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Il “modello americano” e la crisi della globalizzazione
Dopo la seconda guerra mondiale, gli Stati Uniti hanno attraversato due fasi: la fase della “guerra fredda” con l’Unione Sovietica e il campo socialista (1947-1991) e la fase del mondo unipolare (1991-2024). Nella prima, gli Stati Uniti si confrontavano alla pari con l’Unione Sovietica, mentre nella seconda hanno completamente sconfitto l’avversario e sono diventati l’unica superpotenza politico-ideologica e militare di dimensioni mondiali.
Il capitale finanziario, dotato di tutte le opportune ramificazioni nei partiti e in altre istituzioni, ha così assunto il ruolo di guida di una strategia di dominio mondiale. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, questo dominio si è rivestito di un’ideologia di sinistra liberale fondata sulla combinazione fra gli interessi del grande capitale internazionale e una cultura individualista di taglio ‘progressista’: ideologia che ha trovato la sua piena espressione politica nel Partito Democratico statunitense.
A questo punto, sembrava che tutti i paesi del mondo avessero adottato, nella loro concreta articolazione di Stati e di società, il modello americano: democrazia politica rappresentativa, economia di mercato capitalista, ideologia individualista e cosmopolita dei diritti umani, tecnologia digitale, cultura postmoderna incentrata sull’Occidente.
Tuttavia, fin dai primi anni Novanta, tra gli intellettuali americani si manifestarono posizioni che ponevano in luce il carattere mistificante ed illusorio di questa visione. Tali posizioni trovarono un’espressione incisiva nell’analisi di Samuel Huntington, il quale previde come inevitabili lo “scontro delle civiltà”, il rafforzamento del multipolarismo e la crisi della globalizzazione incentrata sull’Occidente capitalistico. 1
Partendo da queste premesse, il politologo statunitense elaborò il progetto di una riforma, per così dire di stampo “dioclezianeo”, dell’Impero, sostenendo che l’identità americana dovesse essere rafforzata piuttosto che indebolita e che gli altri paesi occidentali dovessero essere uniti nell’ambito di un’unica civiltà occidentale, non più globale ma regionale. 2
Sennonché il ‘brain trust’ del capitale finanziario fece sua la concezione trionfalistica della “fine della storia” sostenuta dal principale avversario di Huntington, Francis Fukuyama. 3 Tale concezione ha orientato, eccettuata la prima presidenza Trump, l’azione di tutti i presidenti degli Stati Uniti che si sono succeduti nell’ultimo trentennio – Clinton, Bush, Obama e Biden -, traducendosi in un’unica strategia politico-ideologica: globalismo, liberalismo, unipolarismo, egemonia.
Ma questa strategia, proprio quando sembrava celebrare la sua piena e incontrastata affermazione consacrando il dominio mondiale del globalismo democratico-imperialista americano, ha urtato contro tutta una serie di ostacoli già a partire dai primi anni 2000: la Russia si è svincolata dalla tutela degli Stati Uniti e ha iniziato a rafforzare la propria sovranità, come dimostrarono il discorso tenuto da Putin a Monaco nel 2007, gli eventi in Georgia nel 2008, la riunificazione con la Crimea nel 2014 e l’intervento militare in Ucraina nel 2022.
Dal canto suo, la Cina, soprattutto sotto la guida di Xi Jinping, ha consolidato una politica indipendente, cercando di trarre vantaggio dalla globalizzazione, ma ponendo, nel contempo, una solida barriera ad essa, non appena la logica del capitale finanziario transnazionale entra in conflitto con gli interessi nazionali e minaccia di indebolire la sovranità.
Per quanto concerne il mondo islamico, questo ha manifestato la sua protesta contro il modello occidentale sia sul piano dell’affermazione di una maggiore indipendenza economica sia sul piano del rifiuto dei valori liberali imposti in nome di quel modello. Anche il vasto subcontinente indiano è entrato in fermento: basti pensare all’India, dove i nazionalisti di destra e i tradizionalisti sono saliti al potere con il primo ministro Narendra Modi.
Parimenti, un’ondata di pulsioni anticolonialiste e di forti aspirazioni all’indipendenza dagli Stati Uniti e dall’Occidente capitalistico nel suo complesso si è levata nel continente africano, così come nei paesi dell’America Latina. Il frutto di questo sommovimento nei rapporti interni alla formazione imperialistica mondiale dominata dagli Stati Uniti è stato la creazione dei BRICS, ossia l’aggregazione di un sistema internazionale multipolare sempre più indipendente dall’Occidente.
