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La porta in faccia a Renzi

Arrivato di corsa sulla vetta d’Europa, paracadutato lì da forze incontrollabili, Renzi sembra improvvisamente sull’orlo del precipizio. Succede, in montagna, a quelli che sono saliti con l’elicottero o la funivia, invece che a forza di scarpinare e scalare.

Il suo discorso è stato la solita accozzaglia di immagini pensate per captare benevolenza in casa (praticamente tutte le tv pubbliche e private sono state mobilitate per dargli il massimo di visibilità: l’endorsement pomeridiano di Piersilvio Berlusconi ha fatto capire quanto sia risibile la distanza tra governo e “opposizione” forzitaliota), un flusso di parole come pallottole capaci di rimbambire in casa, ma che non hanno però scalfito il muro dell’establishment di Strasburgo e Bruxelles. Un milieu abituato a ben altri protagonisti, consapevole di trovarsi di fronte a un giovane – anche da loro – paracadutato.

Al centro, il tormentone sulla “flessibilità” nel rispetto delle regole fissate dai trattati (debito e deficit in rapporto al Pil) proprio alla vigilia dell’entrata a regime del Fiscal Compact, che obbligherà i governi italiani dei prossimi 20 anni a tagliare il debito di 50 miliardi l’anno. Un rosario di frasi per “stimolare la crescita”, ovvero per ottenere almeno che una parte della spesa per investimenti non sia computata come spesa pubblica “cattiva”, dunque da tagliare.

Al di sotto delle parole, niente altro. E il “ragazzo fortunato” di Pontassieve rischia ora di fare i conti la tutte le sfortune fin qui sgombrate – non da lui, certamente – dal suo cammino.

Intanto, l’Unione Europea a guida tedesca (la sua presidenza semestrale è solo “pro forma”; persino i due gruppi principali – Pse e Ppe – sono entrambi sotto presidenza teutonica, con il riconfermato Martin Schultz e il neoletto Manfred Weber) rifiuta decisamente di “cambiare verso”. L’austerità e il rigore restano il dogma assoluto. Non solo per convinzione ideologica, ma perché rispondono perfettamente agli interessi economici delle aree e dei capitali più avanzati. Gli altri si fottano. Se proprio hanno bisogno di una “svalutazione competitiva”, la facciano tagliando i salari interni, precarizzando il lavoro, smantellando il welfare, privatizzando i servizi sociali e lasciando svalutare il patrimonio immobiliare, sia pubblico che privato. La deflazione per i Piigs non è un “errore” cui mettere rapidamente riparo, ma un programma di lavoro per ridisegnare le filiere produttive continentali.

Non si tratta di una porta in faccia da poco, un “niet” che possa essere aggirato passando da un’altra parte. Tutta la “strategia europea” di Renzi & co. si regge esattamente sullo scambio tra “riforme strutturali” e tempi più lunghi (“flessibili”) per il rientro dal debito. Sulle prime deve far conto sulla (poca) opposizione sociale interna, al momento meno importante di quella puramente “burocratica” degli apparati e degli gruppi affaristici coinvolti di striscio nella spending review (il mondo degli appalti pubblici, sostanzialmente, e quel che resta della “politica locale stipendiata”). Ma sul secondo termine – il rientro dal debito –, se non ottiene margini più ampi di manovra andrà a sbattere contro il muro.

L’ampio consenso interno certificato alle elezioni europee si regge per ora sull’attesa che le mirabolanti promesse dei primi quattro mesi vengano realizzate nel corso dei prossimi dodici. Ma i dati economici sono sempre indifferenti alle parole elettorali. I primi sei mesi si chiuderanno, spiega l’Istat, con una “crescita zero” o addirittura negativa. Quanto basta per far aumentare la disoccupazione, i costi degli ammortizzatori sociali, la base materiale delle prevedibili proteste dell’autunno. Soprattutto, sono dati che incrinano l’imagine – solo nazionale, come si è potuto constatare a Bruxelles – del giovane leader “vincente”, che fa crescere fiori e ricchezza là dove passa. E Renzi non ha, né potrebbe avere, un’immagine di riserva. Non possiede competenze né esperienza, “comunicazione” a parte. Ma la comunicazione può aiutare ad enfatizzare un diverso lato di un’immagine sfaccettata, non un’icona unidimensionale che coincide con l’abilità comunicativa stessa.

È dunque la materialità della crisi a presentarsi come il principale nemico dell’improvvisato Telemaco di Bruxelles. Sarà questa a scavargli la fossa, specie se i templari del “rigore” si mostreranno pronti a rimboccargli la lapide mantenendo le rigidità degli ultimi anni.

Il nostro Controsemestre popolare si annuncia interessante…

 

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