Abbiamo reso conto proprio recentemente di come a Bruxelles abbiano deciso di fare sostanzialmente dietrofront rispetto alla transizione all’elettrico nell’automotive. Resisi conto di non poter competere con la Cina, che sul tema ha investito da tempo pianificando tutto il processo, la tutela dell’ambiente ha perso di interesse perché cozza col profitto.
Un paio di giorni fa, però, nella sua tradizionale conferenza di fine anno l’UNRAE, ovvero l’associazione delle case automobilistiche estere che operano in Italia, lo ha detto chiaro: il problema non è il green. La crisi delle filiere europee – e occidentali in generale, almeno in parte – ha origine nelle scelte dei produttori e nelle politiche del passato, e non potrà che peggiorare senza misure adeguate.
I dati parlano chiaro: tra il 2000 e il 2021 la produzione di auto nei cinque principali mercati europei (Italia, Spagna, Francia, Germania, Regno Unito) è passata da 15,4 a 9,2 milioni di unità, e anche il mercato nordamericano è calato di oltre il 14%. Tra il 2000 e oggi la Cina, dove la produzione era stata spostata per approfittare degli allora bassi salari, è passata a produrre da 2 a 30 milioni di veicoli.
Michele Crisci, presidente di UNRAE e di Volvo Italia, ha affermato che “la Cina ormai rappresenta il primo mercato mondiale per distacco rispetto al resto del mondo e chiaramente oggi i cinesi, per semplificare, stanno acquistando cinese“. In una UE fondata sul modello export-oriented ciò ha portato al disastro, ma la crisi riguarda tutto l’Occidente.
Sempre Crisci ha spiegato senza mezzi termini che, semmai, oggi sull’elettrico “l’Europa paga il prezzo di politiche incoerenti e dell’assenza di una visione strategica per accompagnare una transizione sostenibile, definita dagli obiettivi“. Una transizione che sia “economicamente e socialmente responsabile“.
Il Green Deal non è arrivato dal nulla, ma è solo l’ultima iniziativa dentro un quadro trentennale di impegno a ridurre le emissioni, seguendo rigorosamente le direttive e i regolementi europei. Il problema è piuttosto che queste linee sono intricate, sbagliano a indicare gli indirizzi da seguire e vengono per di più cambiate di continuo, rendendo impossibile programmare gli investimenti.
La questione è diventata macroscopica in Italia. Per fare un esempio, ad agosto il ministro Urso aveva esaltato i risultati ottenuti dall’Ecobonus, e aveva promesso che sarebbe stato trasformato in un vero piano triennale. A novembre ne annunciava la fine, perché per sua stessa ammissione non avevano avuto effetti positivi sulla produzione.
Anche per questo è chiaro che la soluzione promossa dall’UNRAE è solo parziale: altri incentivi, mentre di certo l’impulso da dare all’infrastruttura per la ricarica e un piano per il riciclo dei componenti sarebbe invece molto utile. Difatti, lo stesso Andrea Cardinali, direttore generale dell’UNRAE, ha detto che è più il secondo tema che il primo a frenare gli acquisti nel Bel Paese.
A suo avviso non c’entrano molto i redditi degli italiani, ma allo stesso tempo ha riportato dati che sembrano contraddirlo, ricordando che il nodo centrale rimane che la filiera può funzionare solo se c’è domanda. “Il prezzo medio di un’auto è aumentato del 58% dal 2011 a 2023“, ha ricordato, perché “il costo industriale è aumentato drammaticamente per l’impennata di tutti i costi di produzione“, energia in primis.
“Fatto 100 per i dati del 2011“, ha continuato, “oggi la media del costo delle vetture è a 158, mentre il reddito degli italiani è a 122: certo, il mix e i contenuti delle vetture non sono paragonabili fra il 2011 e il 2024 ma nello stesso lasso di tempo il costo di abitazioni e utenze è salito a quota 163. Comprensibile che, in questo scenario di entrate e di spese, una famiglia media rinuncia a comprare l’auto“.
L’UNRAE stima che quest’anno verranno vendute in Italia 1,5 milioni di auto, poco meno della cifra del 2023, ma ben 350 mila unità sotto i livelli del 2019, mentre si rafforza il mercato dell’usato. Anche se non allo stesso modo, le stesse dinamiche di fondo sono state vissute da tutta Europa: nel 2019 venivano immatricolate ogni anno 15,8 milioni di vetture, mentre nei primi 10 mesi del 2024 sono diventate 10,8.