Il capitale finanziario americano si è quindi trovato di fronte ad un serio problema: se continuare a ignorare la crescita di contraddizioni tendenzialmente antagonistiche, cercando di depotenziarle attraverso i flussi informativi, le narrazioni dominanti e, quando tali mezzi si rivelavano insufficienti, attraverso la censura diretta nei ‘mass media’ e nelle reti sociali, oppure se prendere in considerazione queste tendenze e cercare di rispondere ad esse in modo nuovo, cambiando la propria strategia di base di fronte ad una realtà che non corrisponde più alla valutazione soggettiva formulata da un gruppo di analisti americani.
Ecco perché è importante conoscere l’ideologia di Trump, ossia una concezione che non è liberale, 4 non è globalista e si oppone alla tendenza che oggi segue l’Occidente, riassumibile nella formula: “LGBT, post-umanesimo, ecologia radicale, culture di genere”, laddove è da notare che questa tendenza coinvolge i centri ideologici, economici, finanziari e culturali più forti del capitalismo monopolistico, annoverando esponenti quali Bernard-Henri Levy, Yuval Harari e Klaus Schwab, quindi non solo i democratici americani ma l’élite liberale di tutti i paesi occidentali.
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Il “fattore Trump”: un riflesso della ristrutturazione dell’imperialismo americano
La categoria di imperialismo rivela tutta la sua produttività dal punto di vista conoscitivo, allorquando viene applicata all’analisi del conflitto intra-imperialistico (ossia tra i vari capitali di una stessa potenza imperialistica) mediante la ricognizione puntuale della composizione del potere economico statunitense e delle contraddizioni che lo attraversano nell’attuale congiuntura.
Da questo punto di vista, è possibile affermare che lo scontro interno al capitale finanziario statunitense è stato guidato, nel periodo delle presidenze ‘democratiche’, dai settori ad alta tecnologia (aerospazio, finanza, armi, elettronica, informatica, ‘mass media’, farmaceutica, ‘green economy’) ai danni dei settori tradizionali (petrolio-gas-carbone, trasporti, turismo, agricoltura, manifatturiero, immobiliare, alimentare, tessile).
All’inizio del conflitto i fattori di convergenza tra i due settori prevalevano sui fattori di divergenza, poiché nel pieno di quella congiuntura critica (2022-23) lo scontro interno al capitale statunitense si scaricava sul contesto russo-ucraino in due modi: per un verso, accelerando il processo di penetrazione dei capitali ‘verdi’ in Europa; per un altro verso, offrendo sbocco al settore petrolifero Usa, in difficoltà sul fronte interno.
In quella fase, un’accelerazione delle tensioni in Ucraina piaceva ad entrambi gli schieramenti: da una parte, consentiva alle multinazionali ‘green’ di andare alla conquista del mercato europeo; dall’altra, dava modo alle compagnie petrolifere di rifarsi all’estero della sconfitta subita in patria.
Dopodiché, a mano a mano che l’offensiva russa penetrava nel territorio dell’Ucraina dell’est e del sud e la controffensiva ucraina veniva o circoscritta o respinta, i settori tradizionali del capitale americano hanno pragmaticamente preso atto della inevitabile sconfitta dell’Ucraina e della superiorità schiacciante delle forze armate russe, cambiando di 90 gradi (se non di 180) la posizione assunta in quella guerra per procura dall’amministrazione Biden e ponendo in atto lo sganciamento progressivo da un conflitto sempre più svantaggioso per gli Stati Uniti.
Tale sganciamento, accompagnato dal riconoscimento del ruolo storico, attuale e futuro della Russia sulla scena mondiale (non a caso si parla con sempre maggiore frequenza di una “Yalta 2”), si è prodotto fra lo sconcerto, la rabbia e la frustrazione degli alleati europei, sempre più divisi al loro interno e incapaci di superare, tanto più nel corso di una congiuntura internazionale che produce effetti divaricanti, i tre limiti strutturali dell’Unione Europea: la mancanza di una lingua comune, di un sistema fiscale unico e di un esercito europeo.
Del resto, il discorso riguardante i diversi settori del capitale americano vale anche, a livello strettamente politico, per la complementarità (“le due ali dell’aquila”) tra la strategia di Trump e la strategia di Biden, fermo restando che, pur avendo esse in comune l’obiettivo strategico (attaccare la Cina), la strategia di Trump punta a distaccare la Russia dalla Cina e a stabilire con la prima un ‘modus vivendi’ per poi rivolgere il colpo fondamentale contro la seconda, mentre la strategia di Biden mirava a piegare definitivamente la Russia dividendola in più tronconi mediante l’arma delle “rivoluzioni colorate” e proseguendo, a tal fine, la penetrazione militare in Asia centrale, così da realizzare in prospettiva l’accerchiamento della Cina.
