La Dichiarazione di Venezia della Comunità Economica Europea del 12 e 13 giugno 1980 è costituita da undici punti.
Dato che non poche persone ne parlano senza averla capita e senza neanche averla letta, a volte addirittura con lo scopo di supportare l’insostenibile e ormai archiviata “pista palestinese” rispetto alla strage di Bologna del 2 agosto 1980, sembra utile riportarla qui sotto in lingua inglese e in maniera completa:
“1. The heads of state and government and the ministers of foreign affairs held a comprehensive exchange of views on all aspects of the present situation in the Middle East, including the state of negotiations resulting from the agreements signed between Egypt and Israel in March 1979. They agreed that growing tensions affecting this region constitute a serious danger and render a comprehensive solution to the Israeli-Arab conflict more necessary and pressing than ever.
2. The nine member states of the European Community consider that the traditional ties and common interests which link Europe to the Middle East oblige them to play a special role and now require them to work in a more concrete way towards peace.
3. In this regard, the nine countries of the community base themselves on (UN) Security Council resolutions 242 and 338 and the positions which they have expressed on several occasions, notably in their declarations of 29 June 1977, 10 September 1970, 26 March and 18 June 1979, as well as in the speech made on their behalf on 25 September 1979 by the Irish minister of foreign affairs at the 34th UN General Assembly.
4. On the bases thus set out, the time has come to promote the recognition and implementation of the two principles universally accepted by the international community: the right to existence and to security of all the states in the region, including Israel, and justice for all the peoples, which implies the recognition of the legitimate rights of the Palestinian people.
5. All of the countries in the area are entitled to live in peace within secure, recognized and guaranteed borders. The necessary guarantees for a peace settlement should be provided by the UN by a decision of the Security Council and, if necessary, on the basis of other mutually agreed procedures. The nine declare that they are prepared to participate within the framework of a comprehensive settlement in a system of concrete and binding international guarantees, including (guarantees) on the ground.
6. A just solution must finally be found to the Palestinian problem, which is not simply one of refugees. The Palestinian people, which is conscious of existing as such, must be placed in a position, by an appropriate process defined within the framework of the comprehensive peace settlement, to exercise fully its right to self-determination.
7. The achievement of these objectives requires the involvement and support of all the parties concerned in the peace settlement which the nine are endeavouring to promote in keeping with the principles formulated in the declaration referred to above. These principles apply to all the parties concerned, and thus to the Palestinian people, and to the PLO, which will have to be associated with the negotiations.
8. The nine recognize the special importance of the role played by the question of Jerusalem for all the parties concerned. The nine stress that they will not accept any unilateral initiative designed to change the status of Jerusalem and that any agreement on the city’s status should guarantee freedom of access for everyone to the holy places.
9. The nine stress the need for Israel to put an end to the territorial occupation which it has maintained since the conflict of 1967, as it has done for part of Sinai. They are deeply convinced that the Israeli settlements constitute a serious obstacle to the peace process in the Middle East. The nine consider that these settlements, as well as modifications in population and property in the occupied Arab territories, are illegal under international law.
10. Concerned as they are to put an end to violence, the nine consider that only the renunciation of force or the threatened use of force by all the parties can create a climate of confidence in the area, and constitute a basic element for a comprehensive settlement of the conflict in the Middle East.
11. The nine have decided to make the necessary contacts with all the parties concerned. The objective of these contacts would be to ascertain the position of the various parties with respect to the principles set out in this declaration and in the light of the results of this consultation process to determine the form which such an initiative on their part could take.” (https://ecf.org.il/media_items/1476 ).
Nel primo punto i Capi di Stato o di Governo e i Ministri degli Affari Esteri della Comunità Economica Europea premettono di aver scambiato le proprie opinioni su tutti gli aspetti della situazione nel Medio Oriente, compreso lo stato dei negoziati risultanti dagli accordi, firmati col beneplacito degli Usa, tra Egitto e Israele nel marzo 1979, e poi giungono a dichiarare la necessità di una soluzione globale al conflitto arabo-israeliano e ciò infastidisce molto lo statunitense Jimmy Carter che sta affrontando una campagna presidenziale in cui, fra l’altro, rischia di perdere il consenso della locale e potente lobby ebraica.
