi del ’92-93. Inoltre la legge 382 del 1996 all’art. 5 dispone che “le regioni … provvedono a ristrutturare la rete ospedaliera prevedendo l’utilizzazione dei posti letto ad un tasso non inferiore al 75% in media annua ed adottando lo standard di dotazione media di 5,5 posti letto per mille abitanti … con un tasso di ospedalizzazione del 160 per mille abitanti”.

Sono quindi tre i parametri di riferimento che connotano una rete ospedaliera ritenuta “legittima”: i. la dotazione regionale dei posti letto complessivi esistenti deve essere pari a 5,5 per mille abitanti, riformato con decreto Sirchia del novembre scorso a 4 per mille abitanti, vale a dire una riduzione dei parametri dei posti letto del 25%, con piena discrezione se tagliare posti letto pubblici o privati; ii. l’utilizzazione dei posti è stabilito ad un tasso non inferiore al 75%; iii. il numero dei ricoveri (tasso di ospedalizzazione) deve essere pari a 160 per mille abitanti.

Infine, come già detto, per il ministro della sanità Sirchia il limite di 5 posti letto per mille abitanti è diminuito a 4 per mille. Sirchia, in ultimo, ha abrogato le norme del rapporto di esclusività dei medici con le strutture pubbliche, annullando l’obbligo dell’eventuale intra-moenia. È un ritorno all’impostazione li­berista della riforma De Lorenzo e la vittoria della lobby dei primari e delle baronie sanitarie. I medici possono scegliere tra un rapporto a tempo pieno e il part time, cade l’esclusiva e si torna alla libera professione senza regolamentazione aziendale da esercitare negli studi privati e nelle strutture non accreditate.

Ma anche questo è oggetto di scontro con le regioni: ad esempio per Vasco Errani, presidente della conferenza delle regioni, questo provvedimento rappresenta un invasione di campo delle nuove competenze costituzionali in materia di sanità [I.O., 4.4.2002]. Per Rosy Bindi è “un intollerabile ritorno al passato” (sic!), per Livia Turco è “una riforma confusa, inaccettabile e immorale”(sic!!) [il Sole 24 ore, 4.4.2002], ma questa impostazione liberista non è altro che la realizzazione della promessa elettorale della “casa delle libertà” alla lobby medica racchiusa nel Cimo, nel Coas, e nella Femi, oltre che in altre sigle associative e sindacali. È il naturale compimento allo smantellamento dei principi di universalità, solidarietà e gratuità della tutela della salute, a cui ha contribuito in gran parte la destra tecnocratica e sussidiaria rappresentata dall’Ulivo.

Ecco come il trattato di Maastricht si è dispiegato in modo pervasivo nelle strategie dell’ultimo decennio finalizzate, secondo dettami neocorporativi e basati sul principio di sussidiarietà, al taglio del salario sociale: gli articoli 3 comma b (sussidiarietà) e 105 (tetto d’inflazione europeo massimo al 2%) di questo trattato e il patto di stabilità del trattato di Amsterdam continuano ad avere pesanti effetti deleteri sulla condizione di vita dei lavoratori italiani ed europei, col suo assetto neocorporativo e liberista.

Questo è il contesto dello smantellamento del salario sociale di classe e della riproduzione dell’esercito industriale di riserva visto da un territorio marginale del mezzogiorno. Il contesto reale dell’“Agenda 2000-2006”, ma in fondo questo posto non è poi molto lontano da Maastricht, da Amsterdam o da Nizza …

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