Gonfi di parole, spesso insopportabili per il tasso di ipocrisia esibito. Ma evidentemente – per chi, come lui, deve cogliere dietro le quinte ciò che si muove anche intorno ai palazzi del potere – rivelatori anche di un «cambiamento di vento». Ne è stato così certo da rivendicarlo senza mezzi termini: «era quello che volevamo suscitare». L’uomo è cauto, equilibrista e perciò gradito a quasi tutti. Una sortita «politica» così diretta ce la si poteva attendere da un Cossiga o uno Scalfaro, non da lui.
Cosa è accaduto?
Al di là delle non immense folle chiamate a cantar l’inno di Mameli – cui la lettura fattane da Benigni a Sanremo ha restituito un manto di serietà dimenticato in decenni di volgare retorica guerrafondaia – l’unico elemento visibile sono stati i fischi e gli insulti pubblici rivolti da tutte le piazze a Berlusconi, tanto da costringerlo a inedite fughe da porte sul retro, e ai suoi ministri; nonché a quella quota di leghisti che ha provato a recitar davvero la parte del secessionismo «a prescindere» (nel senso di Totò, sia chiaro). Episodi interessanti, persino significativi; ma che non sembrano tali da determinare un altro quadro.
Degli elementi invisibili, raccolti tra una stretta di mano e un conciliabolo dietro le quinte, naturalmente nulla sappiamo. Né ci verrà detto tanto presto.
Proviamo però a indovinar ragionando, con l’odio per le dietrologie che ci contraddistingue. Parliamo dunque di una sensazione politica, che sentiamo però con molta forza. Ed è questa: la borghesia italiana ha «trovato la quadra» che consente di porre fine al ventennio berlusconiano. E l’ha trovata puntando sulla Lega e il suo biascicante leader maximo, plumbeo ma irremovibile persino di fronte ai richiami all’«Italia una e indivisibile», all’inno urlato dentro le sue orecchie, alla riduzione del federalismo ad articolazione amministrativa interna, priva di «fughe» antiunitarie.
Non è un cambiamento da poco. La Lega Nord rappresenta politicamente la parte più debole e frammentata della polverizzata piccola imprenditoria nazionale; quella tentata ad uscire dalla crisi con la fuga dalla realtà della globalizzazione, con la chiusura del mercato interno e l’abolizione dei diritti del lavoro, con le impossibili barriere all’immigrazione e la più prosaica conquista delle fondazioni bancarie territoriali.
L’obiettivo è dunque quello di separare gli interessi futuri di questi settori dal resto del blocco sociale berlusconiano: costruttori di infrastrutture che si arricchiscono con gli appalti pubblici, evasori fiscali totali, malavita organizzata, clientele vecchie e nuove alimentate da una certa spesa pubblica (basta guardare l’Atac e l’Ama di Roma, o i tormenti della Regione Sicilia, per averne una foto definitiva).
Il tentativo è quello di ristabilire un’egemonia liberale, contando su un blocco sociale che trova nell’imprenditoria export oriented il disegnatore di politiche economiche e scenari istituzionali. Un’egemonia cui – siamo facili profeti il Pd e la Cgil si inginocchieranno subito, riconoscenti; autorizzando senza fiatare le mille ricadute sociali di un «modello Marchionne» elevato a principio di organizzazione complessiva.
Per le forze di classe, sindacali o politiche, si va forse aprendo una fase nuova, Non più facile, sicuramente meno ambigua. Potremo sostenere gli interessi del nostro blocco sociale di riferimento senza doverci appiattire sull’«antiberlusconismo perbenista». E quindi senza un orizzonte di «alleanze democratiche» cui sacrificare preventivamente ogni rivendicazione programmatica. Altro giro, altra corsa.
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