È evidente che la differenza tra queste due linee consisteva nel grado di pericolosità insito in esse: se fosse prevalsa la strategia di Biden, ogni indebolimento della Russia avrebbe rappresentato un passo in più verso la guerra mondiale, mentre è un dato di fatto indiscutibile che Trump non ha iniziato alcuna guerra durante il suo primo mandato e si propone di agire nella stessa direzione nel corso del presente mandato disinnescando il conflitto russo-ucraino, prendendo le distanze dal corrotto governo di Zelensky, emarginando i suoi velleitari alleati europei e svuotando di senso la stessa NATO.
Dopo la fine del primo mandato, i gruppi dominanti del capitale finanziario hanno sostenuto Biden e il Partito Democratico, manipolando le elezioni ed esercitando una pressione senza precedenti su Trump, che vedevano come una minaccia all’intero corso della politica unipolare globalista che gli Stati Uniti avevano seguito per decenni.
Lo stesso slogan della campagna elettorale di Biden, “Build Back Better”, cioè “Costruiamo di nuovo meglio”, indicava che dopo il “fallimento” della prima amministrazione Trump si doveva riprendere il programma liberale globalista, il che significava, sul terreno della politica estera, infliggere una sconfitta strategica alla Russia, fermare l’espansione regionale della Cina (si pensi al progetto della “Via della Seta”), sabotare i BRICS e altre tendenze verso il multipolarismo, reprimere le tendenze populiste negli Stati Uniti e in Europa ed eliminare Trump, come si è cercato di fare sul piano legale, su quello politico e su quello fisico.
Sennonché attuare una svolta autoritaria e tendenzialmente totalitaria all’insegna di una cultura liberale individualistica e postmoderna significava avvolgersi in una spirale di contraddizioni sempre più acute sia nella politica interna sia nella politica estera.
Nel frattempo, si assisteva negli Stati Uniti e in Europa ad un crescente rifiuto della cosiddetta “cultura woke”: un modello di comportamento imposto dalle ‘élite’ liberali, fondato sui princìpi dell’ultraindividualismo, della “cultura di genere”, del femminismo, dei diritti LGBT, del sostegno alle migrazioni, comprese quelle clandestine, della teoria postcoloniale e così via. Era ormai evidente che Biden non avrebbe avuto successo nel suo tentativo di rilancio del programma liberale borghese.
La Russia, guidata da un governo che è rimasto saldamente nelle mani di Putin (non si dimentichi la ribellione di cui fu protagonista nel 2023 Prigožin, imprenditore e capo di milizie mercenarie), non si è arresa e ha resistito a pressioni senza precedenti: sanzioni, scontro con il regime terroristico ucraino sostenuto da tutti i paesi occidentali, sfide all’economia e un forte calo nella vendita di risorse naturali, esclusione dall’alta tecnologia.
Anche la Cina non ha decampato dalla sua politica di indipendenza e ha continuato la sua guerra commerciale con gli Stati Uniti. Dal canto loro, i BRICS hanno dimostrato, sancendo l’ascesa del multipolarismo, di essere un nuovo soggetto della scena politica ed economica mondiale nello storico incontro che si è svolto a Kazan, nel territorio della Russia in guerra con l’Occidente.
Nello scacchiere mediorientale lo Stato di Israele, infrangendo ogni norma del diritto internazionale nel silenzio e con la complicità di tutti i governi dell’Occidente filosionista, a partire da quello americano, ha commesso un genocidio a Gaza e in Libano, mentre il governo di Assad in Siria si è dissolto ad opera del fondamentalismo sunnita appoggiato dalla Turchia neo-ottomana e dagli stessi Stati Uniti, aprendo la via alla penetrazione dello Stato israeliano anche in questo territorio strategico.
Ma chi, fra i capi di governo e di Stato del mondo attuale, ha dimostrato le maggiori capacità di resistenza e di resilienza è stato Trump, il quale, lungi dal deporre le armi e abbandonare l’agone politico, non si è arreso e ha consolidato la sua ‘leadership’ all’interno del Partito Repubblicano su una scala senza precedenti, continuando e persino radicalizzando la sua politica populista e nazionalista.
Così, attorno a Trump e al suo ruolo, coesivo non meno che aggressivo, di alfiere del movimento populista e nazionalista americano è andata nascendo un’ideologia indipendente. La tesi principale di tale ideologia consiste nel sostenere che il globalismo propugnato e in parte realizzato dalla frazione liberale del blocco capitalistico statunitense è stato sconfitto e che la sconfitta non è dovuta ai nemici o alla propaganda, ma ad uno stato di cose reale.
