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L’incrinatura greca

Il vento di Atene è stato imbrigliato dalla fitta e spietata maglia dei trattati dell’Unione Europea. In molti si augurano che venga disperso, molti altri si augurano che in qualche modo continui a soffiare per non far richiudere nuovamente la lastra di ghiaccio sul futuro delle classi subalterne in Grecia e in Europa.

Dopo la vittoria di Syriza alle elezioni, era sembrato possibile che ci fossero interstizi nei quali infilare le aspettative generate dal risultato di una democratica espressione popolare e da una situazione sociale che presenta aspetti di aperta catastrofe umanitaria. Ma l’Unione Europea e i suoi apparati hanno immediatamente esplicitato che il voto popolare non conta, che contano solo la governance e i rigidi parametri stabiliti dai trattati. E non tanto per gli scostamenti economici che le richieste elleniche potevano causare, quanto per affermare il potere decisionale degli apparati costruiti dalle classi dominanti continentali su tutti i paesi aderenti all’Eurozona.

Nè il voto popolare nè la drammatica situazione sociale della Grecia hanno smosso la gabbia blindata dell’Unione Europea, la quale, al contrario, ha fatto pesare la sua capacità di dissuadere dolorosamente qualsiasi paese aderente ai trattati dal prendere strade divergenti da quelle imposte dalla Troika. Neanche sulla base di un programma riformista, più o meno radicale o intermedio che fosse. Del resto non si può perdere di vista il fatto che se il programma di cambiamento passa attraverso lo strumento elettorale e non l’insurrezione popolare, il programma in qualche modo è “tarato” per questa prospettiva, con forze politicamente orientate su essa e un consenso popolare testato dai risultati elettorali.

Il governo di Syriza si è trovato così davanti a un bivio:

a) sbattere la porta di Bruxelles e prepararsi a gestire una sorta di “periodo especial” in Grecia senza neanche i soldi per pagare i già immiseriti salari, la devastata sanità e i servizi per una popolazione provata dalla recessione (anche perché il governo ha deciso di non toccare le spese militari e l’immenso patrimonio immobiliare della potente Chiesa Ortodossa). Alcuni paesi hanno affrontato prove altrettanto pesanti, come Cuba, e in condizioni economiche e di isolamento internazionale anche peggiori. Ma Cuba non aveva la stessa moneta dei suoi oppressori, non era chiusa nella gabbia di una struttura sovra/statale, né veniva da una economia di mercato. Inoltre aveva una soggettività politica solida, motivata e sperimentata da mille verifiche, inclusa quella rivoluzionaria. Una situazione simile l’hanno affrontata, anche in quel caso a partire da una situazione di estrema debolezza, altri paesi sudamericani che hanno rotto il meccanismo di integrazione imposto da Washington prima che esso si chiudesse come una catena su tutto il continente. All’Afta caldeggiato dagli Stati Uniti e dalle classi dirigenti dei propri paesi, i popoli di alcuni stati hanno contrapposto l’Alba, svincolandosi dal ricatto del debito e acquisendo autonomia dal punto di vista politico, economico e militare.

b) Rinunciare allo scontro frontale con l’Unione Europea, piegarsi a dolorosi compromessi, prendere il tempo che si riesce a strappare per prepararsi ad una seconda fase del braccio di ferro, cercare nel frattempo di preparare il paese a questo scenario, tentare di trovare nuove fonti di finanziamento internazionale extraeuropee (Russia, Cina, Brics), verificare se in qualche altro paese europeo si affermino forze di governo con orientamenti più simili alla Grecia e più indipendenti dall’osservanza ai diktat della Troika, intervenire sugli aspetti più urgenti dell’emergenza umanitaria che attanaglia la popolazione greca. Forze importanti sia dentro Syriza che fuori (vedi il Kke e il sindacato Pame) non sembrano condividere questa decisione e premono per uno scenario più simile al primo.

La leadership e il governo di Syriza sembra invece aver scelto questa seconda strada, augurandosi che il tempo lavori per Atene e non contro, e che questo tempo sia sufficiente per estendere il grido della Grecia anche ad altri paesi Pigs, in particolare Spagna, Irlanda e Portogallo dove le forze di sinistra sembrano avere buone possibilità sul piano elettorale. Purtroppo per noi l’Italia, nonostante sia la “I” mancante dall’acrostico Piigs, non sembra ancora poter comparire in questo elenco di aspettative.

E qui veniamo a come la Grecia parli anche a noi e ai nostri problemi. Osservando le valutazioni e i commenti in circolazione rileviamo come prevalga ancora una insostenibile immaturità. Coloro che avevano sperato che il vento di Atene potesse sollevare anche le proprie sorti, magari sul terreno elettorale, oscillano tra l’ennesima delusione e un giustificazionismo che omette sistematicamente dal giudizio ogni elemento oggettivamente negativo. Coloro che avevano sin dall’inizio scommesso sul fallimento politico di Syriza ne ricavano una acritica soddisfazione che non coglie nessuno dei dati oggettivi che possono incidere sullo scenario. Ancora una volta si ragiona sulla fotografia della situazione e non sulle tendenze o i possibili sviluppi.

In questi anni abbiamo sostenuto con pubblicazioni, campagne politiche, iniziative pubbliche che la rottura dell’Unione Europea e con l’Eurozona, non erano una opinione ma una condizione inevitabile per chiunque, in Europa, si candidi a rappresentare un progetto di cambiamento politico con caratteristiche di classe e internazionaliste. L’Unione Europea è oggi “il nemico dell’umanità”, almeno in Europa e nelle aree circostanti, non è riformabile nè condizionabile dall’interno. Questo è un dato di fatto che l’esperienza greca sta confermando pienamente.

In secondo luogo abbiamo sostenuto che nessun paese da solo ha la massa critica sufficiente per perseguire una rottura dell’Unione Europea, anche su un terreno riformista magari avanzato come quello proposto da Syriza.

In terzo luogo abbiamo indicato chiaramente come la rottura non poteva che incubare e magari prodursi nei paesi Pigs (Spagna, Grecia, Portogallo, Irlanda) in quanto anelli deboli della catena imperialista europea e vittime del processo di integrazione e gerarchizzazione interno. E anche qui i dati indicano che è in questi – e non in altri paesi, per ora – che si manifestano possibilità di cambiamenti politici o scostamenti dal dominio della Troika.

In questi anni abbiamo sostenuto che la sfida dell’integrazione regionale, ma declinata come solidale e cooperativa, non è un terreno che appartiene solo alla borghesia. Se un solo paese non ha la forza per produrre una rottura ma può avviarla, un gruppo di paesi che rompe con l’Unione Europea e l’Eurozona e dà vita ad un’area regionale alternativa (una sorta di Alba Euromediterranea), questa rottura non può che passare attraverso lo scontro con la borghesia europea oggi dominante e il conflitto sociale animato dai movimenti e dai sindacati di classe. Si indica quindi una alternativa e ciò riporta finalmente nell’agenda di tutti il tema del cambiamento politico, un tema rimosso da troppo tempo o affrontato in termini del tutto rinunciatari e riformisti.

E’ per questi motivi che dobbiamo augurarci che l’incrinatura greca non si chiuda, anche attraverso un forte conflitto di classe in quel paese che spinga in avanti il processo di rottura con l’Unione Europea e la Nato nonostante una parte della leadership di Syriza non sia assolutamente su questa linea. La realtà modifica scelte, comportamenti, posizionamenti e spesso costringe i soggetti in campo a fare cose che solo un mese prima non si erano neanche immaginate possibili.

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