La “marcia” dei parlamentari berlusconiani all’interno del Palazzo di Giustizia di Milano ha molto, nelle intenzioni, della squadraccia fascista. E che sia stata diretta contro i magistrati anziché contro le Camere del Lavoro dice parecchio sulla situazione attuale.
L’aspetto “ridicolo” è palese: in quanto parlamentari non erano “caricabili” dalle forze di sicurezza, quindi non rischiavano personalmente nulla (al contrario delle presenze solidali ai processi contro i movimenti). Quello eversivo anche: che una parte rilevante del potere legislativo metta in atto un’intimidazione fisica del potere giudiziario, presentandosi in massa sulla porta dell’aula, è qualcosa di più di un “eccesso”. Che lo faccia intonando l’inno nazionale è la misura della liquefazione di un linguaggio comune, che proprio quell’inno – nelle intenzioni della retorica istituzionale – dovrebbe riassumere al più alto livello. Un prova da guerra civile, extraistituzionale, raccattando alla bell’e meglio simboli e pavesi.
La crisi macina anche la classe dirigente e il ceto politico, vecchio e nuovo. Abbiamo davanti soltanto leader in grave difficoltà. Facciamo due conti.
Berlusconi è ridotto a recitare la parte del carcerando che cerca di sfuggire al triste destino rifugiandosi tra le braccia di medici dal certificato facile. Già solo il tira-e-molla coi medici fiscali è una diminutio feroce, dalla premiership al malore salvifico. Arrivi o no una richiesta d’arresto da parte di una delle tante Procure che lo stanno azzannando, ora che non ha più “legittimi impedimenti”, è in ogni caso un “impresentabile” in Europa e nel mondo. Fuori dai giochi importanti. Può esplodere in qualsiasi modo, e la “marcia” dei suoi seguaci è solo un avvertimento. Da quest’area vengono pericoli veri, visti i poteri che si sono visti rappresentati fin qui all’interno del Pdl. L’incendio della Città della Scienza di Napoli, probabilmente realizzato anche per “criticare dall’interno” l’arrendevolezza al senso comune “legalitario” (che ha portato all’esclusione dalle liste di Nicola Cosentino), sembra anche qui soltanto un primo “segnale”.
Monti è stato seppellito dal voto popolare. Resta utilizzabile ancora in molti ruoli, ma la sua leadership non esiste più e non è resuscitabile, se non in situazioni così drammatiche – sul piano economico – da non essere davvero auspicabili.
Bersani è già sostituito da Renzi. L’ipotesi di creare un equilibrio parlamentare che possa durare cinque anni non viene nemmeno quotata dai bookmakers. Quando si tornerà alle urne sarà il contafavole fiorentino a giocare da front runner. Bersani si agita ancora per un po’ sulla scena, perché è suo dovere farlo, ma deve cominciare a pensare a cosa farà da pensionato.
Ingroia è rimasto solo, dopo un disastro elettorale memorabile. Mollato da De Magistris e Di Pietro, quindi da buona parte degli apparati dello Stato (l’antimafia, sostanzialmente), non ha trovato di meglio da dire che “andiamo avanti ma senza i partiti”, intesi come Rifondazione e Pdci, o ciò che ne resta. Quindi proprio da solo, ripetiamo.
Persino Grillo è un neo-leader con i problemi di quelli vecchi. Alla prima riunione dei suoi neo-parlamentari è già costretto – insieme a Casaleggio – a minacciare il proprio ritiro se la maggioranza dei gruppi dovesse cedere alle sirene che chiamano dagli scogli della “fiducia”.
Napolitano, infine, è in marcia verso la panchina se non altro per limiti di età (senza però dimenticare gli sbreghi da lui apportati alla “Costituzione materiale”, dall’alto del Colle).
Un vuoto di credibilità, figure, immaginario, soluzioni, istituzioni. Ma non un’assenza di poteri dalle idee chiare. Il principale resta quello della Troika (Bce, Ue, Fmi), ovvero la pressione internazionale per mantenere l’Italia nell’alveo delle decisioni già prese. Ma appare disperatamente privo di un “terminale” locale decente. L’ipotizzato asse Pd-Sel-Monti non è in grado di far nulla, per ora. E soluzioni di ricambio non ce ne sono.
Gli altri poteri sono ancora più immondi, collosi e collusi. Pronti a far degenerare in scontro militar-terroristico la partita per chi e come (con quali compromessi) deve comandare.
Il vuoto non dura mai a lungo. I nuovi assetti, le nuove configurazioni, saranno disegnati da chi avrà più forza e strumenti. Le forze che hanno fin qui rappresentato aspetti del movimento operaio in vario modo, devono provare a conquistare e riempire uno spazio, fatto di mobilitazione e consensi di massa intorno alle priorità sociali e all’emergenza democratica. Prima che la saracinesca cali e il vuoto venga riempito da liquami inquietanti.
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