Il corollario derivante da questa tesi è che risulta necessario seguire il programma di Huntington e non quello di Fukuyama, ossia tornare alla politica del realismo e ricondurre l’ideologia americana alle fonti del primo liberalismo classico, dunque al protezionismo nella politica economica e, sul piano geopolitico, ad un nazionalismo di stile muscolare. È questo il progetto riassunto nell’acronimo MAGA: “Make America Great Again”.
Trump è dunque riuscito a situare la sua posizione nell’orizzonte dello spazio ideologico americano e questa organicità e funzionalità spiega non solo il suo enorme successo tra le masse popolari americane, pur così eterogenee per origine e per cultura, ma anche l’investitura che, mutando la sua scelta di campo e riconoscendo la realtà della crisi del globalismo, gli hanno tributato i magnati dell’industria e della finanza.
A questo punto, le elezioni si sono trasformate in un plebiscito di stampo bonapartista per il “prescelto di Dio”, il quale, in una repubblica federale dove vi è addirittura uno Stato che si fregia del motto “Deus ditat” (‘Dio arricchisce’), ha potuto raccogliere attorno a sé un gruppo radicale di miliardari e ideologi trumpisti, rappresentati da personaggi pittoreschi come Elon Musk, James Vance, Peter Thiel, Robert Kennedy Jr., Tulsi Gabbard ed alcuni altri che avremo sicuramente modo di conoscere nei prossimi anni.
Orbene, il punto archimedico è questo: il grande capitale americano, avendo riconosciuto Trump, si è reso conto della necessità oggettiva di rivedere la strategia globale degli Stati Uniti in termini di ideologia, di geopolitica e di diplomazia.
Il revisionismo nella politica interna ed estera, declinato in chiave nazionalista e populista da quello che è ancora lo Stato capitalistico più potente del mondo (si pensi alle tre rivendicazioni avanzate da Trump: l’acquisto della Groenlandia, l’integrazione del Canada come 51° Stato degli Stati Uniti e il ritorno della sovranità statunitense sul canale di Panama), non è più un incidente di percorso che ha temporaneamente ostacolato “le sorti magnifiche e progressive” dell’imperialismo democratico americano, ma è l’espressione della crisi reale di quest’ultimo e della sua fine.
L’attuale presidenza di Trump non si inscrive pertanto nella consueta logica dell’alternanza di democratici e repubblicani che perseguono essenzialmente la stessa linea, ma segna l’inizio di una nuova svolta nella storia dell’egemonia esercitata dagli Stati Uniti, perché mira ad una profonda revisione della strategia, della ideologia, del progetto e delle strutture di questo grande paese, il cui fine è garantire l’egemonia degli Stati Uniti nel XXI secolo ed oltre.
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Il trumpismo: rinascita di un’antica ideologia
Per comprendere la natura e la funzione dell’ideologia trumpista occorre muovere dalla individuazione di ciò che essa nega. E, innanzitutto, essa nega il globalismo, il liberalismo di sinistra ‘progressista’ e il ‘woke’.
Il trumpismo si contrappone rigidamente e apertamente al globalismo, cioè ad un modo di pensare l’umanità come un unico mercato e un unico spazio culturale in cui i confini tra gli Stati nazionali sono sempre più labili e gli stessi Stati vengono progressivamente destituiti a favore di organismi sovrannazionali (come l’Unione Europea), i quali, nella visione di esponenti del globalismo quali Klaus Schwab, Bill Gates e George Soros, costituiscono le tappe intermedie di un processo la cui meta finale è l’istituzione di un governo mondiale.
Al contrario, il trumpismo riafferma l’importanza degli Stati nazionali, ponendo l’accento sulla loro integrazione nelle civiltà e facendo valere, in particolare, il ruolo guida degli Stati Uniti nel contesto della civiltà occidentale.
Questo aspetto, nel mentre implica un approccio realistico nelle relazioni internazionali, cioè fondato sul riconoscimento della sovranità nazionale e non sulla sua abolizione, richiama esplicitamente la concezione peculiare di Huntington, che ha sostenuto la necessità storica del rafforzamento dell’Occidente nel confronto con le altre civiltà. Discendono da questo aspetto, quali inevitabili corollari, le critiche alle vaccinazioni e all’ecologia.
Gli altri bersagli contro i quali l’ideologia trumpista conduce la sua battaglia tradizionalista sono quelli rappresentati dalla cosiddetta ideologia ‘woke’, consistente nella “cultura di genere” e nella politica che ne consegue (entrambe giudicate aberranti), nella teoria postcoloniale che invita i popoli precedentemente oppressi a vendicarsi dei bianchi, nell’incoraggiamento della migrazione, nella “cancel culture” basata sul boicottaggio delle posizioni non omologate al “pensiero unico” e sulla censura esercitata per proteggere i dogmi del liberalismo della sinistra “progressista” e imporre l’ortodossia del “politicamente corretto”.
