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Ucraina: quando l’Unione Europea genera il fascismo

Anche in questa occasione, come era avvenuto in passato, abbiamo visto raccontare – anche a sinistra – la crisi che ha investito l’Ucraina con il solito semplicistico e comodo schema che ha contraddistinto la lettura di altre tragiche vicende nel recente passato (Libia, Siria, prima ancora Yugoslavia). Da una parte un dittatore, o comunque un regime, dall’altra un ‘popolo’ con il quale identificarsi, simpatizzare, immedesimarsi. Secondo questa lente sempre uguale a se stessa, se c’è un regime, chi vi si oppone deve per forza essere nel giusto, e va quindi sostenuto.

Poco importa se poi il “regime”, come nel caso ucraino, non è proprio tra i più sanguinari e oppressivi ed ha vinto le elezioni più o meno democraticamente (o meglio, non meno democraticamente di quelli che governano i paesi occidentali esportatori di democrazia). Certo è assai difficile che il governo ucraino del Partito delle Regioni possa ispirare particolare simpatia: un governo di burocrati e oligarchi arricchitisi in molti casi attraverso la ‘privatizzazione’ e l’appropriazione, spesso indebita, dei gioielli dell’economia pianificata dei tempi dell’Unione Sovietica. Per molti è stato assai più facile identificarsi con i giovani accampati al gelo di Piazza Maidan o con gli incappucciati che si scontravano con i Berkut in assetto antisommossa.

Poco però ci si è soffermati sulle caratteristiche del cosiddetto ‘popolo’ sceso in piazza per mesi nella capitale del paese e al centro di una delle più massicce campagne di propaganda in cui i nostri media mainstream siano stati impegnati negli ultimi anni. Un popolo descritto come democratico, amante della libertà e del ‘progresso’, che chiedeva che il proprio paese potesse aderire ad una Unione Europea rappresentata come faro internazionale della libertà e della democrazia, contro i venti autoritari provenienti da Mosca e incarnati dal presidente Yanukovich.

Peccato che l’euroentusiasmo, anche dalle nostre parti, non sia proprio ai livelli massimi dopo anni di austerity e controriforme autoritarie imposte ai singoli paesi dell’Ue dalla troika. Gli sforzi tesi a creare una forte identificazione tra l’opinione pubblica europea e il ‘popolo di Maidan’ hanno quindi fatto in buona parte un buco nell’acqua e non c’è stata, almeno finora, quell’ondata di simpatia che l’establishment dell’Unione Europea auspicava per poter giustificare un intervento ancora più aggressivo e destabilizzante nei confronti dell’Ucraina, del suo governo, delle sue istituzioni.

L’oggetto del contendere, almeno per i più informati, è noto. Il governo ucraino, anche su pressione di Mosca – che ha offerto aiuti e sostegni maggiori rispetto a quelli proposti dall’Ue – ha sospeso l’adesione del paese ad un trattato di associazione con Bruxelles da tempo al centro dell’iniziativa europea in quell’area. La democrazia e la libertà, neanche a dirlo, non c’entrano proprio nulla. L’ingresso dell’Ucraina nello spazio economico e doganale dell’Unione Europea significherebbe una invasione di merci, prodotti e imprese tedesche e di altri paesi che desertificherebbe in pochi anni il già debole tessuto produttivo locale, provocando un netto aumento dei prezzi e della disoccupazione (come sta avvenendo nelle repubbliche baltiche o nei Balcani). E’ sulla base di queste valutazioni che il governo di Kiev, insieme agli imprenditori e ai sindacati – soprattutto delle regioni orientali del paese – si è tirato indietro mandando l’establishment europeo su tutte le furie.

Bruxelles ha cominciato così a mettere in atto una serie di meccanismi di provocazione e destabilizzazione, tesi alla caduta del governo e del presidente attuali, per sostituirli con altri più accondiscendenti nei confronti delle richieste e degli interessi geopolitici ed economici dell’Unione Europea in generale. Per non parlare poi di un governo polacco che sobilla – non è un segreto – le popolazioni delle regioni occidentali dell’Ucraina contro ‘i russi’ (gli abitanti dei territori orientali).

Bruxelles persegue in maniera sempre più aggressiva una espansione ad est che cozza frontalmente con gli interessi e l’area di influenza di Mosca, e non esita ad utilizzare a proprio vantaggio tutti quei meccanismi utilizzati in passato soprattutto dalle amministrazioni statunitensi, per ottenere ‘regime changes’ nei paesi oggetto delle proprie mire espansioniste. In questi mesi le autorità europee hanno incitato gli ucraini alla rivolta, hanno soffiato sul fuoco dello scontro diretto, hanno fatto la spola con Kiev arringando le folle – in compagnia di alcuni dei peggiori rappresentanti della destra statunitense, come il senatore McCain – e fornendo ai gruppi dell’opposizione finanziamenti e sostegno logistico. Anche a costo di precipitare il paese in una tragica e sanguinosa guerra civile, o di spaccare il paese in due.

Di fronte all’inefficacia della prima fase della rivolta – fatta di occupazioni più o meno pacifiche e del consueto meccanismo di accumulazione attraverso blogger e social network – la strategia occidentale (Ue più Nato) di destabilizzazione, è passata ad una fase assai più aggressiva e violenta. Negli ultimi mesi a Kiev e in altre città il protagonismo lo hanno acquisito gruppi paramilitari di estrema destra o apertamente fascisti che si richiamano all’ultranazionalismo antirusso, al tradizionalismo cattolico, quando non direttamente all’ideologia nazional-socialista. Gruppi che possono contare su migliaia di mitanti addestrati allo scontro e pronti a tutto e sulla cui identità politica e ideologica la propaganda dell’establishment dell’Ue ha opportunamente chiuso un occhio, tentando di utilizzare la loro ascesa per convincere le opposizioni parlamentari di Kiev a ritirarsi dalle trattative con Yanukovich e a votarsi al conflitto frontale.

Sul web sono circolate nelle ultime settimane interviste a esponenti di gruppi ucraini più o meno progressisti e di sinistra che definivano la rivolta in corso una opportunità da cogliere, uno step importante per la ‘rivoluzione’. Nessuna analisi delle forze reali e degli interessi in campo – l’Unione Europea, la Nato, la Russia – così come nessuna realistica riflessione dei rapporti di forza, solo una riproposizione di uno schema – popolo verso regime – che non regge alla prova dei fatti. Non saranno certo alcune individualità o piccole soggettività progressiste a cambiare il segno di un processo di destabilizzazione che fa perno sui partiti degli oligarchi filoccidentali (Patria, Udar), sull’estrema destra parlamentare (Svoboda) e ora sempre più sui gruppi paramilitari neofascisti raggruppati nel ‘Pravi Sektor’.

Se i movimenti sociali, le forze progressiste e di sinistra, i movimenti di liberazione nazionale non comprenderanno che nello spazio continentale è in atto un feroce conflitto scatenato dal processo d’integrazione del “superstato europeo” e dalla sua necessità di espansione ad est e a sud, il rischio di prendere degli abbagli e di “lavorare per il re di Prussia” diventerà nei prossimi anni sempre più consistente. Sarebbe veramente una tragedia, oltre che un paradosso, se le forze della sinistra di questo continente si sintonizzassero su un processo di regime change funzionale agli interessi delle oligarchie dell’Unione Europea e non certo alla liberazione e all’emancipazione dei rispettivi popoli. 

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