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Renzi ha paura e finge di “ribellarsi” all’Unione Europea

Le amministrative di primavera (Milano, Roma, Napoli, Torino, Bologna, ecc) devono fare davvero paura a un Pd in drammatico calo di consensi. Il 41% delle europee è ormai sepolto da qausi due anni di massacro sociale e riforme reazionarie, al punto che anche i sostenitori dela prima ora – tipo Repubblica ­ sono ormai costretti a stigmatizzare questa o quella sortita di Renzi. Così, giusto per non far crollare le vendite al seguito del premier più falso della storia, al pari e oltre di Berlusconi.

Ma quello che sta avvenendo in queste ore supera anche la fantasia più sbrigiata. Ricorderete che l’ex ministro delle finanze greco, Yanis Varoufakis, descrisse il ruolo del premier italiano nella notte del tracollo di Tsipras, durante il waterboarding impostogli dai primi ministri della Ue, come quello del poliziotto buono che si alternava ai cattivissimi Merkel-Schaeuble al capezzale del torturato.

Bene. Quel torturatore in guanti bianchi si atteggia ora a tardivo Masaniello. La legge di stabilità approvata col solito voto di fiducia e inviata alla Commissione Europea non rispetta granché i limiti che avrebbe dovuto rispettare secondo i criteri del Fiscal Compact. E qualche rischio di rinvio a Palazzo Chigi, con tanto di indicazione dei capitoli da correggere, esiste. Non sarebbe una gran figura, sul piano politico, dopo aver raccontato a mezzo mondo che “ora l’Italia conta di più in Europa”, grazie Lui, naturalmente.

E così si è calato, forse con un po’ di azzrdo eccessivo, nei panni dello scolaro ribelle. Che non sono esattamente i suoi (gli ex boyscout non brillano, in questo senso). E sparando castronerie che potrebbero costargli care in una riunione di primi ministri. Tipo: “Bruxelles non ha alcun titolo per intervenire nel merito delle misure della legge di stabilità: non è il nostro maestro. Gli diamo 9 miliardi netti ogni anno e non è che ci deve dire qual è la tassa giusta da tagliare. Se Bruxelles dice no alla finanziaria, la ripresenti uguale e dici ‘peccato sì…’. La subalternità italiana in questi anni è stata particolarmente sviluppata nei confronti dei burocrati di Bruxelles”.

Vorrebbe far intendere che con Lui ora basta, perché al contrario dei predecessori Lui è capace di battere i pugni sul tavolo e pretendere più considerazione per questo paese.

I rapporti tra i paesi, in materia di legge di stabilità, quindi di bilancio pubblico, sono ormai definitivamente regolati da alcuni trattati: Fiscal Compact, Six Pack e Two Pack. In base a questi trattati c’è una serie di scadenze precise, nel corso dell’anno, in cui il percorso della manovra di bilancio dell’anno successivo viene sottoposta passo dopo passo al giudizio della Commissione.

Questo vuol dire che la legge di stabilità inviata dal governo italiano a Bruzelles due giorni fa è figlia dei passaggi precedente – tutti già approvati e concordati – con qualche dettaglio in più che in effetti potrebbe anche esser giudicato male dal “maestro”. C’è una fortissima “base legale” comunitaria che consente alle istituzioni sovranazionali di entrare nel merito delle olitiche di bilancio e fiscali dei singoli paesi. Ribellarsi vuol dire mettersi sul pericoloso sentiero del governo Syriza 1.0, per poi ritrovarsi davanti all’alternativa o te ne vai o ti arrendi. Un incubo per i ribelli meglio intenzionati, figuriamoci per il “poliziotto buono”…

Dall’altra parte, lo stesso Renzi assicura di avere già in tasca l’accordo politico cone Angela Merkel e Jean-Claude Juncker. Soprattutto la prima è la vera garanzia di un’approvazione senza grandi correzioni, che potrebbe apparire facilmente umilianti. E da Bruxelles diversi funzionari hanno già fatto capire che la manovra italiana è stata così tanto concordata che ben difficilmente ci saranno richieste di correzione di un qualche rilievo. L’unico punto davvero incerto è quello scostamento dello 0,2% di deficit rispetto al Pil – valore: 3 miliardi – con cui il premier vorrebbe finanziare la riduzione dell’Ires alle imprese. Lo considera uno “sconto profughi”per i paesi in prima linea sul fronte dell’immigrazione da Sud, vagamento accennato nelle discussioni brussellesi nei giorni più caldi dei muri innalzati in Ungheria; ma non più ripreso nelle trattative vere e proprie.

Anche la detassazione della casa fa storcere il naso ai funzionari europei (si pagano in tutta Europa, cosa c’è di strano?), che avrebbero preferito una maggiore tassazione del lavoro (gentili e non classisti, vero?). Ma alla fin fine non si metteranno di traverso, purché il gettito sia quello giusto. Quindi Renzi non rischia molto.

Ma se è vero – ed è vero – che hai l’accordo con la Ue in tasca, perché fai la parte del ribelle urlatore?

Qui ci si deve per forza spostare dai problemi economici, quantificabili con una certa precisione, ai problemi di consenso politico, aleatorio per natura e misurat con un metro arbitrario – quindi poco affidabile – come i sondaggi.

È da questo fronte che arrivano le vere nubi nere per Renzi e il suo Pd. Più per il secondo che per la sua persona, a voler esser precisi. Perché la sua sovraesposizione mediatica e l’abilità guittesca gli consentono di mantenere una “fiducia” personale ancora rilevante, pur se ridotta dal 60 al 44% in appena un anno. Ma le vicende delle varie città, con sindaci quasi tutti del Pd, ma resi impotenti e dipendenti dal centro grazie al “patto di stabilità” che taglia loro le risorse, fanno crollare i consensi al partito. Al punto che c’è difficltà persino nel trovare candidati al ruolo. Il trattamento riservato a Ignazio Marino, in questo senso, fa senso. A tutti, e soprattutto a quella parte dell’elettorato Pd che “viene da lontano” ma vede che non si va più da nessuna parte.

Nenche Ilvo Diamanti, che certo non può essr considerato un antirenziano, riesce più a mascherare il tracollo sotto definizioni “addolcite”, tipo “Renzi mantiene il consenso” mentre certifica una perdita di ben 16 punti percentuali. Il Pd, invece, scende pericolosamente verso la soglia-rischio del 30% (oggi viene dato poco sopra il 31), mentre il Movimento 5 Stelle si avvicina altrettanto pericolosamente a quella soglia (27,2).

In assenza di movimenti popolari veri, ci si accontenta dell’indignazione generica. Che in questi mesi si è spostata dalla “casta” alla ben più premente Unione Europea. Per il premier-senza-più-un-partito è comunque un segnale di tempesta. Dunque, si deve fare la parte del populista tardivo e non credibile, mostrarsi furente e indipendente rispetto a “burocrati di Bruxelles” (che l’hanno invece adottato e nutrito), per cercare di limitare l’erosione di voti potenziali. Tutto qui.

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