La dimensione della sconfitta è il dato principale. Come nel calcio – Berlusconi viene anche da lì, oltre che dalla televisione e dall’immobiliarismo d’assalto – si può perdere con onore (2 a 1, 3 a 2, ecc) e non succede granché. Ma il 7 a 1 implica che è finito un ciclo e vanno cambiati giocatori, allenatore, spogliatoio, sponsor e forse anche il massaggiatore e la proprietà. Tra il primo e secondo turno di queste elezioni, “solo amministrative”, è maturata una disfatta di dimensioni non immaginabili prima. E siccome non crediamo alle parole dette dopo, chi l’aveva previsto ci mostri un testo dalla data certa.
Il secondo dato certo è che non vince l’opposizione parlamentare. Anzi, dopo questo giro, possiamo dire con una qualche certezza che il Pd è un partito che può vincere solo se non si presenta. Non uno dei candidati nelle città teatro di vero scontro elettorale – Torino a parte dunque, strangolata da altri ricatti o Bologna dove si gioca sempre in casa – viene dalle sue fila o mostra pubblicamente un qualche feeling con questa formazione. Peggio ancora per le miserie partitiche che stanno tra o oltre i due “colossi mancati” (Pd+L e Pd senza L). Una conclusione attendibile può essere tratta: questo voto è contro il sistema dei partiti attualmente esistente. In toto. Basta chiamarsi “partito” per esser guardati di sottecchi e depennati dall’elenco dei simboli “crociabili”.
Il terzo dato, da non sottovalutare, anzi tutto da indagare, è l’astensionismo. A Napoli ha votato solo un avente diritto su due. De Magistris rappresenta un terzo della città, il derelitto Lettieri appena un sesto(c’è chi dice “sapevano di perdere , quindi non hanno stanziato lo stock di biglietti da 50 euro con cui si paga di solito un voto”; e chi scherza sul voto della sola “camorra propriamente detta”). La metà di Napoli, però, guarda; muta, non partecipa più. Non crede, qualsiasi cosa abbia in testa (e cosa abbia in testa è problema anche nostro: non dobbiamo “immaginarcelo”, né tantomeno attribuire a questa metà il nostro pensiero; dobbiamo, più concretamente, “indagare” camminando in mezzo alla gente). Anche altrove l’astensione è altissima, tranne che a Milano, dove la partita politica e quindi simbolica era totalizzante e chiara.
Altri dati empirici vengono dalla Lega, che ha perso molto e forse anche la verginità immaginaria, la supposta purezza dei rozzi. E’ l’unica formazione politica parlamentare attrezzata per stare fuori dai giochi una legislatura intera. Ma ha scontentato molto la sua base “territoriale”; le faticose trattative per portare a casa i decreti attuativi del “federalismo” non bastano a giustificare Ruby, Cosentino, la Sicilia, la ‘ndrangheta in Lombardia o i permessi Schengen ai profughi dalla Tunisia. Bossi deve scegliere: o accettare lo sfarinamento emerso con chiarezza in questa tornata, o ristrutturarsi come “ce l’ho sempre duro”, mollando il “padrino” e rassegnandosi a qualche anno di marginalità politica differenziale solo al Nord. Ma non più come prima.
E’ un voto che sembra l’equivalente elettorale degli “indignados”. Premia gli outsiders più radicalmente estranei alla politica politicante. Di più (e ce n’è per far riflettere gli esperti di media): fa vincere solo quelli che non sono quasi mai apparsi in tv: De Magistris, Pisapia, Zedda. Non si può non vedere che a Milano, Napoli e Cagliari si è messa in strada una massa di volontariato militante assetato di “politica sana”, che ha ricevuto scarso o nullo supporto dagli apparati partitici di opposizione. Inutile sottolinearne le ingenuità – tutte reali – perché non si deve mai fare spallucce alla partecipazione dal basso. Si rischia di fare come la volpe con l’uva.
Alla prova dell’amministrazione territoriale questa militanza di base sarà ovviamente sorpassata dai professionisti dell’assessorato. Ma a noi deve interessare la spinta di massa (relativa, ma verace) a un radicale cambiamento di rapporto con la “cosa pubblica”. Non sottolineeremo mai abbastanza che Berlusconi viene azzerato non dalle “manovre di palazzo” continuamente sognate dai D’Alema di turno, non dalle defezioni organizzate da questo o quel cacicco in sofferenza (Fini, per dirne uno): ma da una corale defenestrazione di popolo. Un popolo che va ascoltato perché chiede di essere ascoltato.
Perché è vero che la crisi economica – soprattutto – ha bombardato i fondali di cartone del berlusconismo, quella grande “narrazione” nata negli anni ’80 (l’”edonismo reaganiano” contrapposto all’impegno civile e politico degli anni ’60-’70) che metteva la “libertà individuale senza legge” al di sopra di qualsiasi “bene comune”, al di sopra della stessa tenuta sociale. Assistiamo ai primi effetti di un cambiamento culturale di lungo periodo, che rivela l’impossibilità di credere alle facili promesse dei partiti quando si ha la certezza empirica che i problemi della sopravvivenza sono gravi, seri, complicati e inaggirabili. E’ lo spazio culturale – di massa, è bene accorgersene – entro cui si può agire per evidenziare la portata devastante delle “tre crisi” (economica, energetica, ambientale) e la necessità di una trasformazione del modo di produrre e vivere.
Non è più il tempo della pura “resistenza” a difesa dei principi. E’ il tempo dell’azione politica, dell’organizzazione del conflitto sociale di massa. La partita è riaperta e va giocata.
Dietro l’angolo, infatti, premono le falangi di Confindustria per consolidare il prima possibile un nuovo blocco sociale fondato su un “patto dei produttori” che superi modalità e vincoli della rendita (immobiliare e finanziaria) e assicuri solidità di poteri all’impresa “produttiva”. Possono contare su sindacati complici e una Cgil che pensa solo a “tornare ai tavoli”, ma attraversata anch’essa dalla durezza della crisi. Non si tratta dunque di gioire in modo acefalo per una caduta lungamente attesa o di cavillare spocchiosamente sul tasso di radicalità di questo o quel neosindaco. Si tratta di vedere, comprendere e invadere il campo della politica e del conflitto.
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