Nel secondo punto, guarda caso in seguito al forte aumento del prezzo del petrolio scaturito dopo la rivoluzione islamica (sciita) del 1979 in Iran, sottolineano che i legami tradizionali e gli interessi comuni fra Europa e Medio Oriente li spingono a lavorare in maniera più concreta per la pace.
Nel terzo punto, affermano di basarsi sulle Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – le quali, mentre non offrono nulla ai palestinesi che vengono considerati solo per quanto concerne il problema dei rifugiati, ingiungono a Israele di ritirarsi dai territori conquistati militarmente nel 1967 e trovano la totale opposizione dello stesso Israele – e sulle posizioni da loro già espresse in diverse circostanze, in particolare nelle loro dichiarazioni del 29 giugno 1977, del 19 settembre 1978, del 26 marzo e del 18 giugno 1979, nonché nel discorso pronunciato in loro nome il 25 settembre 1979 dal Ministro degli Affari Esteri irlandese alla trentaquattresima Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Nel quarto punto, sottolineano il diritto alla sicurezza per tutti gli Stati della regione, Israele compreso, e il riconoscimento dei legittimi diritti del popolo palestinese. Teoricamente questo punto è il più lontano dai desideri di palestinesi e israeliani: dall’OLP perché per quasi tutti gli anni Ottanta (vedasi pag. 46 di “Palestinesi” a cura di Lanfranco Binni, Riccardo Bocco, Wasim Dahmash e Barbara Gagliardi: https://files.studiperlapace.it/spp_zfiles/docs/20060305144647.pdf) la Carta Nazionale Palestinese prevede la liberazione dell’intera Palestina, ma soprattutto da Israele che, fin dall’inizio e senza alcun freno anche nei decenni successivi, punta a colonizzare tutti o quasi tutti i territori palestinesi.
Nel quinto punto, ribadiscono il diritto alla pace e alla sicurezza per i paesi dell’area con le necessarie garanzie da parte del Consiglio di Sicurezza dell’Onu o, qualora fosse necessario, sulla base di altre procedure concordate; inoltre si dichiarano disponibili a partecipare alla nascita di un accordo globale.
Nel sesto punto, superando i limiti del terzo punto e pure le ambiguità delle Risoluzioni 242 e 338 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, affermano in modo chiarissimo che il problema palestinese non concerne semplicemente quello dei profughi ma riguarda il diritto palestinese all’autodeterminazione.
Nel settimo punto, sostengono la necessità di coinvolgere tutte le parti in causa per uno stabile accordo di pace e quindi anche il popolo palestinese; precisano inoltre che l’OLP – organizzazione allora considerata terrorista dagli Usa e da Israele – deve partecipare ai negoziati.
Nell’ottavo punto, affermano di non accettare alcuna iniziativa unilaterale volta a non garantire a tutte le persone la libertà di accesso ai Luoghi Santi e a modificare lo status di Gerusalemme, mentre Israele, che ha occupato la parte araba di tale città sin dal 1967, si prepara ad approvare alla Knesset, in data 30 luglio 1980, la Legge su Gerusalemme con cui questa località viene definita capitale completa e unita dello Stato israeliano.
Nel nono punto, ribadiscono la necessità per Israele di ritirarsi dai territori occupati durante il conflitto del 1967, come ha fatto per parte del Sinai. Sono convinti inoltre che gli insediamenti israeliani e le modifiche della popolazione e delle proprietà nei territori arabi occupati siano illegali secondo il diritto internazionale.
Nel decimo punto, affermano che si debba rinunciare alla violenza o alla minaccia del suo uso da parte delle organizzazioni dell’area come base per un risoluzione globale del conflitto in Medio Oriente.
