Qui di seguito il testo presentato nell’audizione alla Commissione Affari Costituzionali del 28 marzo scorso.
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Grazie al Presidente Pagano, e ai membri della Commissione Affari costituzionali, per l’invito a partecipare al ciclo di audizioni sull’autonomia differenziata.
Parlando a nome dell’Osservatorio sull’Unione Europea – per dovere di trasparenza, faccio innanzitutto presente che esso è parte del Tavolo unitario contro l’autonomia differenziata – non posso che iniziare da alcuni documenti emanati da istituzioni UE.
L’Osservatorio ha collaborato con il Tavolo unitario alla presentazione di una petizione al Parlamento europeo e discussa, grazie anche all’europarlamentare Rosa D’Amato, nell’ambito della Commissione ad hoc.
La risposta della Commissione UE è stata una non risposta, dato che in essa ha riferito le sue valutazioni sul PNRR italiano, mentre l’oggetto della petizione erano, sì, le sue valutazioni ma quelle espresse nello Staff Working Document, relativo alla Relazione per l’Italia del 2023.
Questo documento, a proposito del ddl sull’autonomia differenziata, afferma: ‘La legge impone che tale riforma sia neutra dal punto di vista del bilancio delle amministrazioni pubbliche. Senza risorse aggiuntive potrebbe tuttavia risultare difficile garantire i medesimi livelli essenziali di servizi nelle regioni con una spesa storica bassa, anche a causa della mancanza di un meccanismo di perequazione.
Nel complesso, la riforma prevista dalla nuova legge quadro rischia di compromettere la capacità delle amministrazioni pubbliche di gestire la spesa pubblica, con un conseguente possibile impatto negativo sulla qualità delle finanze pubbliche dell’Italia e sulle disparità regionali’ (Documento di lavoro dei servizi della Commissione, Relazione per paese 2023 – Italia,{COM(2023) 612 final}, Bruxelles, 24.5.2023, p. 19).
Poiché, anche nel testo votato dal Senato ora in discussione alla Camera, il vincolo dell’invarianza delle risorse finanziarie è ripetutamente sancito – art. 3, settimo comma, art. 4 primo comma, art. 9 – la critica avanzata nel Documento risulta ben fondata.
Nel secondo documento delle istituzioni europee, l’Ottava Relazione sulla coesione economica, sociale e territoriale dell’UE, dopo un’analisi dei dati relativi alle disparità territoriali, si trae la conclusione secondo cui il Meridione d’Italia è completamente fuori dai processi europei di integrazione economica e sociale, rappresentando esso la zona più arretrata dell’UE, e al contempo il divario tra il Nord e il Sud in Italia si è andato ampliando.
A sostegno di questa conclusione, l’Ottava Relazione presenta una mappa in cui le aree più sviluppate, in transizione e meno sviluppate delineano una sorta di imbuto. La parte in alto interna dell’imbuto rappresenta le aree più sviluppate e maggiormente integrate a livello europeo, mentre ciò che è ad esso esterno rappresenta o regioni in transizione o meno sviluppate.
La parte bassa e stretta dell’imbuto, quella meno sviluppata, rappresenta il Meridione d’Italia, completamente tagliato fuori dai processi di integrazione. Non voglio, né posso, riassumere in poche righe i dati delle numerosissime ricerche o rapporti, che i membri di questa Commissione ben conoscono e che dimostrano come il divario Nord-Sud non è stato colmato, anzi si va approfondendo.
Voglio però richiamare solo i titoli di alcuni questi lavori di ricerca, perché essi, provenendo da fonti diverse pur giungono a conclusioni identiche, quelle del mancato superamento anzi dell’aggravamento della questione meridionale:
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Un Paese, due scuole, a cura della SVIMEZ, pubblicato nel febbraio 2023, oltre ai suoi Rapporti annuali;
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I divari territoriali nel PNRR – dieci obiettivi per il Mezzogiorno, un focus dell’Istat del gennaio 2023, oltre ai suoi Rapporti annuali;
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Relazione sugli interventi di sostegno alle attività economiche e produttive, del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, settembre 2023;
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i Rapporti GIMBE, l’ultimo dei quali il numero 2, è del marzo 2024.
Aiuta il ddl sull’autonomia differenziata a superarle? Certamente no, data la prescritta invarianza delle risorse finanziarie. Anzi, a causa dei meccanismi finanziari previsti dal ddl 1665, essi sono destinati a permanere.
Vorrei citare, tuttavia, poche cifre, e richiamare l’attenzione su alcune valutazioni espresse da docenti universitari, che non scrivono per il Fatto quotidiano o per il manifesto, ma per Il Sole 24 Ore.