Rifiutando il paradigma “progressista” e anti-tradizionalista e le modalità autoritarie con cui esso viene inculcato, l’ideologia trumpista assume una caratterizzazione decisamente antitetica alla cultura “woke”, che viene negata e irrisa in nome di quei valori tradizionali (patria, famiglia, proprietà, moralità, legge e ordine) che, agli occhi dei sostenitori della “sana” ideologia trumpista, rappresentano il patrimonio spirituale peculiare degli Stati Uniti e della civiltà occidentale.
Così, al posto della criminalizzazione subentra la riabilitazione della civiltà bianca, che tuttavia non si spinge fino a comprendere le posizioni estreme del suprematismo o del razzismo bianco, contigue ma non coincidenti con l’ideologia trumpista.
La bestia nera del trumpismo è, senz’altro, la migrazione, che va ridotta e ostacolata con restrizioni severe e con un divieto totale della immigrazione clandestina che include anche la deportazione. Da questo punto di vista, i trumpisti esigono un’identità nazionale comune, per cui tutti coloro che arrivano nelle società occidentali provenendo da altre civiltà e culture devono accettare i valori tradizionali delle società che li accolgono, invece di essere lasciati a sé stessi, secondo l’opposto punto di vista e la corrispondente pratica del multiculturalismo liberale.
La preoccupazione che motiva la particolare durezza con cui il trumpismo persegue gli immigrati clandestini e punta a limitare il flusso di migranti dall’America Latina, nasce dalla constatazione che tali processi, peraltro in sé irreversibili data la struttura della formazione imperialistica mondiale, stanno cambiando l’equilibrio etnico di interi Stati, dove i ‘latinos’ stanno diventando la maggioranza.
Analoghe preoccupazioni hanno per oggetto le comunità islamiche e cinesi, anch’esse in costante crescita e rinserrate nelle loro culture identitarie, viste nell’ottica trumpista come potenzialmente eversive.
Merita poi di essere considerato con attenzione il motivo per cui i trumpisti si oppongono alla censura di sinistra. A giudizio, infatti, dei trumpisti, con il pretesto della correttezza politica e della lotta all’estremismo, i liberali hanno costruito un elaborato sistema di manipolazione dell’opinione pubblica, abolendo di fatto la libertà di parola sia nei media tradizionali che nelle reti sociali di comunicazione che essi controllano.
Chiunque si opponga o si discosti anche solo lievemente dal paradigma della sinistra liberale viene immediatamente bollato come “appartenente all’estrema destra”, “razzista”, “fascista” e “nazista”, e sottoposto non solo all’esclusione ma a procedure sanzionatorie che possono spingersi fino alla reclusione. La censura è diventata gradualmente totale e il trumpismo stesso, assieme ad altre tendenze anti-globaliste come le correnti populiste europee, è diventato il suo bersaglio immediato.
Che questo ostracismo possa essere applicato a chi sostiene posizioni in contrasto con l’ortodossia del “politicamente corretto” e, in generale, con il “pensiero unico” dipende in buona sostanza, secondo i trumpisti, dal fatto che le ‘élite’ liberali considerano i cittadini comuni come soggetti ‘minoris juris’ della società, cioè deboli e inconsapevoli, e hanno ridefinito la democrazia non come “regola della maggioranza” ma come “regola della minoranza”.
Tutto ciò che si discosta dai dogmi del liberalismo “di sinistra”, quali sono il genere, le migrazioni, la teoria postcoloniale, le vaccinazioni e così via, è stato definito, a causa di questa deriva sempre più intollerante ed autoritaria, come inammissibile, quindi perseguito e bloccato.
In effetti, proprio perché la contrapposizione del trumpismo alla suddetta deriva è totale, non meno radicale è la rivendicazione, avanzata dal trumpismo, del ritorno ad una piena libertà di parola dopo un periodo di progressiva e pressoché completa abolizione della medesima. In questo senso, la difesa della libertà di opinione, estesa formalmente a tutta la gamma delle possibili ideologie (dall’estrema destra all’estrema sinistra), è alla base dell’ideologia del trumpismo.
Rilevare l’origine antica dell’ideologia qui esaminata non significa semplicemente richiamare le fonti bibliche del fondamentalismo protestante, alle quali essa indubbiamente si alimenta, ma ripercorrere a ritroso l’itinerario storico da cui questa ideologia proviene, fissando nella fattispecie una norma che i liberali “progressisti” hanno fatto propria, mutuandola da filosofi come Friedrich von Hayek, esponente del liberalismo radicale e fondatore del neoliberismo: in altri termini, essi (i liberali “progressisti”) hanno cercato di sradicare qualsiasi forma di identità collettiva, portando l’individualismo all’assurdo.