Nell’undicesimo punto, dichiarano di aver deciso di prendere i contatti necessari con tutte le parti interessate allo scopo di accertarne la posizione rispetto ai principi enunciati nella stessa dichiarazione di Venezia e, sulla base dei risultati di quel processo di consultazione, di stabilire quale sia la forma che potrebbe assumere tale iniziativa da parte loro.
Questa Dichiarazione presenta diversi elementi contraddittori, soprattutto agli occhi dei governanti di Israele e degli Usa che allora si oppongono totalmente al settimo punto, e qualche giorno dopo, mentre è vista in modo molto positivo da paesi arabi moderati come la Giordania e l’Arabia Saudita, viene criticata dall’OLP che non la trova del tutto soddisfacente e la etichetta come il risultato delle minacce statunitensi (vedasi: pag. 145 di “European political cooperation and the Palestinian-Israeli conflict: an Israeli perspective” di Greilsammer I. e Weiler J., 1984, in “European foreign policy making and the Arab-Israeli conflict”, p.121-260, Nijhoff, L’Aia).
Il 17 giugno 1980 l’OLP e la Siria, attraverso i palestinesi Yāsser Arafat di Al–Fatah e presidente della stessa OLP, Nayef Hawatmeh del FDLP e George Habash (chiamato Habbash sulla stampa in lingua inglese e più in generale in occidente) del FPLP e il presidente siriano Hafiz al-Asad, discutono a Damasco sulla Dichiarazione di Venezia. Ne esce fuori, in lingua inglese, il seguente comunicato congiunto di analisi critica della presa di posizione della Comunità Economica Europea (CEE) sul conflitto arabo-israeliano:
“JOINT PLO-SYRIAN DECLARATION ISSUED AFTER MEETING BETWEEN RESISTANCE LEADERSHIP DELEGATION, LED BY PLO CHAIRMAN YASSER ARAFAT AND INCLUDING DFLP SECRETARY-GENERAL NAYEF HAWATMEH AND PFLP SECRETARY- GENERAL GEORGE HABBASH, AND SYRIAN PRESIDENT HAFIZ AL-ASSAD TO DISCUSS VENICE SUMMIT COMMUNIQUE, DAMASCUS, JUNE 17, 1980.1 (1 Published by Wafa, June 18, 1980 – Ed.)
In the course of their meeting this afternoon, President Hafiz al-Assad and Chairman Arafat discussed and studied all aspects of the Arab and international situations and recent developments related to the arena of the Arab-Israeli conflict. They agreed on the need for a fundamental review of the strategy of Arab action for the confrontation of the Zionist-American-Sadat conspiracy against the Arab nation and its principal cause, the cause of Palestine.
After an appraisal of the situation, full agreement was reached that the moves that are being made to reach a political settlement, in the light of the disequilibrium between the Arabs on the one hand and Zionism and imperialism on the other, will result in further concessions in favour of the enemy. Hence the need to reappraise all policies for the confrontation of this situation to ensure the meeting of all conditions that will enable the Arab nation to recover its rights and to defend its integrity.
Analysis of the [Venice] communique issued by the European summit conference discloses numerous negative aspects, in that it outflanks the Arab position so as to facilitate the success of the Egyptian – Israeli – American negotiations. Nor do the principles and ideas expressed in the communique contribute anything new. This applies in particular to its emphasis on resolution 242, which the Arab nation rejects as not constituting a sound basis for the establishment of a just and permanent peace in the area; the declaration, in addition, has not introduced any new element, especially as regards the inalienable national rights of the Palestinian Arab people, in the forefront of which is their right to return and to self-determination without outside interference, and to build their national state on the soil of their homeland – rights which the international community has recognized as being inalienable and not subject to preconditions.