La professoressa Antonella Trocino, docente di economia dei mercati alla LUISS, smentendo quanti sostengono che il Mezzogiorno gode di una spesa pubblica superiore a quella del Nord, ha aggregato i dati relativi giungendo alla conclusione che: ‘ .. nel 2021 Lombardia, Emilia Romagna e Veneto .. figuravano rispettivamente al primo, terzo e quarto posto in classifica per incidenza della spesa pubblica primaria assorbita, pari complessivamente al 33,7% della spesa a fronte di una popolazione del 32,6% sul totale, mentre il Mezzogiorno e le Isole (33.6% del totale) hanno percepito il 28, 2% della spesa pubblica primaria’.
Ciò ha prodotto un aggravarsi del gap in termini di infrastrutture e servizi, e, per chi dice di voler liberare le imprese dai lacci e lacciuoli, scrive la prof.ssa Trocino che con il ddl 1665 ‘ne deriverà una normativa più complessa e disomogenea, che potrà distorcere le scelte delle imprese, le quali dovranno conformarsi a quadri normativi ‘patchwork’, con buona pace della semplificazione’ (Il Sole 24 Ore, 23 marzo 2024, pag. 12).
Il prof. Andrea Giovanardi, dell’Università di Trento, sostenitore invece dell’autonomia differenziata, ha di nuovo sollevato la questione del ‘residuo fiscale’ (Il Sole 24 Ore, 20 marzo 2024, p.14) Oltre ad essere un concetto fortemente discutibile e diffusamente messo in dubbio tra gli esperti, esso è comunque in netto contrasto con i principi della nostra Costituzione che prevede un rapporto fiscale tra il singolo cittadino e lo Stato: ‘Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva’.
L’art. 53 non parla di ‘territori’, ma di singoli cittadini che stabiliscono un rapporto con lo Stato a cui versano le imposte, secondo un criterio di progressività, ricevendone dei servizi che devono essere uguali per tutti.
Invece il prof. Giovanardi, sulla base della differenza tra risorse date e ricevute a livello territoriale, mette in rilievo il ‘residuo fiscale’, che ovviamente si crea perché esistono territori dove c’è una maggiore concentrazione di ricchi, che versano, secondo i criteri di progressività (fin quando esisteranno dato che il governo Meloni vuole arrivare alla flat tax), imposte più alte rispetto ai territori dove ci sono meno persone ricche.
Il prof. Giovanardi scopre così l’acqua calda, in questo caso che il Mezzogiorno è più povero del Nord e dunque ha un gettito fiscale minore di quello del Nord! Per superare queste asimmetrie la Carta del 1948 prescriveva ‘contributi speciali’ dello Stato per il Mezzogiorno e le Isole.
Parlando dinnanzi alla I Commissione colgo l’opportunità per ricordare che con una decisione, tra le più infelici assunte dal legislatore della revisione del 2001, mi riferisco alla legge costituzionale 3/2001, si abrogò il terzo comma dell’art. 119 della Carta del 1948.
Questo stabiliva, come prima ricordato, che, al fine di ‘provvedere a scopi determinati, e particolarmente per valorizzare il Mezzogiorno e le Isole, lo Stato assegna per legge a singole Regioni contributi speciali’, invece con la revisione del Titolo V del 2001 la ‘questione meridionale’ venne cancellata, e già prima, in netto contrasto con quella disposizione costituzionale allora ancora in vigore, il Parlamento, con la legge 19 dicembre 1992 n. 488, soppresse l’intervento speciale estendendo gli incentivi alle aree depresse di tutto il territorio nazionale.
La storia dell’articolo 119 non terminò con la revisione del 2001 perché, ventun anni dopo nella XVIII legislatura, il Parlamento ha introdotto un comma con cui la ‘Repubblica riconosce le peculiarità delle Isole e promuove le misure necessarie a rimuovere gli svantaggi derivanti dall’insularità’. La formulazione del nuovo comma è assolutamente da condividere, tuttavia inspiegabili sono i motivi per cui non si è estesa questa disposizione all’intero Meridione.
La seconda questione che affronto è quella dei LEP, dato che lo Staff working Report, prima richiamato, evidenzia che i livelli dei servizi saranno erogati a risorse finanziarie invariate, dunque rimarranno carenti e forniti in modi diseguali tra territori, tra Nord e Sud, e tra aree metropolitane e aree periferiche.
