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L’icona deviante

Chiude il cerchio iniziato con l’11 settembre 2001 e quindi ci sembra necessario fissare alcuni elementi. Per un’analisi più sistematica c’è tempo.

 

Un colpo all’integralismo

Per l’islamismo radicale è una botta durissima a cominciare dal piano simbolico. In questi dieci anni Bin Laden era assurto a icona dell’opposizione islamica all’Occidente; il solo fatto di non essere catturato gli aveva consolidato questa funzione. Riassumeva dunque in sé l’immagine vincente di un’ipotesi che divideva i musulmani mentre aiutava l’Occidente a non operare nessuna distinzione tra i diversi Islam.

È probabile che – come spiegano molti analisti – il suo ruolo “operativo” in Al Qaeda fosse ormai molto ridotto, anche per sua scelta (“era certo che prima o poi gli americani lo avrebbero preso”). Proprio per questo il “peso” della sua scomparsa è soprattutto mediatico, propagandistico, narrativo. Simbolico, appunto. E assume significati e conseguenze diverse per tutti i soggetti globalmente in campo: l’Occidente capitalistico, l’Islam politico, i “paesi emergenti”, soggetti sociali e soggettività politiche in lotta per la trasformazione dell’esistente.

 

L’Occidente capitalistico

Il successo immediato è indubbio. Lo testimoniano meglio di qualsiasi altro indicatore le reazioni del mercato: dollaro in risalita, petrolio in discesa, borse in ripresa.

È un ricostituente importante per la leadership Usa, mai così debole come negli ultimi cinque anni. Per Obama, in particolare, arriva al momento giusto per spazzar via come pattume l’offensiva repubblicana più sguaiata – quella dei Tea Party o di Donald Trump – immersa nella melma a cercar di ramazzare “prove” sul presunto carattere “non americano” del presidente. E contemporaneamente lenisce in parte la delusione ormai evidente dell’ala “liberal” dei democratici, alle prese con lo spostamento al centro rituale in ogni presidente che si avvia alla rielezione.

Anche gli imperialisti europei possono gioire. Si attenua la preoccupazione strategica che la “guerra infinita” scatenata dal Bush minore dieci anni fa ridurre la loro presa sul mondo, costringendoli a recitare per decenni la parte degli alleati fedeli e senza diritto di parola. Avevano già iniziato con La Libia (e la Costa d’Avorio), ora saranno più liberi di agire imitando il cugino d’America.

 

L’Islam politico

Le forze più estremiste dovranno scegliere tra risposta immediata o a più lungo termine, tra revisione delle scelte strategiche (è vero che le rivolte arabe non hanno mostrato quasi nessuna considerazione per queste frange) e radicalizzazione. La “botta simbolica” si tradurrà in minore capacità di radicamento e reclutamento. Lo stesso evidente “tradimento” da parte dei pakistani (la villa rifugio di Osama era davanti alla più importante accademia militare di quel paese) introduce un dolente cuneo nella capacità di definire una “politica delle alleanze”: di quali regimi musulmani fidarsi, quali combattere, come modificare di conseguenza la strutturazione organizzativa. Qualcuno sceglierà di “rispondere”, magari con iniziative spettacolari; altri sceglieranno i “temi lunghi”, cercando di riallacciare legami con settori fin qui più moderati sul piano dell’iniziativa, anche se certamente “integralisti” sul piano religioso. In ogni caso, si indebolisce la loro capacità di pressione sull’Occidente, quindi la loro rilevanza strategica sul piano globale.

Il problema riguarda anche, o forse soprattutto, le petromonarchi del Golfo. Che fin qui hanno mantenuto abbastanza a freno la ventata di rivolta che sale dalle giovani generazioni arabe, ma che non possono non risentire del cambiamento di clima nell’area. La scelta dei militari pakistani di “mollare” l’uomo che da 30 anni (dai tempi della guerriglia antisovietica in Afghanistan) era di fatto “uno di loro” risente di una situazione mutata che è stata evidentemente percepita come “non più sostenibile”.

 

Brics e dintorni

Vale quel che si diceva per gli europei, ma con una base di crescita economica ben più rilevante. Si liberano della necessità di dover sostenere – in sede Onu o in altri organismi internazionali – le posizioni Usa. Le loro chance di autonomia si moltiplicano, e così gli spazi di competizione geostrategica. Passato il primo momento del trionfo, in cui gli Usa e l’Europa proveranno a massimizzare l’effetto “vittoria sul terrorismo”, diventerà evidente che il policentrismo economico è un dato di fatto irreversibile, che deve trovare riscontro anche sul piano “istituzionale” globale: peso specifico negli organismi internazionali, nelle trattative commerciali, sul piano monetario.

 

Soggetti della trasformazione

Tra i tanti “liberati” ci siamo anche noi. Bin Laden e l’integralismo wahabbita-saudita hanno avuto un ruolo di complici dell’imperialismo, sia contro il “socialismo reale sovietico” che contro i comunisti nei vari paesi musulmani. Come ogni “alleato” subordinato dell’imperialismo, sta pagando l’illusione di poter “giocare in proprio” la partita per l’egemonia; specie se il territorio su cui si gioca custodisce i due terzi delle risorse petrolifere mondiali.

Ci vorrà ancora qualche tempo, ma la strumentazione retorica fin qui usata contro i movimenti e i comunisti (il trattare l’opposizione sociale-politica come “oggettivo favore al terrorismo islamico”) perde la legittimazione di basso livello più efficace. E questo mentre l’avanzare della crisi economica moltiplica i punti di frizione tra interessi imprenditoriali e strati di classe colpiti direttamente. Proprio quando cominciano a entrare in campo generazioni che non hanno ancora introiettato il dogma del “nemico esterno” come avversario principale.

Per tutti i popoli del mondo, l’indebolirsi della “soluzione religiosa” come alternativa all’Occidente capitalistico apre una stagione nuova. Qui si gioca la partita: sul piano del radicamento sociale, sul piano simbolico, ma soprattutto su quello degli sbocchi possibili a una crisi sistemica da cui non si può pensare di uscire tornando indietro. La Storia ha ripreso a correre anche per noi.

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