Nor does the communique recognize the PLO as the sole legitimate representative of the Palestinian Arab people, and while allowing Israel the right to security and to existence, it offers the Palestinian people contradictory and obscure words, especially in the expression used in connection with self-determination, which the communique links to appropriate measures within the framework of a comprehensive settlement. This empties self-determination of its meaning, thus giving Israel the right to accept or reject anything related to the content of self-determination. The communique also excludes Jerusalem from the context of the occupied territories, considering it a separate negotiable issue, which gives rise to doubts as regards the issue of the return of Jerusalem. Nor does the communique concentrate on Israel’s with- drawal from the occupied territories; this is unacceptable to the Arab nation. The communique is clearly a response to American pressures.
Also discussed was the situation in Lebanon, and it was agreed that support must be given to the efforts to achievp national entente in Lebanon and to reinforce the unity of Lebanese ranks on the basis of Lebanon’s unity, Arab character, sovereignty and independence, and of respect for the Cairo agreement and its annexes, which regulate the relations of the Palestinian resistance with the legitimate authorities of Lebanon. It was also agreed that the Israeli aggressions against South Lebanon must be confronted and that the direct and indirect Israeli occupation of parts of South Lebanon must be ended. During discussion of the Arab situation, it was agreed to submit a proposed strategy for joint Arab action at the next Arab summit conference, and to reinforce Arab solidarity on the basis of resisting Zionism and imperialism and their schemes and tools in the area.
Also studied were means of strengthening the role of the Arab masses in the battle for liberation and return, and to abort the Camp David agreement. The two sides also discussed recent developments in the occupied territory, and the escalation of popular struggle in confrontation of the vicious Zionist attack which takes the form of operations of settlement, repression, deportation and the physical liquidation of the national leaderships, with the objective of securing the implementation of the self-government conspiracy. The two sides also agreed that popular resistance should be escalated by all ways and means and in all fields. The importance was stressed of consolidating and developing the relations of friendship and cooperation between the Arab nation and the socialist camp countries, led by the USSR, and of consolidating the Arab role in the Non-aligned Movement as providing strong support for Arab struggle. In the course of a review of their bilateral relations, it was agreed to reactivate the joint Palestinian-Syrian Coordination Committee.
(vedasi “Joint PLO-syrian declaration issued after meeting between Resistance leadership delegation, led by PLO Chairman Yasser Arafat and including DFLP Secretary-general Nayef Hawatmeh and PFLP Secretary- general George Habbash, and Syrian President Hafiz al- Assad to discuss Venice Summit communiqué, Damascus, June 17, 1980”, pubblicata dall’agenzia di stampa palestinese «Wafa» del 18 giugno 1980 e dalla rivista accademica «Journal of Palestine Studies», Autumn, 1980, Vol. 10, No. 1; il testo è reperibile all’indirizzo https://www.jstor.org/stable/2536503).
Cerchiamo adesso di analizzare, in ogni suo aspetto, questo documento.
Il presidente siriano Hafiz al-Assad e il presidente dell’OLP Arafat concordano sulla necessità di una profonda trasformazione della politica araba per fronteggiare ciò che definiscono come il sionismo israeliano, l’imperialismo degli Usa e la politica di rottura del fronte arabo da parte del presidente egiziano Sadat; sono pienamente d’accordo sul fatto che i rapporti di forza internazionali non risultino favorevoli agli arabi e che, in tale quadro, le mosse per cercare una soluzione politica non possano che portare ad ulteriori sconfitte.
Rispetto alla dichiarazione di Venezia scaturita dal vertice europeo, respingono l’enfasi sulla risoluzione 242 dell’ONU in quanto quest’ultima non costituisce una solida base per l’instaurazione di una pace giusta e stabile nell’area del Medio Oriente; non accettano che possano esserci ingerenze esterne rispetto ai diritti nazionali inalienabili del popolo palestinese; criticano il mancato riconoscimento dell’OLP come unico e legittimo rappresentante del popolo palestinese; ritengono sbagliato che la CEE abbia escluso Gerusalemme (la cui parte araba, come si è già detto, è occupata da Israele a partire dal 1967) dal contesto dei territori occupati, non si sia concentrata sulla necessità di un ritiro israeliano dai territori occupati e, più in generale, non sia riuscita ad essere adeguatamente autonoma di fronte alle pressioni degli Usa.
