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Il MIR cileno: bilancio essenziale

Sebbene non abbia militato nel Movimento della Sinistra Rivoluzionaria del Cile (MIR), ho sempre avuto grande rispetto e non poca ammirazione per i miristi, specialmente per figure come Miguel Enríquez, Bautista Von Schouwen, Luciano Cruz e Lumi Videla.

Pur non essendo stato un mirista, in più di un’occasione ho condiviso con loro imprese comuni, trionfi, speranze, dolori, sconfitte e frustrazioni. Faccio parte della generazione che è stata testimone e protagonista dei processi incarnati da questi leader e da migliaia di giovani rivoluzionari cileni degli anni ’60 e ’70 del XX secolo.

Come militante della sinistra rivoluzionaria dell’epoca, anche come storico e cittadino dei tempi attuali, ho un giudizio sulla storia del MIR già espresso in più occasioni e che condivido nuovamente in occasione di un nuovo anniversario della morte di Miguel Enríquez.

Poiché sappiamo che la visione e i sentimenti del cittadino tendono inevitabilmente a permeare il giudizio dello storico e, proprio perché sono tra coloro che pensano che non esista una storia neutrale, sono consapevole che il mio piccolo e marginale ruolo di osservatore e compagno di percorso in alcuni passaggi della storia del MIR, bagna le mie valutazioni e giudizi storici.

Tuttavia, la mia qualità di storico e di cittadino mi obbliga ad esercitare un giudizio critico sugli attori della storia, anche quelli che ci sono vicini o per i quali proviamo rispetto e ammirazione.

Riflettendo sulla traiettoria storica di Miguel Enríquez e del MIR cileno (dico entrambi poiché non è possibile fare riferimento all’uno senza parlare dell’altro), sorgono tre grandi interrogativi che vorrei condividere con voi. Tre domande in cui si può sintetizzare il bilancio storico essenziale riguardante questi attori.

In primo luogo, cosa hanno rappresentato storicamente Miguel Enríquez e la generazione ribelle degli anni ’60 e ’70 del XX secolo? Sembra poi opportuno interrogarsi sui successi e sugli errori di questi dirigenti e militanti.

Infine, è necessario considerare quali sono gli elementi salvabili di quelle esperienze nella prospettiva delle lotte libertarie del presente e del futuro.

Sebbene ognuno di questi problemi possa essere oggetto di lunghi dibattiti, in parte già svolti, in parte pendenti, colgo l’occasione che mi è stata offerta per fare alcune proposte esplorative, per “galoppare su questi temi”, come soleva dire lo stesso Miguel.

Il primo interrogativo è, forse, il più facile a cui rispondere. Con la prospettiva che consente lo scorrere del tempo, oltre al fatto che alcuni processi storici siano giunti al culmine, non c’è dubbio che la generazione rivoluzionaria degli anni ’60 e ’70, quella che si è nucleata attorno al MIR e ad altre organizzazioni della sinistra rivoluzionaria, abbia rappresentato il tentativo il più decantato nella storia del Cile di “assalto al cielo”, cioè di conquistare il potere per un progetto socialista rivoluzionario incentrato sull’ottenimento della giustizia e dell’uguaglianza sociale.

Ha avuto il privilegio di agire in un momento chiave della storia, quando una rara confluenza di fattori a lungo e breve termine ha posto allordine del giorno, all’interno del già secolare movimento popolare cileno, la questione dell’accesso al potere.

L’emergere di questa generazione rivoluzionaria è stato possibile grazie a numerosi fattori derivati ​​dalla crisi permanente della società cilena, a partire dall’esaurimento del modello di sostituzione delle importazioni attraverso l’industrializzazione indotta dallo Stato e il fallimento di varie esperienze politiche – dai governi radicali alla “Rivoluzione in Libertà ”, passando per il populismo ibañista della “Rivoluzione della scopa” e della “Rivoluzione dei dirigenti” della destra di Alessandri – che hanno generato un atteggiamento di disponibilità politica a realizzare mutamenti sociali più profondi in ampi settori del mondo popolare e delle classi medie, in particolare, studenti e intellettuali.

