Queste elezioni europee sono diventate improvvisamente interessanti. Non perché cambino qualcosa nelle politiche che i governi nazionali saranno obbligati ad attuare secondo le indicazioni della Troika, ma come sondaggio reale sull’umore popolare nei singoli paesi e nel pieno di una crisi che non passa, nonostante l’applicazione ferrea delle indicazioni provenienti dall’alto continuino a promettere “una ripresa”.
Se le piazze fossero l’unico sensore di cui tener conto, la partita sarebbe già chiusa: trionfano Grillo e la protesta totale, persino a dispetto di un’assenza di progetto alternativo che diventa preoccupante. Il semplicismo con cui il “leader” aggira qualsiasi problema – “Lo chiediamo agli italiani online” – non può certo rassicurare nessuno che sia in grado di andare oltre il puro ribrezzo per ciò che la classe politica attuale rappresenta, a cominciare da quell’orda accroccatasi intorno a Renzi, ormai contestato proprio nelle piazze da sud a nord.
Ma i centri di interesse e potere che sostengono il governo – quelli ex berlusconiani compresi – non possono più pensare di riempire le piazze. La disillusione e l’avanzare della crisi hanno ridotto a zero ogni “entusiamo” per i seminatori di promesse. Soprattutto, i maggiorenti che riescono, con qualche difficoltà, ad evitare la galera, sono impegnatissimi – si leggano Repubblica, Corriere della Sera, La Stampa e IlSole24Ore – nel tentativo di portare tutte le paure al voto invocando il totem della “stabilità”.
Il crescente nervosismo di Renzi e dei suoi è un segnale evidente (i sondaggi che non possono essere più pubblicati sono negativi); ogni giorno viene abbassata la soglia della percentuale di voti che separa la vittoria dalla sconfitta (e ormai si accenna al 25% di Bersani, un anno fa, come il minimo per non dare le dimissioni). I funzionari del Pd che ieri sera distribuivano calci e pugni ai contestatori in Piazza del Popolo, a Roma, l’hanno capito meglio di altri.
Nessuno sa proporre una “soluzione” credibile per superare la crisi; e viene il dubbio – o cresce la certezza – che la soluzione non esista.
La situazione attuale è infatti esattamente questa:
a) non c’è nessuna possibilità di “riforma” dei vincoli dell’Unione Europea; eventuali ritocchi ai trattati – a malincuore riconosciuti come necessari persino dalla Germania merkeliana, ormai – saranno contrattati con assoluta sproporzione di forze, e piccole concessioni sul fronte dell’austerità (sforamento del 3% nel rapporto deficit/Pil, eliminazione della voce investimenti dal calcolo della spesa pubblica, ecc) saranno compensate da controlli più rigidi, perentori, autoritari;
b) non c’è alcuna possibilità di ritorno alle sovranità nazionali, accompagnate o meno da “svalutazioni competitive” di monete deboli e prive di credibilità.
c) non è possibile nessuna politica “keynesiana” di dimensione continentale, perché l’architettura dell’Unione Europea non ha creato uno Stato, ma semplicemente degli organismi intergovernativi (in cui pesano i rapporti di forza tra singoli paesi) e delle istituzioni “tecniche” che applicano ottusamente procedure liberiste smentite dall’economia reale.
Il modello di costruzione dell’Unione Europea è insomma molto simile a quello su cui è stata costruita la Nato: accordi intergovernativi che prevedono la “cessione di sovranità” su alcune materie (prevalentemente economiche nel caso della Ue, esclusivamente militari in ambito Nato), ma senza alcuna possibilità di fare marcia indietro. Nel frattempo le singole economie nazionali si sono interfacciate in modo ferreo, secondo una diversa “divisione internazionale del lavoro”, distruggendo insediamenti produttivi, competenze e istituzioni formative in alcune aree, mentre altre se ne appropriano, come sottolinea il sig. Hartz, l’uomo dei minjobs in Germania.
Qualsiasi leader che si presenti al “popolo” con questi tre “non si può fare” alle spalle, può solo agitare fantasmi, elargire promesse, seminare timori e speranze. Apprendisti stregoni dalla vista – e dalla vita politica – corta.
Quel che è invece certo è che questo rifiuto non può essere nemmeno incidentalmente intercettato dalla “sinistra elettoralistica”, in nessuna delle sue componenti.
In essa sopravvive infatti una visione tristemente “riformista” del mondo che non riesce neanche a vedere i momenti di frattura che si creano nella società; una cultura dove la “continuità” è introiettata – persino come autocondanna alla sconfitta – senza alcuna percezione delle “discontinuità” radicali che la crisi va disseminando. Parlare di “cambiare l’Europa” mentre si ammette che questa Unione Europea “non è riformabile” rasenta la schizofrenia.
Se tutto ciò è vero – e non abbiamo fin qui visto nulla che lo possa smentire – allora il problema non è “sperare” in un risultato piuttosto che in un altro. Il problema è entrare con decisione in campo, costruire il “blocco sociale” indispensabile a rendere fisicamente possibile un’alternativa di sistema e una rappresentanza politica di interessi “di classe” adeguata. Non è più tempo di cartelloni o cartellini – elettorali o meno – il cui unico prodotto è realisticamente l’impasse per eccesso di differenze e veti incrociati. È il tempo del conflitto che sa costruire consenso sociale, consapevolezza di sé e delle proprie capacità, esperienza e comunanza di vedute, articolazione di pratiche e unità progettuale.
Non ci sono soluzioni già pronte, bisogna inventarle. Per questo servono una dose da cavallo di coraggio politico e una rottura culturale profonda.
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