Sulla situazione in Libano, sostengono gli sforzi per raggiungere un’intesa nazionale dei libanesi e la necessità di porre fine all’occupazione israeliana diretta e indiretta di parti del Libano meridionale.
Sulla più generale situazione del mondo arabo, propongono inoltre di elaborare una proposta congiunta al successivo vertice arabo.
Puntano a realizzare diversi obiettivi: contrastare l’accordo di Camp David; intensificare la resistenza popolare; consolidare e sviluppare i rapporti di amicizia fra “la nazione araba” e i “paesi del campo socialista guidati dall’URSS”; rafforzare il ruolo arabo nell’ambito dei “paesi non allineati”.
Il comunicato congiunto del 17 giugno 1980 fra OLP e Siria costituisce quindi una critica politica e non certo una manifestazione di ostilità alla CEE o ai suoi singoli paesi. Punta a promuovere una strategia tesa a modificare i rapporti di forza internazionali affinché le mosse per una soluzione politica del conflitto arabo-israeliano possano finalmente avere, anche rispetto alla questione palestinese, uno sbocco in qualche modo positivo.
Nell’OLP si manifesta, in pari tempo e in maniera gramsciana, sia il pessimismo dell’intelligenza che l’ottimismo della volontà.
«Ci hanno dato un osso da rosicchiare», dice in quei giorni Arafat. Invece Kaddumi, che a quel tempo svolge le funzioni di massimo esperto di politica estera dell’OLP, ammette che la Dichiarazione di Venezia meriti una maggiore considerazione (pag. 120 di “I socialisti italiani e la questione mediorientale (1948-1987)” di Francesca Pacifici, Dottorato di ricerca in “Storia dell’Italia contemporanea: politica, territorio, società”, Università degli studi Roma Tre).
Kaddumi, il quale insieme ad Arafat fa parte di Al-Fatah, la forza egemone dell’OLP dal 1967 al 2006, è uno dei principali protagonisti del processo di rinnovamento della strategia di lotta dei palestinesi.
Non a caso, fin dal 1967, lo stesso Kaddumi (che in diversi testi italiani è chiamato Farouq al-Qaddumi) propone al Comitato centrale di Al-Fatah l’opportunità di istituire un mini-Stato nella West Bank, e gli eventi giordani del 1970 rendono ancora più evidente la necessità per i palestinesi di costituire un proprio Stato indipendente.
Una svolta ulteriore avviene grazie all’impulso del Segretario Generale del Fronte Democratico, Nayef Hawatma, il quale, all’inizio del 1974, propone di creare una “autorità nazionale” palestinese nei territori che sarebbero stati liberati. Il confronto dei quadri dirigenti dell’OLP si conclude con la formulazione di un programma transitorio di dieci punti adottato al XII Consiglio Nazionale Palestinese, tenutosi al Cairo nell’estate del 1974 (pag. 46 di “I socialisti italiani e la questione mediorientale (1948-1987)” di Francesca Pacifici, Dottorato di ricerca in “Storia dell’Italia contemporanea: politica, territorio, società”, Università degli studi Roma Tre).
Nel secondo punto di quel programma politico stabilito nell’estate del 1974 l’OLP si impegna «a lottare con tutti i mezzi, in primo luogo con la lotta armata, per liberare la terra palestinese e costituire un potere nazionale indipendente e combattente del popolo su ogni parte della terra palestinese liberata» (pp. 174-175 di “Storia dell’OLP. Verso lo Stato palestinese” di Alain Gresh, tr. it. Edizioni Associate, Roma, 1988).
Più precisamente, viene proposta la creazione di «una sulta wataniyeh, cioè di un’autorità nazionale, in ogni territorio che potesse essere liberato» (pag. 29 di “La pace impossibile: Israele/Palestina dal 1989” di Mark Levine, casa editrice EDT srl, Torino, 2009; titolo originale “Impossible Peace: Israel / Palestine since 1989”, Fernwood Publishing Ltd, Black Point in Nova Scotia, 2009).