La riscrittura completa dell’articolo 3 del ddl AS 615, è stata chiesta e ottenuta dal sen. Balboni presidente della I Commissione del Senato ed esponente di FdI. Nella versione originaria l’articolo 3 attribuiva la competenza a definire i LEP al Presidente del Consiglio attraverso l’emanazione di DPCM, coadiuvato da organi tecnici come la Cabina di regia e dalla CLEP, ora invece lo strumento prescelto è il decreto legislativo, che dunque rimette in gioco il Parlamento chiamato a dare il suo parere.
Tuttavia le nuove disposizioni invece di migliorare ingarbugliano il quadro: il nuovo articolo 3 afferma che il Governo è ‘delegato ad adottare, entro ventiquattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, uno o più decreti legislativi, sulla base dei principi e criteri direttivi di cui all’articolo 1, commi da 791 a 801-bis, della legge 30 dicembre 2022, n.197’. Ciò sta a significare che i principi direttivi non saranno disposti da una legge-delega varata ad hoc dal Parlamento ma che essi sono già contenuti nella legge di bilancio per il 2023.
So bene che la Corte Costituzionale ha avallato, solo in qualche caso però, la scelta di utilizzare quale legge delega una legge varata con altre finalità. Tuttavia in questo caso, data la complessità della materia, trattandosi infatti di servizi per garantire i diritti fondamentali, le disposizioni hanno dell’incredibile perché il Parlamento non sarà chiamato, in base alla Costituzione (art. 77, primo comma), a definire la legge-delega, in quanto i ‘principi’ sarebbero già stati dettati in precedenza dalla legge di bilancio.
Ora, leggendo la legge di bilancio (l. 197/2022), si scopre che i livelli necessari, ‘quale soglia di spesa costituzionalmente necessaria che costituisce nucleo invalicabile per erogare le prestazioni sociali di natura fondamentale’ devono rispettare ‘i rapporti finanziari tra lo Stato e le autonomie territoriali, per favorire un’equa ed efficiente allocazione delle risorse collegate al Piano nazionale di ripresa e resilienza …[e] il pieno superamento dei divari territoriali …’.
Ora bastano questi riferimenti per poter definire i livelli essenziali dei diritti sociali? I diritti sociali non possono dipendere dagli equilibri finanziari, quindi la legge di bilancio non è certo la sede dove emanare i principi della delega sui LEP, che devono essere finalizzati a garantire diritti soggettivi, quali sono i diritti sociali. Non può essere la legge di bilancio a definire i LEP, al contrario sono questi a dover orientare le scelte di bilancio.
La determinazione dei LEP è una scelta eminentemente politica, e, trattandosi dei livelli di prestazione dei servizi al fine di garantire la fruizione di diritti universali, dovrebbero essere di competenza del Parlamento, deliberati dunque con legge, dopo aver attivato non solo le normali procedure conoscitive, ma anche quelle del dibattito pubblico. In Italia esiste, con compiti limitati al tema delle infrastrutture, la Commissione Nazionale per il Dibattito Pubblico, le cui competenze sono state definite con DPCM 76 del 10 maggio 2018.
Essa andrebbe riorganizzata, con finalità più generali mediante una legge apposita, per consentire ai cittadini di partecipare alla fase istruttoria di normative che riguardino i loro diritti soggettivi, dando così attualità al vecchio brocardo ‘quel che tocca tutti, da tutti deve essere deciso’.
Includere i cittadini, attraverso le procedure della democrazia deliberativa, nella fase di predisposizione delle leggi potrebbe sanare la frattura tra rappresentanti e rappresentati e arrestare la tendenza sempre più forte all’astensionismo elettorale e al distacco dalle attività politiche.
A proposito dei LEP mi sia consentita una precisazione, di natura lessicale, ma con effetti sui significati delle disposizioni normative. Il legislatore della revisione del 2001, scelse l’aggettivo ‘essenziale’ per qualificare i livelli delle prestazioni (art. 117 Cost., comma secondo, lettera m).
Nelle disposizioni normative, siano esse leggi o DPCM o provvedimenti amministrativi, c’è stata una grande oscillazione dato che per es. la legge 833 del 1978, nota come riforma della sanità, utilizzò l’aggettivo ‘uniforme’ (art. 4), successivamente in altri atti normativi è stato utilizzato ‘essenziale’, ora all’art. 1 del ddl AC 1665 si usa ‘equo’ e in altri contesti anche ‘necessario’ o ‘invalicabile’; le stesse sentenze della Corte costituzionale hanno conosciuto oscillazioni lessicali (cito per tutte la sentenza 88/2003).
