La morte di Pietro Ingrao ha giustamente colpito molti compagni, dando occasione a tutti di riesumare con nostalgia o spirito critico i bei tempi andati, quando i comunisti – anche in questo paese – erano tanti, vitali, “egemoni” ciò nonostante fieramente divisi e divisibili.
Di quel passato glorioso sono rimaste solo le divisioni, fino all’atomizzazione individuale e oltre. Quindi non nutriamo nostalgie. Neanche per Ingrao, tanto stimolamte sul piano intellettuale (al dà delle risposte che di volta in volta dava) quanto paralizzante sul piano politico operativo, specie nei confronti delle molte “aree” che nelle varie congiunture storiche si erano coagulate partendo dai suoi stimoli.
Nel suo ricordo del dirigente comunista, Giorgio Cremaschi giustamente evoca una definizione che in qualche modo riassume la sua figura: eretico non scismatico. Ovvero capace di critica sia alla linea dominante nel partito che alle stesse basi teoriche poste a giustificazione di quelle scelte, senza però mai – mai – mettere in moto una scissione. Neanche quando questa si era già verificata, come nell’ultimo caso conosciuto, che portò alla nascita di Rifondazione. Anche in quel caso, ci vollero due anni perché riuscisse ad accettare la realtà di fatto e quindi lasciare il Pds. Un po’ troppo per un leader che agisce nel politico, oltre che nella sfera delle idee.
In questo comportamento c’è molto della cultura, o del senso comune, del movimento comunista del secolo scorso. Si discute magari fino allo sfinimento e agli insulti reciproci, ma alla fine si accetta la posizione della maggioranza. Fosse soltanto questo, lo diciamo subito, staremmo parlando di un valore – lo spirito unitario, il senso di appartenenza a un’insieme collettivo – che condividiamo in pieno ancora oggi. È l’abc dell’essere comunista, rivoluzionario, attivista. Non ha senso, infatti, pensare al cambiamento sociale, dell’intero modo di produzione dominante, sul piano addirittura globale, senza al tempo stesso accettare la diversità di opinioni – inevitabilmente generata dal trovarsi ciascuno e tutti in situazioni differenti, per lingua, territorio, strato sociale, posizione lavorativa, livello reddituale, condizioni di vita, età, ecc – che corrispondono fisiologicamente a punti di osservazione differenti della medesima complessità.
Diversità e unità che si compongono e rigenerano nel conflitto sociale, nella ricerca delle soluzioni efficaci ai problemi posti dal conflitto, in un processo incessante di superamento delle vecchie forme nel mentre si mantiene costante l’obiettivo della trasformazione rivoluzionaria.
Ben poco a che vedere col panorama attuale della sinistra ex comunista, sia di derivazione Pci che extraparlamentare. Qui domina il principio di scissione, la ricerca della “composizione” è rifiutata in radice, almeno nelle pratiche dominanti. Come se realmente solo quell’intervento sociale che stai facendo in un certo momento avesse un senso trasformatore del mondo. Come se realmente ogni micro-aggregato potesse credere di essere lui – e soltanto lui – il nucleo fondamentale che “un giorno” guiderà il processo rivoluzionario globale. Roba da tso urgente…
Ma rotture e scissioni, nel movimento comunista internazionale, lungo i cento anni esatti che ci stanno alle spalle e che sono coincisi con la vita di Ingrao, ce ne sono state molte. Alcune evitabili, altre no. Quando la realtà chiede soluzioni concrete e “il partito” – a livello nazionale o internazionale – non riesce a dare risposte efficaci, non c’è spirito unitario che possa tenere insieme il corpo sociale, i militanti, i “corpi intermedi”. Si tratta insomma di processi storici che producono la risposta necessaria, anche se non sempre quella “giusta per noi”, e non possono essere evitati, o messi sotto il tappeto, dalla ricerca dell’unità a tutti i costi.
È la contraddizione reale che decide cos’è giusto fare e cosa no, non le intenzioni soggettive, per quanto ben motivate sul piano ideologico. In questa contraddizione, da sempre, agisce la politica comunista. Quella che ricerca l’unificazione delle forme conflittuali delle classi sfruttate per convogliarle – a tempo e modo, secondo una logica costruttiva di un nuovo ordine sociale – nella distruzione dell’ordine esistente.
Questo per dire che non c’è mai – mai – un comportamento giusto per tutte le occasioni. Così come non è mai – mai – possibile un vittoria duratura basata sull’improvvisazione.
La rinuncia programmatica all’unità, magari goffamente mascherata dall’esibizione di disponibilità unitaria purché avvenga sotto la propria egemonia, è rinuncia esplicita, controrivoluzionaria, alle prospettive di trasformazione sociale. Ed è la situazione che ci troviamo davanti ogni giorno, ad ogni assemblea, corteo, seminario, chiacchierata informale.
La rinuncia programmatica all’alternativa organizzata, idem. Nessuna organizzazione resta sempre uguale, ogni corpo sociale si modifica con l’andare del tempo, specie se l’obiettivo della trasformazione radicale non sembra mai avvicinarsi. La storia del Novecento ci ha mostrato innumerevoli volte l’emergere del tumore “riformista”, socialdemocratico o addiritura liberal-liberista, ai vertici degli ex partiti comunisti. Davanti a certe derive, la scissione e la nuova fondazione diventano semplicemente un obbligo politico.
Non ci sfugge, naturalmente, che le due derive si tengono e si giustificano reciprocamente (ai limiti estremi: individualismo e “voto utile”), eternizzando comportamenti che hanno senso solo a determinate condizioni. Eretici-unitari-sempre-e-comunque e scismatici-a-prescindere sono due facce – sbagliate – della stessa medaglia.
È la dialettica materialistica, bellezza! Costringe tutti e sempre a fare scelte, senza preventiva certezza di averci azzeccato e di stare nel giusto.
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