A ciò si sono aggiunti il ​​profondo impatto della Rivoluzione Cubana, il dissenso cinese rispetto al Vaticano ideologico rappresentato da Mosca all’interno del movimento comunista internazionale e le rivoluzioni anticoloniali che si sono moltiplicate dalla fine della Seconda Guerra Mondiale e, in particolare, durante gli anni 60.

Tutti questi eventi hanno messo la rivoluzione “all’ordine del giorno” sulla scena internazionale. Ma si trattava di una rivoluzione che non sarebbe più stata la semplice espansione geopolitica del cosiddetto “campo socialista” sotto la protezione della potenza militare sovietica, come era avvenuto nella maggior parte dei paesi dell’Est europeo durante la seconda metà degli anni Quaranta, ma di un autentica rivoluzione dalle basi popolari, una rivoluzione secondo i canoni classici del marxismo che la generazione rivoluzionaria cilena e latinoamericana degli anni ’60 e ’70 ha cercato di riprendere.

Ciò significava una rottura di grandi proporzioni rispetto alle concezioni e alle pratiche parlamentari e legalistiche della sinistra che, nel caso del nostro Paese, si erano andate sviluppando – non senza alti e bassi – dalla metà degli anni 30. [1]

Sintetizzando, potremmo dire che l’impresa guidata da Miguel Enríquez consisteva nel tentare, sulla base di audacia, coraggio, grinta, decisione, intelligenza e sacrificio, la presa del “Palazzo d’Inverno”, in conformità con i postulati del leninismo e i contributi teorici e pratici dell’esperienza cubana e del guevarismo.

La creazione di un partito di rivoluzionari di professione di orientamento leninista si intrecciava con la concezione dell’organizzazione politico-militare ripresa dall’esperienza di guerriglia cubana e latinoamericana.

Il principale successo del MIR è stato quello di catturare lo stato di “disponibilità rivoluzionaria” di una vasta fascia di lavoratori, intellettuali e studenti, oltre a percepire che l’elezione di Salvador Allende a presidente della Repubblica apriva una situazione prerivoluzionaria.

I maggiori successi politici del MIR avvennero proprio in quegli anni, quando con audacia e flessibilità tattica iniziò a diventare un partito con influenza di massa, un attore importante della vita politica nazionale.

Forse una delle sue principali carenze fu la mancanza di tempo. Nella sua frenetica corsa, sia questa organizzazione come l’intera sinistra rivoluzionaria non raggiunsero l’influenza e la maturità necessarie per capovolgere la situazione che si stava rapidamente trasformando da crisi prerivoluzionaria in aperta controrivoluzione.

Il contesto politico e ideologico di quegli anni rese molto difficile il necessario rinnovamento ideologico della sinistra cilena.

Nel mondo bipolare della Guerra Fredda, delle definizioni a favore di un campo o dell’altro, in un contesto in cui la lotta politica si poneva nella logica della guerra, lo spazio per revisioni critiche e introspettive era oggettivamente molto ridotto, in alcuni casi decisamente insignificante.

Più tardi, sotto la dittatura, quel percorso fu ancora più difficile. Certe concezioni e tendenze, talvolta criticate, ma mai del tutto superate, come il fuochismo e il militarismo in alcune organizzazioni rivoluzionarie, insieme a certi errori di valutazione – come la sottovalutazione del potere del nemico e la sopravvalutazione delle proprie forze – si sono stabilite nello sterminio fisico e nella sconfitta politica e militare del progetto rivoluzionario incarnato da Miguel Enríquez e dai suoi compagni.