Un esponente di primo piano di questa corrente è Karl Popper, il quale, seguendo le orme di von Hayek, ha sviluppato una critica alle ideologie totalitarie del fascismo e del comunismo, rivolgendola anche a Platone ed Hegel. Egli definisce i liberali e i sostenitori del liberalismo “società aperta”, mentre tutti coloro che la pensano diversamente vengono definiti “nemici della società aperta” e, in quanto tali, da perseguire e perfino da eliminare con la pena capitale, prima che possano danneggiare la “società aperta” od ostacolare il suo funzionamento. 5
Il discepolo di Popper, l’imprenditore George Soros, si spinge ancora più in là in questa direzione, chiedendo il rovesciamento di tutti i regimi da lui ritenuti illiberali, il sostegno ai movimenti più radicali, anche di tipo terroristico, che si oppongono a questi regimi e la criminalizzazione e l’eliminazione degli oppositori della “società aperta” di popperiana memoria nello stesso Occidente.
È da notare che, nel suo ‘furor’ liberale, Soros ha dichiarato Trump, Putin, Modi, Xi Jinping e Orban come suoi ‘nemici personali’. Dal canto suo, il trumpismo vuole invertire la sequenza Hayek-Popper-Soros e tornare all’inizio, cioè al liberalismo permissivo, antitotalitario e in qualche modo ‘classico’ di von Hayek. Confermando il carattere antico (anche se circoscritto, in questo caso, all’àmbito storicamente moderno) dell’ideologia trumpista, alcuni suoi sostenitori si spingono ancora più in là e chiedono un ritorno al tradizionalismo americano delle “radici”, che ha preceduto la guerra civile americana.
Infine, un grande tema che caratterizza il trumpismo sul terreno della politica estera è il sostegno a Israele e all’estrema destra israeliana. Certo, all’interno della corrente politico-ideologica qui esaminata esiste anche un settore antisionista, ma il settore predominante è decisamente quello filosionista. Il che spiega la genesi antica dell’ideologia trumpista e il nesso con la concezione protestante del giudeo-cristianesimo, che attende la venuta del Messia (‘mashiach’ nella lingua ebraica) come fattore di conversione degli ebrei al cristianesimo.
La concezione in parola motiva il generale rifiuto dell’Islàm, laddove l’islamofobia dei trumpisti alimenta la loro solidarietà con Israele (e viceversa), generando uno dei vettori più importanti della loro politica nel Medio Oriente.
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La plutocrazia trumpista e il progetto della “renovatio Imperii”
L’ideologia trumpista ha almeno due anime, dal cui contrasto nascono le divisioni che attraversano il movimento nazionalista e populista capeggiato dall’attuale presidente degli Stati Uniti: si tratta del conflitto tra tecnocrati di destra e tradizionalisti di destra. Il rappresentante indiscusso e il simbolo della “destra tecnocratica” è l’imprenditore miliardario Elon Musk.
Questi combina ecletticamente, all’insegna di una sensibilità culturale postmoderna, il futurismo tecnologico, le famose promesse di un volo umano su Marte e lo sviluppo di nuovi artefatti con la promozione dei valori tradizionali e il sostegno attivo e aggressivo del populismo di destra. In questo senso, Elon Musk, braccio destro di Trump, il creatore di PayPal, Peter Thiel, e il creatore di Meta, Mark Zuckerberg, rappresentano, all’interno del movimento trumpista, l’anima dei “tecnocrati di destra”.
Ma all’interno degli Stati Uniti si è già formato un gruppo di oppositori, rappresentato principalmente da Steve Bannon, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Trump (nel primo mandato). Questi e i suoi sostenitori sono stati classificati, per le loro posizioni politico-ideologiche, come “destra tradizionalista”. Un primo conflitto è sorto, per l’appunto, sulla concessione dei permessi di soggiorno agli immigrati legali, che Musk ha sostenuto e Bannon ha nettamente contrastato.
Sul terreno della politica estera, il progetto di Trump consiste nel ritorno alla dottrina Monroe dopo un secolo di dominio della dottrina Wilson. La dottrina Monroe fu enunciata nel 1823 dal presidente James Monroe, il quale dichiarò che la priorità della politica estera statunitense era l’instaurazione del controllo sul continente nordamericano e, in parte, su quello sudamericano, con l’obiettivo di indebolire ed eliminare l’influenza delle potenze europee del Vecchio Mondo sul Nuovo Mondo.
