Lo stallo prodotto dai risultati elettorali sta incubando esattamente questo mostriciattolo. Non si capisce granché seguendo la girandola di incontri e di “retroscena” sempre meno rivelatori. Bisogna concentrarsi su ciò che alcuni “opinionisti ben introdotti” cominciano a far balenare come possibili “soluzioni”.
Il mostro si chiama “presidenzialismo”. Ovvero la trasformazione costituzionale della forma e della distribuzione dei poteri. Il cuore pulsante di uno Stato.
Se è vero che di repubbliche presidenziali ne esistono molte, nel mondo, è altrettanto vero che ogni paese ha una storia differente. In Francia o negli Stati Uniti, per dirne solo due, il presidente della repubblica è in realtà l’equivalente del nostro presidente del consiglio, con qualche potere in più legittimato dall’investitura popolare diretta. Nessuno, in quei due paesi, ha mai avuto timore che la forza del potere presidenziale potesse alterare il gioco democratico-parlamentare.
In Italia questo rischio è sempre presente. Emerge dalle parole di Berlusconi come da quelle di Grillo, oltre che dai discorsetti fascistoidi della destra estrema. Questo paese non ha mai ben assimilato neppure la cultura democratico borghese. A destra per motivi ovvii, a sinistra per la convinzione suicida che i “rapporti di forza” – per natura instabili e temporanei – potessero più della codificazione delle regole; basti pensare alla non legiferazione sul sindacato – o i partiti politici – che ha permesso la “svolta di Marchionne” (o l’invenzione di “partiti personali”). In un paese così messo la tentazione della scorciatoia furbetta si presenta a ogni passo. Persino nei rapporti internazionali, come si è visto con la figuraccia globale dei “due marò”.
Proprio tenendo presente questo difetto “costituzionale”, la Costituente ha elaborato un’architettura di poteri tale per cui nessun potere potesse facilmente prevalere sugli altri, affidando alla figura del presidente della Repubblica il ruolo del “garante”. Sia dell’unità politica del paese che, quindi, della salvaguardia della Costituzione stessa.
La storia dei presidenti nella “seconda repubblica” ci consegna però una trasformazione progressiva, uno slittamento continuo verso l’assunzione diretta di responsabilità politiche da parte dell’inquilino del Colle. Cominciò Francesco Cossiga a “picconare”, ma le sue “esternazioni” – tanto bistrattate ai tempi – appaiono oggi ben poca cosa rispetto al protagonismo messo in campo da Napolitano (passando per quello di Ciampi e Scalfaro). Un “presidenzialismo di fatto”, esibito in modo plateale con l’incarico a Monti e la creazione di una “maggioranza coatta”, fino al diversivo dei dieci “saggi”, fuori da ogni procedura istituzionale.
La difficoltà perenne di dare una maggioranza chiara a sostegno di un governo “stabile” ha prodotto già diversi tentativi di “semplificare” il gioco politico-parlamentare. Lo sforzo di obbligare il paese a un “bipolarismo” estraneo alla realtà sociale è stato accompagnato da una lunga serie di forzature sulle regole, fino al “porcellum”, che conferisce una maggioranza certa a chiunque arrivi primo alle elezioni politiche, anche con un solo voto in più dei concorrenti. Ma soltanto alla Camera, mentre in Senato resta la normale “incomponibilità” delle differenze nonostante l’adozione – anche qui – di un “principio maggioritario”, ahiloro soltanto su base regionale (un altro capolavoro di quel centrosinistra che pensava di svuotare la Lega sposandone le istanze “federaliste”).
Forzature fallimentari che avvicinano ora quella estrema: ridisegnare la mappa dei poteri facendo del presidente della repubblica “eletto dal popolo” l’arbitro decisivo del gioco politico.
Difficile pensare che i modesti protagonisti dell’attuale scena politica abbiano riflettuto seriamente sula portata di una trasformazione del genere, che dovrebbe quantomeno portarsi dietro una valanga di contrappesi istituzionali.
Qui si gioca con le modifiche della Costituzione – ovvero con gli assetti di lunghissimo periodo – sulla base di puri calcoli di convenienza a breve termine. Abbiamo visto come è stato inserito il “pareggio di bilancio” nella Carta: senza una discussione, senza alcuna riflessione sulla portata storica del porre un vincolo tanto radicale all’elaborazione delle scelte di politica economica di qualsiasi governo a venire. Come se fosse indifferente o irrilevante affidare comunque la guida e le sorti di un paese ad “pilota automatico” sovranazionale.
Siamo in balìa di un branco impaurito e disposto a tutto. Sono pericolosi e vanno fermati il prima possibile. Serve un popolo che si scuote dal torpore, non una consultazione in rete.
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jangadero
molto condivisibile il commento di staffo vorrei solo aggiungere alcune considerazioni riguardo alla esortazione
” radicandosi tra le classi più colpite dalla crisi. ” aggiungerei e tra quelle più disponibile per cultura storia e attitudine alla lotta e mi riferisco in particolar modo ai lavoratori migranti che come hanno dimostrato con la lotta della logistica non soffrono di una sindrome di sconfitta storica che attanaglia ampi settori della classe autoctona e settori giovanili che altrettanto non soffrono di questa sindrome e che non a caso sono esclusi in ampissima misura dal mercato del lavoro e in una visione meno provinciale possibile europea atlantica ma anche mediterranea