L’ironica provocazione di Giorgio Cremaschi (“Romperò una vetrina, la prossima volta”) coglie un punto che sembra necessario approfondire. Sono ormai anni che il circuito mediatico segue come un gregge alcune indicazioni dall’alto che rendono l’informazione mainstream un cumulo di luoghi comuni, appiattendo il linguaggio stesso ad una serie di stereotipi che difficilmente chiariscono qualcosa. Parole di una “neolingua” che rovescia sistematicamente il segno di valore dell’oggetto che si pretende di nominare. Ossimori vergognosi come “guerra umanitaria”, “missione di pace”, “peace keaping”, fino al quasi esplicito “peace enforcing”, vengono ripetuti ossessivamente, con l’aria di chi ti sta dicendo “non v’è chi non capisca di cosa stiamo parlando”.
Finché questo meccanismo strettamente orwelliano – o meglio: di scuola Goebbels – si esercita su scenari esotici può diventare molto complicato rovesciare il segno riportando in primo piano la realtà e le sue sporche verità.
Ma quando “veniamo parlati” per quel che noi stessi facciamo, diventa non solo necessario, ma anche possibile scrollarsi di dosso questa coazione condizionante.
Vediamo un po’ nei dettagli. L’ironia di Cremaschi colpisce i media italiani che, di fronte alla doppia mobilitazione del 28 febbraio, a Roma e Milano, si sono scoopisticamente concentrati solo su Roma. Dal punto di vista organizzativo c’è una qualche logica: dovendo coprire la prima volta dell’incursione a Roma della Lega “rinazionalizzata”, in associazione con i mazzieri di CasaPound e con una manifestazione contraria che era stata dipinta come una portaerei di scontri violenti, i direttori hanno messo su “squadre” concentrate su un solo obiettivo. La grande manifestazione sindacale di Milano, contro il Jobs Act e la vergogna del lavoro gratuito per Expo 2015, è passata tra le “non notizie”, visto che lì di scontri non era lecito aspettarsene.
Se ci sono un po’ di fumogeni e qualche vetrina rotta, con relative cariche e manganellate della polizia, la protesta fa notizia; altrimenti non esiste. Per cui non resta che rassegnarsi: “romperò anch’io una vetrina la prossima volta”?
C’è chi si fa guidare dalle leggi dei media mainstream e imposta tutta la sua comunicazione politica su questa falsariga. Il guadagno politico è zero, perché non è più vero che se una protesta deborda dai limiti della “protesta pacifica” allora ottiene anche risultati.
Non siamo negli anni ’70, si dice spesso, ma sarà bene spiegare in che senso. Allora c’era un sistema fortemente “consociativo”, una cultura politica del potere assolutamente “inclusiva”, per cui nessuno poteva davvero esser tenuto fuori dalla dialettica politica. In quel contesto, con vastissimi movimenti di massa che pretendevano addirittura il socialismo (non ci dilunghiamo qui su quante varianti ne esistessero allora), un di più di violenza faceva aprire molti più margini di trattativa. In un sistema keynesiano, ad economia mista, doroteo nella logica gestionaria, una mediazione usando la leva della spesa pubblica era sempre possibile. Persino in pieno 1977, tra blindati e morti nelle strade, uscivano fuori finanziamenti per dare reddito a liste di disoccupati, la legge 285, una riforma carceraria, ecc.
Nell’era dei governi della Troika questa mediazione è negata alla radice, come hanno sperimentato di recente anche corpi intermedi molto tranquilli come Fiom e Cgil. Quel tanto di fumogeni e manganellate fa notizia, ma non produce nulla. Soltanto feriti e arrestati, denunce, fogli di via. Un prezzo molto alto, e molto concreto, per conquistare niente. Neanche l’”egemonia” sui movimenti sociali, sindacali, territoriali, ecc.
Si è insomma creata una fallimentare, ripetitiva, corrispondenza tra una repellente-criminalizzata idea di “antagonismo” schematizzata dai media di regime e la presunta necessità di agire comportamenti in grado di “bucare la cappa dell’indifferenza”. Un gioco mediatico in cui l’unico ruolo vero che ci tocca è quello di venir giocati pagando un prezzo alto, una fissità tattica e strategica che è il contrario di quell’anguilla che è sempre stato un vero movimento antagonista, quella creatività per cui non ci avrete mai come volete voi.
L’ironica provocazione di Cremaschi pone dunque un problema di tattica, strategia, autorappresentazione, comunicazione politica antagonista al potere e fuori dai suoi schemi. Un problema che riguarda la protesta del mondo del lavoro e di tutti gli altri movimenti. Perché quella trappola infame (se non ti fai caricare non esisti, ma se ti fai caricare sei un proto-terrorista con cui non tratteremo mai; alla fin fine, non esisti in entrambi i casi) strangola tutti. Sottrarsi alla trappola inventando modalità incisive di mobilitazione è una sfida con cui misurarsi a tutto campo.
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bruno gualco
Concordo senz’altro, anche sulle conclusioni. Ma imporre la visibilità delle proprie istanze, a un sistema di potere mediatico concepito per oscurarle, non mi sembra impresa possibile, se non aggirando quel sistema, cominciando con l’ignorarlo. Ho paura che l’unica suggestione delle lotte storiche che dovremmo recuperare è la frase “la fantasia distruggerà il potere …”. Dovremmo militare per cambiare le cose nella società, nella quotidianità, organizzando ragionamento e comportamenti, nella società, nella quotidianità. Per fare questo costruire momenti organizzati diffusi, definibili come intellettuale collettivo (una volta si sarebbe detto semplicemente: Partito) è certo la premessa indispensabile ad ogni manifestazione. Ed è anche l’unico modo per propagare una comunicazione reale, non subalterna alla ristrutturazione di significato operata dal sistema mediatico di potere.
Il potere, prima lo si deve rendere obsoleto, poi si riesce anche a batterlo in piazza. Su questo punto il ’68, ma anche l’89, credo possano costituire precedenti storici da tenere sempre a mente.
Bruno Gualco