Ma è il primo passo indispensabile a marcare l’esistenza di un’opposizione sociale che tutti sappiamo vasta, molto al di là delle possibilità organizzative delle sigle promotrici.
È finita “la luna di miele” successiva alla caduta di Berlusconi. Chi, come noi, guardava al concreto delle politiche sociali e non alla mutande scomposte del precedente esecutivo vede le continuità (o i peggioramenti) là dove tutti cercavano ingenuamente un cambiamento. Ora la protesta monta e, come è inevitabile, ha sia connotati spuri e corporativi, sia caratteristiche di classe autentiche. Chi si illude che esista un “conflitto sociale puro”, senza zone d’ombra e fastidiose commistioni, vive ancora nel mondo casto delle idee. Chi era abituato a simulare il conflitto per poi mediare vantaggi nelle anticamere di palazzo, non ha più nulla da dire (e da dare) a nessuno.
Il problema fondamentale ora è la costruzione di un movimento stabile, dai connotati sociali dichiarati; di un movimento dei lavoratori, stabili o precari, disoccupati o “socialmente utili”, pensionati o apprendisti. Ma capace di esercitare egemonia sociale, di mettere in crisi le capacità di silenziamento su cui è stato selezionato quasi per intero il “ceto dirigente” dei sindacalisti che ora è possibile – senza tema di smentite – definire “complici”.
Qual’è infatti la situazione che abbiamo davanti?
C’è un governo piovuto dall’alto dei cieli, un “invasore” extraterrestre scelto dalla troika Ue-Bce-Fmi e instradato istituzionalmente da Giorgio Napolitano. Un gruppo di “comandanti in capo” senza legittimazione popolare e indifferenti a crearsene una. Che deve fare un certo “lavoro sporco” e preparare il terreno per lasciare in eredità una governance, anziché un governo. La differenza tra i due termini è nota, oppone la dittatura aziendalista alla mediazione democratica.
È infatti un governo con un programma da attuare senza contrattazioni. E proprio la mediazione sociale è immediatamente scomparsa sia dal lessico politico che dalla pratica di governo. Ai sindacati complici basta dare un’”informazione” sulle riforme da fare, che poi mandino una mail per sapere gli sviluppi. Se proprio lo ritengono necessario… Gli altri soggetti sociali – imprese e banche a parte, ovviamente – non vengono neppure considerati. Almeno fin quando non riescono a bloccare il paese. Allora viene mobilitata l’informazione di regime, la divisione interna al campo attivo, e infine la polizia.
È un governo che tritura persino le condizioni in cui è riprodotta la piccolissima borghesia italica, vero supporto di massa di ogni regime politico dominante per oltre un secolo. La reazione è messa in conto, soppesata e calcolata. Irrisa.
Ma il grosso del “lavoro” riguarda il lavoro dipendente. La parola d’ordine della “competitività” – nel paese che già ora occupa il 26° posto, come livelli salariali, tra i 30 dell’Ocse – si traduce in compressione verso standard cinesi dei livelli di vita, delle capacità di consumo, formazione, aspettative di mobilità sociale. Vale per il settore privato quanto per il pubblico impiego. Lo studio di Bundesbank che fa da fondamento all’elaborazione delle “riforme strutturali” avviate in tutta Europa, definisce con agghiacciante chiarezza il campo di applicazione del “pubblico”: diplomazia, forza militare, ordine pubblico interno. Il resto, sia campo di conquista del “privato”.
L’opposizione sociale, fin qui, ha appena iniziato a “prendere le misure” di questa trasformazione dell’avversario. La scomparsa della mediazione sociale, infatti, cambia completamente il terreno del conflitto, terremotando inveterate abitudini tarate sul circolo magico: mobilitazione, confronto nelle sedi istituzionali, “accordo” e ripristino della pace sociale.
La sorte riservata all’acqua pubblica è a suo modo emblematica: si è vinto un referendum con proporzioni schiaccianti, ma questo esecutivo se ne fotte, andando esplicitamente contro la “Costituzione formale” e quella materiale, ma con l’avallo del “custode della Costituzione”. Conseguenza immediata: tutte le pratiche referendarie (quindi di pressione democratica con effetti istituzionali) sono svuotate di efficacia. Uno strumento di canalizzazione della protesta entro i confini democratici viene azzerato senza sostituzioni.
La “grande operazione antiterrorismo” messa in scena contro il movimento No Tav è l’altro braccio della tenaglia. Lì si cerca di mettere la mordacchia anche ai comportamenti “sopra le righe”, legittimati da un consenso popolare totale. Il meccanismo è consolidato: “bisogna fare” (una certa opera, le “riforme”, le “liberalizzazioni”, ecc), chi si oppone è “conservatore e corporativo”, segue l’isolamento per via mediatica e quindi l’offensiva militare vera e propria. Il messaggio è semplice: non deve esistere nessuna opposizione legittima, non c’è un altro programma, non ci sono altri interessi sociali ammissibili.
Finché c’è il “silenzio-assenso” dell’opinione pubblica mainstream il gioco funziona. È bene saperlo. Ma, ogni volta che il governo si muove, attacca un settore sociale e perde quindi pezzi consistenti di questo “consenso non informato”.
L’importanza dello sciopero generale del 27 gennaio, dunque, sta proprio nell’iniziare a definire il campo della soggettività consapevole, capace di individuare sia il “centro motore” dell’offensiva reazionaria – il governo e l’arco dei partiti che lo sostiene – sia i temi che aggregano la resistenza popolare intorno a un punto vista di classe chiaro.
Non sarà facile e non sarà breve modificare i rapporti di forza sociali che abbiamo davanti. Ma da qui si parte. Sobriamente.
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