La dottrina Wilson, delineata dal presidente Woodrow Wilson nel 1918, 6 divenne il vangelo dei globalisti americani, in quanto spostò l’attenzione dagli Stati Uniti come Stato-nazione alla missione planetaria di estendere le norme della democrazia liberale borghese a tutta l’umanità e di garantirne le strutture su scala globale.
Se l’indirizzo di politica estera della dottrina Monroe può essere definito con il termine di “isolazionismo”, l’indirizzo che contraddistingue la dottrina Wilson può essere connotato come “globalismo” o “interventismo”, laddove con il secondo termine viene indicata e giustificata la strategia basata sull’interferenza politica e sull’intervento militare, che ha dominato l’azione degli Stati Uniti nel corso del XX secolo e, in particolare, negli ultimi decenni.
Imitando Soros, ma in senso contrario, Musk si è immediatamente adoperato, prima ancora che Trump venisse insediato nella carica di presidente, per rimuovere i leader sgraditi agli Stati Uniti d’America. Così, senza por tempo in mezzo, ha iniziato a condurre campagne politiche di appoggio ai populisti europei come “Alternativa per la Germania” e la sua leader Alice Weidel, Nigel Farage in Gran Bretagna, Marine Le Pen in Francia.
I liberali europei sono rimasti completamente sconcertati dall’attivismo politico della nuova amministrazione statunitense e hanno contestato la sua interferenza diretta nella politica europea, al che Musk e i trumpisti hanno ragionevolmente fatto notare che nessuno ha contestato Soros e la sua interferenza. Di conseguenza, Musk e gli altri esponenti della plutocrazia mondiale che si è schierata con Trump si stanno adoperando a smantellare l’apparato “politicamente corretto” in Europa e a sostenere i leader populisti che condividono le concezioni e gli obiettivi trumpisti.
L’Ungheria di Orban, la Slovacchia di Fico e l’Italia della Meloni sono stati i più facili da cooptare in questo modello, cioè quei regimi che hanno già puntato sui valori tradizionali e si sono opposti a quell’apparato con vari gradi di fermezza. Questo dinamismo è politicamente doloroso per i governanti europei, che con un lungo tirocinio avevano imparato a soddisfare obbedientemente i desideri del loro padrone come animali ammaestrati in un circo.
Ora si chiede loro di suonare un’altra musica: alcuni si rifiuteranno, altri resisteranno. Ma il processo è stato avviato: il movimento nazionalista e populista guidato da Trump sta demolendo l’apparato liberale e liberoscambista in Europa. Questo movimento punta a creare una civiltà integrata sia sul piano geopolitico che sul piano ideologico (Huntington ‘docet’).
L’obiettivo è la “renovatio Imperii”, esattamente come accadde con la politica intrapresa e portata a compimento dall’imperatore d’Oriente Giustiniano nel VI secolo d.C.
Naturalmente, non mancano gli ostacoli che si frappongono a questo ambizioso progetto e basta citarne almeno tre: nello scacchiere mediorientale l’Iran sciita, particolarmente attivo nella sua politica antisionista; nello scacchiere mondiale, la Cina, oggetto di una ostilità economica e finanziaria che la vasta presenza della comunità cinese anche all’interno degli Stati Uniti non può che rendere ancora più aspra; nel “cortile di casa”, ossia nell’America centrale, il grande serbatoio umano dell’immigrazione negli Stati Uniti.
Questi ostacoli costituiscono una minaccia che la dottrina Monroe, verso la quale Trump si sta muovendo, non può tollerare, ma la loro eliminazione implica un dominio incondizionato degli Stati Uniti nel Nuovo Mondo, che è in palese contrasto con la formazione di un polo indipendente in America Latina e, ad esempio, con relazioni di buon vicinato con il Messico.
Infine, vi è la questione dell’Ucraina, dove, se non sarà possibile arrivare rapidamente ad una pace con la Russia, Trump lascerà che siano i regimi globalisti europei a risolvere la questione, ovviamente con grave pregiudizio per loro e notevole vantaggio per gli Stati Uniti. Resta inteso infatti che, se nel conflitto russo-ucraino Trump non assume una posizione ostentatamente filorussa, ritiene però che il sostegno in grande stile all’Ucraina, come è avvenuto con Biden, è per lui impossibile.
In conclusione, se è vero che il trumpismo è una nuova versione dell’egemonia americana, è altrettanto vero che l’unipolarismo che esso propugna ha, come si è visto, un contenuto e una natura completamente diversi da quelli propri dell’indirizzo globalista. Al centro del sistema mondiale vi sono sempre gli Stati Uniti e i loro valori tradizionali, ovvero l’Occidente bianco e cristiano (definibile con l’acronimo ‘wasp’), che tuttavia riconosce anche la libertà, l’individuo e il mercato. Il trumpismo è quindi l’ideologia di un nuovo “secolo americano” e, come tale, ha un significato politico, filosofico e geopolitico.