Con il XII Consiglio Nazionale Palestinese, quindi dall’estate del 1974 e per la prima volta, l’OLP rinvia a tempi lunghi e a mezzi politici pacifici l’obiettivo di uno “Stato palestinese laico, democratico, unitario in nome di un diritto storico del popolo palestinese su tutta la Palestina” e inizia a lottare per qualcosa di più concreto e realizzabile (vedasi “I diritti del popolo palestinese e la questione territoriale – Seminario ONU, La Valletta, 12 aprile 1982” in http://www.luigigranelli.it/index.php/i-temi-guida/il-ruolo-della-politica-internazionale/il-mediterraneo/1213-i-diritti-del-popolo-palestinese-e-la-questione-territoriale ).
«L’adozione di questo documento programmatico causò una frattura all’interno dell’organizzazione palestinese: il 26 settembre George Habash si dimise dal Comitato esecutivo dell’OLP e poche settimane dopo altri gruppi di lotta si unirono al FPLP per costituire il Fronte del Rifiuto. Questi gruppi si opponevano sostanzialmente all’orientamento politico di Al-Fatah, ma la nuova politica adottata condusse l’OLP a risultati significativi: alla fine dell’ottobre del 1974 Arafat, insieme ad una delegazione della sua organizzazione, partecipò al vertice arabo di Rabat, e fu sulla base del programma provvisorio approvato al XII Consiglio nazionale palestinese, che l’OLP ottenne l’appoggio ufficiale degli Stati arabi e il riconoscimento dell’Organizzazione come unico rappresentante legittimo del popolo palestinese.
Dopo aver guadagnato il sostegno di tutto il mondo arabo, il 13 novembre Yasser Arafat, con l’aiuto della Lega Araba, partecipò all’Assemblea delle Nazioni Unite, che in quella sessione decretò, con la risoluzione 3237 l’ammissione dell’OLP all’ONU come membro osservatore» (pp. 46-47 di “Storia dell’OLP. Verso lo Stato palestinese” di Alain Gresh, tr. it. Edizioni Associate, Roma, 1988).
Stante gli indubbi risultati ottenuti seguendo la linea stabilita dal XII Consiglio nazionale palestinese, durante il XIII Consiglio nazionale palestinese del 1977 il principio di un’autorità nazionale in ogni territorio che potesse essere liberato «fu modificato ulteriormente verso la creazione di una dawla wataniyeh, ovvero uno stato nazionale su ogni terra liberata» (pag. 29 di “La pace impossibile: Israele/Palestina dal 1989” di Mark Levine, casa editrice EDT srl, Torino, 2009; titolo originale “Impossible Peace: Israel / Palestine since 1989”, Fernwood Publishing Ltd, Black Point in Nova Scotia, 2009).
Un anno dopo, il 17 settembre 1978, a Camp David i rappresentanti del popolo palestinese sono esclusi perché gli Stati Uniti, Israele e l’Egitto decidono di parlare a loro nome.
Su questa base, a Washington il 26 marzo 1979, viene firmato il Trattato di pace israelo-egiziano che spinge la Lega Araba ad espellere l’Egitto (fatto che dura fino al 1989): «…la cosiddetta pace separata causò una battuta d’arresto per la fluidità dei rapporti tra Stati arabi ed europei, e fu solo nel marzo del 1980, con la missione diplomatica del presidente Giscard D’Estaing nella penisola arabica, in occasione della quale il capo di Stato francese si pronunciò a favore del diritto dei palestinesi all’autodeterminazione e alla necessità di far partecipare l’OLP ai tavoli dei negoziati, che l’Europa riavviò la sua politica araba e si incamminò nuovamente sulla strada del dialogo» (p. 119 di “Storia dell’OLP. Verso lo Stato palestinese” di Alain Gresh, tr. it. Edizioni Associate, Roma, 1988).