Incomprensibile la scelta fatta con la legge costituzionale 3/2001, dato che si poteva scegliere un termine più consono all’art. 3 Cost. anche trasponendo l’analoga disposizione del Grundgesetz (Art. 72, comma 2) che, pur sottoposto a revisione nel 2019, ha ribadito che lo Stato federale deve garantire die Herstellung gleichwertiger Lebensverhältnisse.
Questa espressione viene per solito resa con ‘la realizzazione di equivalenti condizioni di vita’, mentre il termine gleichwertig ha il significato letterale di ‘uguale valore’. ‘Uguale valore’ corrisponde, a mio avviso, meglio al dettato dell’articolo 3, secondo comma, della nostra Costituzione, in quanto non si devono garantire prestazioni uguali a persone che sono diverse tra loro, ma prestazioni diseguali per tener conto appunto delle diversità individuali – l’importante è che le prestazioni abbiano ‘ugual valore’, non che esse debbano essere identiche.
Per trarre le conclusioni di quanto fin qui argomentato, evito volutamente di ricorrere a costituzionalisti o ad esperti di finanza pubblica che potrebbero essere percepiti come ideologicamente orientati, riportando alcune valutazioni espresse in un recentissimo articolo dalla prof.ssa Floriana Cerniglia, direttrice CRANEC cioè del Centro di Ricerche in Analisi economica e sviluppo economico internazionale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Dapprima fa notare che la Commissione CLEP, presieduta dal prof. Cassese, ricostruiscono i LEP sulla base della normativa vigente, ‘un lavoro corposo … che fotografa lo status quo del nostro Paese per quanto concerne i diritti civili e sociali’, rileva poi che il ‘meccanismo di finanziamento del ddl Calderoli assegnerà le risorse che finanziano le materie e/o funzioni LEP sulla base di un’aliquota di compartecipazione al gettito che deve coprire un fabbisogno di spesa su ciascuna funzione. …
Ma, a causa dell’invarianza di bilancio (previsto dal ddl Calderoli) e della ‘LEP-fotografia’ della Commissione LEP, la CTFS’ – cioè la Commissione tecnica per i fabbisogni standard – ‘non potrà far altro che replicare la spesa storica. Se non ci sono risorse aggiuntive, i LEP sono fumo negli occhi e serviranno semplicemente a giustificare il calcolo di un fabbisogno da parte di una Commissione tecnica … rimescolando la spesa storica delle regioni’ (Il Sole 24 Ore, 21 marzo 2024, p. 16).
Come si vede la prof.ssa Cerniglia giunge alle stesse conclusioni critiche dello Staff Document prima citato. Un altro rilievo critico è che le Regioni che otterranno l’autonomia differenziata, avranno risorse decise da una Commissione paritetica , una per ogni Regione, ‘e non già da un organo istituzionale unico per tutte le regioni’. Con l’autonomia differenziata, conclude l’articolo su 24 Ore, a ‘rimetterci saranno tutti i cittadini del Nord e del Sud’, che disporranno di ‘minori risorse e minori servizi’.
Sono giudizi che spero la Commissione prenda in seria considerazione prima di procedere al proseguimento dell’iter legislativo del ddl AC 1665.
Il mio auspicio, a nome dell’Osservatorio UE, è che l’iter venga interrotto e si proceda prima alla revisione del Titolo V, come infelicemente novellato nel 2001. La riscrittura del Titolo V è stata proposta da diversi gruppi parlamentari e anche tramite una legge di iniziativa popolare (già respinta dal Senato). Le linee guida di una nuova revisione del Titolo V dovrebbero almeno prevedere:
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la soppressione del comma 3 dell’art. 116 Cost., per affermare i principi di un regionalismo cooperativo e solidale;
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la cancellazione ‘dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario’, in modo da riattivare i cd controlimiti che hanno consentito di sottoporre la normativa dell’UE allo scrutinio di legittimità costituzionale alla luce delle disposizioni della Carta del 1948;
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la reintroduzione della disposizione relativa ai contributi speciali per valorizzare il Mezzogiorno;
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la ridefinizione della ripartizione delle competenze legislative tra Stato e Regioni, tenendo presente l’opera di sistemazione compiuta dalla Corte costituzionale nel dirimere il contenzioso tra Stato e Regioni, e utilizzando anche le proposte avanzate dai ddl costituzionali in discussione nella I Commissione del Senato, con primi firmatari il sen. Giorgis (AS 744), il sen. Martella (AS 542) e la senatrice Pirro (AS 542).
Vi ringrazio per l’attenzione
*Osservatorio UE
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