Il progetto mirista fu, in realtà, sconfitto in tre occasioni: la prima volta tra il 1973 e il 1976, quando la feroce repressione della dittatura liquidò una parte molto significativa della sua direzione storica, compreso lo stesso Miguel, e smantellò molte strutture dell’organizzazione.

Una nuova ecatombe si è consumata tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, concludendosi con ingenti perdite umane, politiche e materiali, azioni come l'”operazione ritorno” e il tentativo di impiantare la guerriglia a Neltume.

E una nuova sconfitta, questa volta eminentemente politica, è avvenuta nella seconda metà degli anni ’80, quando si è imposta la “transizione concordata”, lasciando il MIR e le altre forze rivoluzionarie senza una alternativa percorribile, cioè senza base sociale.

La sconfitta di un progetto significa l’invalidazione della sua causa? Non necessariamente. Penso che gli elementi essenziali degli ideali della generazione rivoluzionaria cresciuta e sviluppata negli anni ’60 e ’70 siano ancora in vigore poiché i grandi obiettivi di giustizia e di uguaglianza sociale non sono stati raggiunti nel nostro paese.

Ma questa è la nostra terza domanda: cosa c’è di redimibile in questi progetti al di fuori della propria esperienza?

Senza dubbio siamo in un’altra epoca. Non viviamo più – come credevamo allora – “nell’era dell’imperialismo e della rivoluzione proletaria“. Certo, siamo ancora nell’era dell’imperialismo (ora più globalizzato), tuttavia, solo un’imperdonabile cecità politica potrebbe portarci a credere che la rivoluzione proletaria sia all’ordine del giorno da qualche parte sul pianeta.

Quando le grandi trasformazioni sociali, economiche, culturali e ideologiche degli ultimi decenni del capitalismo globalizzato hanno diluito l’identità, anche buona parte della base sociologica della classe operaia, quando l’emergere di nuovi attori sociali popolari configura un più complesso e sfumato, solo una irragionevole ostinazione nostalgica potrebbe portarci alla ripetizione dei classici schemi rivoluzionari.

Pochi sono, in realtà, i concetti e gli strumenti politici di quel tempo che sono usciti indenni dalle tempeste storiche del tempo trascorso da allora. [2]

I progetti marxisti del socialismo basati su due presupposti: un supporto materiale rappresentato dalla grande industria, e un supporto sociale, la classe operaia, sono stati seriamente messi in discussione dall’esperienza storica e dall’evoluzione del capitalismo.

Finora le basi materiali della grande industria non sono state altro che i supporti per la riproduzione allargata del capitalismo e, in alcuni paesi, hanno prodotto forme statali totalitarie. Una nuova utopia rivoluzionaria, pena il ripetersi di esperienze dalle nefaste conseguenze, dovrebbe iniziare mettendo in discussione questo assunto, proponendo subito un nuovo modo di produrre che non è ancora possibile prevedere.

Allo stesso modo, va verificato che, nonostante le previsioni e gli auspici, la classe operaia non è stata, in quanto tale, in nessun Paese del mondo, la forza sociale decisiva per la liberazione dell’umanità. Sebbene il suo carattere di classe sfruttata sotto il capitalismo sia un’evidenza storica indiscutibile, la sua essenza rivoluzionaria universale, in realtà, non è mai stata sostanziata o confermata dall’esperienza storica.

Sebbene buona parte delle rivoluzioni del XX secolo siano state fatte in suo nome e con il suo sostegno, da nessuna parte questa classe, in quanto tale, ha esercitato la direzione reale di quei processi che hanno finito per costituire nuove forme di dominio e sfruttamento.

Questa constatazione non invalida il fatto che un progetto rivoluzionario anticapitalista non può che avere come base sociale i lavoratori e gli altri settori sfruttati o oppressi dal capitalismo, anche se costringe a ripensare la questione dei soggetti sociali portatori del cambiamento.