Giscard D’Estaing contribuisce ad infrangere un tabù ancora diffuso nei paesi occidentali: «La parola “OLP” è pronunciata alla luce del sole e sarà ripresa nella Dichiarazione di Venezia del 13 giugno, considerata come momento cruciale nell’approccio europeo al conflitto israelo-arabo» (p.91 di “L’Europa e il mondo arabo. Le ragioni del dialogo”, di Bichara Khader, tr. it. L’Harmattan Italia, Torino, 1996).
La Dichiarazione di Venezia del 13 giugno 1980 cambia parecchio la situazione.
Essa provoca da un lato un «duro e arrogante «no» del premier israeliano Begin (il quale ha addirittura annunciato che sarà vietato l’ingresso nel Paese alla «missione esplorativa» della CEE)» (“Risposta dell’OLP alla CEE: è un passo avanti”, L’Unità , 17 giugno 1980) e dall’altro una chiara e crescente sfiducia da parte degli Usa.
Chi conosce bene come stiano le cose è l’allora ministro degli Esteri italiano on. Emilio Colombo:
«Sulla questione israelo-palestinese (…) la Comunità europea intervenne soprattutto in occasione della riunione del Consiglio della Comunità che si tenne a Venezia sotto la presidenza italiana nel giugno del 1980 e che adottò la Dichiarazione, da noi proposta e approvata da tutti. Il documento riconosceva il diritto all’autodeterminazione dei palestinesi e l’OLP come il loro rappresentante e invitava a una trattativa diretta tra israeliani e palestinesi. Allora ricevemmo critiche da parte americana, mosse anche a me personalmente in un incontro che ebbi a Washington con la Commissione Esteri del Congresso» (pp. 166-167 di “Per l’Italia, per l’Europa. Conversazione con Arrigo Levi” di Emilio Colombo, casa editrice Il Mulino, Bologna, 2013).
Nonostante la dura opposizione di Israele e degli Usa, qualcosa cambia in favore dei palestinesi e del più generale dialogo euro-arabo che, in seguito alla citata missione diplomatica del presidente francese Giscard D’Estaing, si sviluppa con maggiore slancio grazie alla Dichiarazione di Venezia e alla riunione del 12 e 13 novembre di quel medesimo anno a Lussemburgo della Comunità europea con la Lega Araba.
In quest’ultima occasione, le due parti sottoscrivono un documento comune in cui, fra l’altro, si afferma quanto segue:
«La parte europea ha esposto in particolare il proprio punto di vista sul conflitto arabo-israeliano. Detto punto di vista è stato oggetto di una dichiarazione il 13 giugno 1980 a Venezia nella quale i capi di Stato e di governo dei Nove hanno espresso la volontà dell’Europa di svolgere un ruolo particolare e di operare in modo più concreto a favore della pace. In adempimento alla dichiarazione di Venezia, i Nove hanno avviato una serie di contatti ed uno sforzo di riflessione. Detto processo, iniziato con la missione del presidente Thorn in Medio Oriente, è attualmente in corso.
La parte araba ha preso atto di questi chiarimenti.
Essa ha inoltre ricordato la situazione pericolosa ed esplosiva che prevale in Medio Oriente e le minacce che essa fa gravare sulla sicurezza e la prosperità delle due regioni araba ed europea.
Essa ha inoltre affermato la necessità per la Comunità europea di avviare le iniziative indispensabili per l’attuazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite relative all’evacuazione da parte di Israele di tutti i territori arabi occupati ed all’esercizio da parte del popolo palestinese dei suoi diritti nazionali, compreso il diritto al ritorno, all’autodeterminazione ed all’instaurazione di uno Stato indipendente.
La parte araba ha inoltre riaffermato la necessità che siano proseguiti gli sforzi europei per porre fine alle pratiche israeliane nei territori arabi occupati, comprese quelle relative all’annessione di Gerusalemme, alla creazione di insediamenti, all’annessione delle colline del Golan ed alle aggressioni perpetrate contro i popoli palestinese e libanese. La parte araba ha riaffermato che il riconoscimento dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina da parte della Comunità europea quale unica rappresentante legittima del popolo palestinese costituirà un passo essenziale degli sforzi intrapresi al fine di instaurare una pace giusta e durevole nel Medio Oriente.