Vedremo nel prossimo futuro se questa ideologia sarà in grado di togliere gli Stati Uniti dal bivio di fronte a cui si trovano: o accettare il fatto che il loro impero è sovraesteso rispetto alle attuali possibilità economiche, ed iniziare una serie di negoziati con gli altri paesi per il ritiro da posizioni economicamente insostenibili, o seguire la via a cui fu costretta la Gran Bretagna col ritiro dalle posizioni a est di Suez. Come suona il proverbio, o bere o affogare.
Ma accade sempre che nelle ideologie il riflesso e il progetto si scambino di posto, il riflesso ponendosi come progetto e il progetto ponendosi come riflesso. 7
Indicazioni sitografiche
https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/il-mondo-secondo-trump-189234
file:///C:/Users/utente/Desktop/632332_CASAROTTO_FRANCESCO.pdf
https://www.ariannaeditrice.it/articoli/il-trumpismo-e-la-conclamata-subalternita-dell-europa
1 S. Huntington, The clash of civilizations and the remaking of world order (1996; trad. it.1997).
2 L’imperatore Diocleziano divise, a partire dal 286 d.C., il governo fra quattro sovrani, due Augusti e due Cesari. Tale tipo di ordinamento fu ideato da Diocleziano per dare una soluzione stabile al duplice problema di assicurare la successione pacifica degli imperatori e organizzare un’efficace difesa dell’Impero. Il tramonto dell’egemonia economica degli Stati Uniti, anche se lungi dall’essere concluso, è la causa remota di tutti i cambiamenti politici che stanno avvenendo nel mondo e, in particolare, in Europa. Il peso dell’enorme apparato di cui gli USA si servono per mantenere l’egemonia è insostenibile. Le basi, oltre 800, e le costosissime portaerei possono essere ancora utili per guerre contro paesi dotati di ridotti armamenti o piccole potenze, ma da quando la Russia ha dimostrato di poter colpire con precisione ogni punto dell’Ucraina con missili lanciati da corvette naviganti nel Caspio, la cui stazza non supera le mille tonnellate, ogni base e ogni portaerei si è trasformata in un possibile bersaglio.
3 F. Fukuyama, The end of history and the last man (1992; trad. it. 1992). La dottrina postmoderna della fine della storia non prevedeva un futuro molto diverso dal presente e il suo ‘profeta’ oggi è, coerentemente, uno dei massimi propugnatori della causa ucraina, che è quanto dire del sinolo liberalfascista. In effetti, vi è, tra non molti altri, un futuro possibile, e il suo nome è fascismo. In questo senso, il massimo banco di prova di ogni dottrina politica e di ogni concezione culturale è come essa saprebbe far fronte a questa eventualità. Non sembra che i liberali si trovino in una posizione particolarmente avanzata, da questo punto di vista, poiché essi, fossero (o siano) di destra, di centro o di sinistra, hanno sempre tenuto la scala ai fascisti. La sinistra (o ciò che ne resta), nell’affrontare i suoi antagonisti politici (e Giorgia Meloni è un antagonista di prim’ordine tanto per la sua estrazione sociale quanto per la sua abilità politica), ha bisogno, oggi più che mai, di saldi fondamenti intellettuali e morali, giacché soltanto da qui essa può attingere le risposte politiche che occorrono.
4 È significativo che il vicepresidente degli Stati Uniti, James Vance si sia definito recentemente come un “post-liberale”.
5 Friedrich von Hayek (1899-1992), filosofo politico e sociale austriaco, si formò alla scuola di Ludwig von Mises, di cui sviluppò la critica alla pianificazione economica e al socialismo. Nel 1931 si trasferì alla London School of Economics e nel 1950 all’università di Chicago, contribuendo in entrambe le sedi a orientare gli studi economici in senso liberista. Le opere principali sono La via della servitù (1944) e Legge, legislazione e libertà (3 voll., 1973-79). Karl Popper (1902-1994), filosofo anch’egli austriaco, è, come ognun sa, una pietra miliare nel campo della filosofia della scienza. Nel campo della filosofia politica e sociale è stato l’autore di due opere importanti, La società aperta e i suoi nemici (1945) e Miseria dello storicismo (1957), maturate entrambe nel clima della “guerra fredda” e della polemica antimarxista e anticomunista di stampo liberale borghese.
6 Quindi a pochi mesi di distanza dalla Rivoluzione d’Ottobre, il che è altamente significativo.
7 «Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico» (K. Marx, Ideologia tedesca, in Opere scelte, Editori Riuniti, Roma 1969, p. 239)
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