Sicuramente il soggetto sociale rivoluzionario delle nuove lotte di liberazione è più vicino a quella visionaria percezione mirista dei “poveri della città e della campagna“, soggetto plurale, multiforme, dai contorni flessibili, che si costruisce attorno a determinati momenti e compiti storici.

Non si tratta più di trovare “la” classe messianica portatrice di liberazione dell’umanità, ma di articolare in un progetto rivoluzionario globale le aspirazioni dei lavoratori e degli altri settori sfruttati con quelle di altri settori etnici, sociali e culturali segmenti che mettono in discussione il capitalismo.

In questa prospettiva, il socialismo del futuro non può essere concepito semplicemente come un progetto che, presentato come “socialismo”, non sia altro che una forma specifica di capitalismo o socialismo di stato. Per la costruzione di un’utopia di nuovo tipo è necessaria una profonda riformulazione delle basi teoriche, ideologiche, politiche e culturali che hanno ispirato i programmi e le pratiche dei movimenti politici e sociali di trasformazione sociale in Cile.

Cosa possiamo salvare allora dell’esperienza della generazione rivoluzionaria degli anni ’60 e ’70?

In un mondo in cui è entrata in crisi la teoria classica della rivoluzione e in cui l’impulso vitale della rivoluzione russa si è spento in mezzo alla disastrosa fine dei “socialismi reali”, è, senza dubbio, poco quello che si può recuperare dei riferimenti teorici, degli strumenti e delle strategie politiche di un tempo.

Tuttavia, è molto quello che si deve raccogliere in termini di decisione di cambiare il mondo e ciò che si deve salvare sul piano della morale e di coerenza con i principi e le convinzioni.

Quando le classi dirigenti, attraverso i loro politici e intellettuali, offrono all’umanità solo la prospettiva di una eterna riproduzione del capitalismo, una sorta di congelamento o “fine della storia” senza progetti collettivi o utopie di cambiamento sociale. Quando in paesi come il nostro la casta politica ci mostra giorno per giorno che per essa pensare, dire e fare sono tre cose diverse, l’eredità morale di Miguel Enríquez e della sua generazione rivoluzionaria continua ad avere un valore che nella prospettiva delle lotte e delle utopie libertarie del futuro non sarà puramente testimoniale.

La sfida storica per le nuove generazioni consisterà nel raccogliere questa eredità morale ed elaborarla attraverso il prisma di nuovi strumenti teorici che dovrà costruirsi da sola, recuperando dai contributi precedenti quanto è necessario, senza riflessioni nostalgiche che portino alla ripetizione di costosi errori del passato, e per di più senza arrendersi di fronte alle pressioni del sistema di dominio.

Sono certo che, più prima che poi, questi nuovi uomini e donne valuteranno l’esperienza e l’eredità di coloro che li hanno preceduti e costruiranno, con lo stesso entusiasmo e coerenza, anche se con più chiaroveggenza e maggiore efficacia, le “grandi strade” libertarie del futuro.

* Storico, accademico dellUniversidad de Chile. Email: sergiogreztoso@gmail.com

[1] Sulla strategia elettorale della sinistra in Cile, vedi, Sergio Grez Toso, “La izquierda chilena y las elecciones: una perspectiva histórica (1882-2013)”, in Cuadernos de Historia, N°40, Santiago, giugno 2014, pgg. 61-93. Versione elettronica:  https://scielo.conicyt.cl/scielo.php?script=sci_arttext&pid=S0719-12432014000100003

[2] Varie delle idee espresse di seguito sono state sviluppate insieme ai componenti del collettivo Centro de Estudios Políticos sobre Chile (CEP-Chile) nel documento Una corriente socialista libertaria como alternativa de izquierda revolucionaria (Reflexiones para un proyecto transformador), París, Centro de Estudios Políticos sobre Chile, aprile 1985.

https://vocesenlucha.com/el-mir-chileno-balance-esencial-por-sergio-grez-toso/

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