È scontato che le cifre non raggiungeranno l’anno precedente alla pandemia. E quello che è poi la questione di fondo l’ha detta, tra le righe, di nuovo Crisci: “l’introduzione di nuove tecnologie tende inevitabilmente a soppiantare quelle esistenti, generando spesso conflitti e resistenze. In questo contesto, politica e media talvolta oscillano tra posizioni contrastanti, e questa incertezza rischia di danneggiare il settore“.
La sfida sull’auto elettrica era sull’innovazione, ed evidentemente la UE l’ha persa nei confronti della Cina. Serve una strategia solida, basta col trovare un capro espiatorio per non ammettere il fallimento di decenni in cui si è promosso il privato come strada migliore per affrontare la competizione globale, mentre Pechino pianificava lo sviluppo della sua collettività, sotto tutti gli aspetti.
Ovviamente, non sentiremo dai produttori di vetture l’attacco all’inadeguatezza dello spirito imprenditoriale occidentale. Sentiremo parlare ancora di incentivi, probabilmente. Ma il nodo è quello, e come l’automotive europeo sia entrato in un circolo vizioso in cui la compressione del mercato interno alimenta l’instabilità del settore, e quest’ultima a sua volta lo fa dal punto di vista della domanda.
Roberto Vavassori, presidente dell’Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica (ANFIA), tra il mancato raggiungimento degli obiettivi di produzione di Stellantis e la volontà di Volkswagen di tagliare 15 mila dipendenti, afferma che “saranno almeno 45 mila i dipendenti che perderanno il lavoro nelle aziende fornitrici, anche quelle italiane“.
Vavassori ha poi sottolineato come “la sovracapacità produttiva, ormai strutturale, è un tema dirimente per i costruttori europei, che, per cercare di mantenere competitività nei confronti dell’arrembante avanzata cinese, stanno facendo susseguire annunci di possibili chiusure di stabilimenti europei“. Permettetici di sottolinearlo: crisi di sovraproduzione, come nella più tradizionale lettura di Karl Marx.
Uno studio di ANFIA con la società di consulenza finanziaria Alix Partners ha stimato che l’evoluzione dei volumi negli ultimi mesi “anticipa già nel 2025 i possibili impatti occupazionali di quanto si stimava solo un anno fa come effetto al 2030 della sola transizione elettrica“. Senza che la transizione all’elettrico sia stata fatta – appunto, un altro capro espiatorio per il fallimento della classe dirigente europea -.
Secondo questa analisi, sono 38 mila i posti di lavoro a rischio, 26 mila legati a riduzioni strutturali e 12 mila a crisi aziendali. Per Alix Partners, inoltre, sono numeri parziali e il totale potrebbe essere persino maggiore, essendo esclusi dallo studio i produttori di apparecchiature originali e l’impatto su altre filiere come logistica, sicurezza e macchine utensili.
Vavassori ha dunque sostenuto la necessità di introdurre ulteriori ammortizzatori sociali e poi il “credito d’imposta diretto per attività di ricerca e sviluppo sulle traiettorie tecnologiche della nuova mobilità, riduzione dei costi delle bollette energetiche degli stabilimenti produttivi della filiera e proroga dell’Ecobonus per i veicoli commerciali“.
Prima vengono evidenziati i reali problemi alla base della crisi dell’automotive, che non è tanto nell’elettrico quanto nella sconfitta nella competizione tecnologica, nell’irrazionalità nella gestione del mercato da parte del privato dovuta innanzitutto alla mancanza di una pianificazione pubblica centralizzata, nella compressione del mercato interno.
E poi vengono proposte come soluzioni, ancora una volta, tutte misure sul lato dei produttori, ovvero sul lato di chi, con lo sguardo corto dei risultati trimestrali di bilancio, continuerà su questa strada fino a creare una vera e propria emergenza sociale, cancellando decine di migliaia di posti di lavoro.
La soluzione non è in altri sussidi al privato, ma è nel superamento del modello in cui il privato è giudice, giuria e boia di ogni scelta politica.
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