La parte europea ha preso atto di questi chiarimenti.
Consapevoli dell’ampia interdipendenza tra le economie delle due regioni, le due parti hanno ribadito l’importanza che esse attribuiscono ad un dialogo nei settori della cooperazione economica, finanziaria e culturale» (leggasi: “1980 Testi e Documenti sulla politica estera dell’Italia.pdf” in https://www.farnesina.ipzs.it/biblioteca/testiDocumenti/4 )
Il 5 marzo 1981 il ministro degli Esteri on. Colombo parla alla Commissione Esteri del Senato della Repubblica italiana su temi di politica estera e, per quanto riguarda il Medio Oriente, fa delle significative precisazioni:
«Il ministro Colombo passa poi a trattare della situazione nel Medio Oriente rilevando che alla divaricazione prodottasi nel mondo arabo dopo Camp David fra l’Egitto e gli altri paesi arabi si sono aggiunti ulteriori elementi di stallo, come il mancato statuto dì autonomia per i palestinesi residenti nei territori della Cisgiordania e di Gaza, l’approvazione da parte del Parlamento israeliano della legge che ha sancito di fatto l’annessione del settore orientale di Gerusalemme allo Stato israeliano e l’esplicita enunciazione da parte dell’Egitto del principio della autodeterminazione del popolo palestinese, considerato inaccettabile da parte israeliana.
Pertanto mentre sul piano dei rapporti bilaterali tra Egitto ed Israele il processo di distensione ha continuato a svilupparsi, sul negoziato sullo statuto di autonomia per i palestinesi le posizioni sono rimaste molto distanti con conseguenze negative per una soluzione politica globale del problema mediorientale.
L’onorevole Colombo fa notare come la nuova amministrazione americana abbia sul problema un atteggiamento attendista e ricorda le posizioni di accentuato sospetto nei confronti delle iniziative europee da parte dell’amministrazione Carter. I nuovi dirigenti americani, d’altra parte, richiedono che la Comunità europea, nel definire la propria iniziativa, abbia maggiore sensibilità per l’impegno americano» (leggasi: “1981 Testi e Documenti sulla politica estera dell’Italia.pdf” in https://www.farnesina.ipzs.it/biblioteca/testiDocumenti/4 ).
Coloro che, nel mondo, si oppongono duramente alla Dichiarazione di Venezia del 12 e 13 giugno 1980 sono Israele e gli Stati Uniti d’America che, oltre a considerare l’OLP un’organizzazione terroristica, ritengono quella dichiarazione come una vera e propria formula per la soluzione del conflitto (“L’Unione europea deve agire in Medio Oriente” di Steven Everts, mercoledì 1 Gennaio 2003, in https://www.italianieuropei.it/it/la-rivista/archivio-della-rivista/item/526-lunione-europea-deve-agire-in-medio-oriente.html).
In effetti, essa presenta un’autentica formula politica che, pur non essendo ancora del tutto esplicita, equivale in sostanza a quella di cui parla Emilio Colombo:
«Con me, allora ministro degli Affari esteri, era presente il presidente del Consiglio Cossiga. In quella difficile e ardita riunione, nella quale fu formulata la proposta passata poi alla storia come “Dichiarazione di Venezia”, proponemmo di dar luogo a una trattativa per giungere a un accordo fra israeliani e palestinesi, che si risolvesse nella formula “due popoli, due Stati”» (pag. 192 di “Emilio Colombo. L’ultimo dei costituenti”, a cura di Donato Verrastro ed Elena Vigilante, Laterza, 2017).
La “Dichiarazione di Venezia” è la prima in assoluto in cui viene abbozzata la formula “due popoli, due Stati” rispetto ai rapporti fra israeliani e palestinesi. Al tempo stesso, costituisce un motivo di totale opposizione da parte degli Usa e di Israele.
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