Il limite del conflitto sindacale
Un tempo bisognava sforzarsi per capire cosa covasse nella testa dei padroni e dei loro attaché, altrimenti detta “la classe politica”. C’era una stampa differenziata, insomma pluralista per necessità di coprire un mercato delle opinioni abbastanza vasto. Superiore a uno, se non altro.
Oggi è tutto molto più semplice. Il programma delle iniziative legislative che devono prender corpo nel cosiddetto parlamento (la minuscola diventerà d’obbligo per tutti…) lo si può leggere con un certo anticipo negli editoriali della stampa padronale. Specie sotto la testata Corriere della Sera.
Enrico Marro ci presenta dunque la “riforma” del diritto di sciopero, proprio a ridosso di un riuscitissimo sciopero dei trasporti a Roma, confermato dalla sola Usb e revocato da Cgil-Cisl-Uil. Un giornalista serio, o almeno affezionato al proprio mestiere, si sarebbe posto una sempplice domanda: “cavolo, se tutti i grossi lo hanno revocato e i dipendenti hanno scioperato lo stesso, sta succedendo qualcosa”. Per il redattore sindacale di un giornale che un giorno sì e l’altro pure tuona contro la “casta sindacale”, spiegando al colto e all’inclita come queste confederazioni non siano più in grado di rappresentare il mondo del lavoro, neanche quello considerato “garantito” (il trasporto pubblico, ancora in buone percentuali, può rientrare nella definizione), questa sarebbe stata l’occasione regina per dimostrare il teorema diffuso quotidianamente dal suo quotidiano.
E invece niente. Attacca il pezzo con la solita giaculatoria populista-qualunquista: “Ancora una volta uno sciopero proclamato da un sindacato minoritario riesce a fermare la metropolitana nella capitale. Ancora una volta di venerdì. Ancora una volta lasciando un profondo senso di rabbia e impotenza nei cittadini vittime di questi disagi”. Se avesse ancora timore dei lettori, non avrebbe scritto neanche la prima riga: come può esser definito “minoritario” un sindacato che riesce ad ottenenere un consenso dei lavoratori tale da bloccare la capitale?
Se guardiamo al numero degli iscritti dell’Usb in Atac e Tpl (rutto di una “privatizzazione” dei trasporti destinati alle periferie, di cui al Comune e al Corriere non frega assolutamente nulla), certamente non è il più numeroso.
Ma se la sua iniziativa ha raccolto così tante adesioni (che ci auguriamo si trasformino presto in iscrizioni, a questo punto), vuol dire che i dipendenti delle due società hanno problemi serissimi – a ogni sciopero ci si rimette una giornata di lavoro lorda, ossia una cifra superiore allo stipendio netto giornaliero – e che i sindacati “ufficiali” non riescono a risolvere. E Marro lo sa benissimo, perché scrive “Alla base delle proteste il mancato rinnovo del contratto di lavoro, scaduto da ben otto anni. Nella capitale, con l’aggravante che a circa un migliaio di lavoratori di Roma Tpl, consorzio di aziende private che gestisce parte del trasporto, non veniva più pagato lo stipendio da luglio. Motivi seri, dunque. E responsabilità pesanti dei datori di lavoro e dell’amministrazione capitolina”.
Solo che questi motivi seri non sono sufficienti per Marro e il blocco di potere proprietario del Corriere. Anzi, non contano assolutamente nulla davanti al “diritto alla mobilità”. È un vecchio gioco retorico, così vecchio che ci si stupisce funzioni ancora. Se però hai il monopolio dell’informazione pubblica, a parte qualche rivolo di contestazione confinato al web, puoi ripeterlo all’infinito. Come consigliava il giornalista Goebbels, “mentite, mentite, qualcosa resterà” nella testa dei bombardati.
Diritti contro diritti
Diritti dei lavoratori contro diritti dei cittadini, dunque. Questo è lo schema retorico che prepara il prossimo assalto al diritto di sciopero. Che essendo tutelato dalla Costituzione – finora – non può essere cancellato, ma solo regolato in modo così stringente da renderlo quasi impossibile. Quasi, naturalmente, perché i lavoratori e chi sa rappresentarli sa essere paziente e attraversare tutti i reticolati.
Anche questa “severità legislativa” è ben nota a Marro, come a tutti i redettori sindacali di tutti i giornali. “L’Italia, fin dal 1990, si è dotata di una legge, la 146 sullo sciopero nei servizi pubblici essenziali, per molti versi avanzata e severa, se confrontata a livello internazionale. N el nostro Paese non sono possibili scioperi ad oltranza, improvvisi, totali. Serve un preavviso, devono essere garantiti dei servizi minimi, vanno rispettati intervalli di tempo tra un’astensione del lavoro e la successiva, non sono possibili sovrapposizioni che paralizzino funzioni fondamentali della vita collettiva (nei trasporti, per esempio, non possono scioperare insieme treni e aerei). La legge ha cioè cercato di «contemperare», come dissero allora gli autori della normativa tra i quali Gino Giugni, il diritto allo sciopero tutelato dalla Costituzione e i diritti dei cittadini e degli utenti di vedersi assicurati servizi fondamentali (dai trasporti alla salute all’istruzione) anch’essi tutelati dalla Carta fondamentale. Del resto, lo stesso articolo 40 della Costituzione dice che «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».
Ricapitoliamo: da 25 anni, passo dopo passo, si è modificata la legislazione sul diritto di sciopero, ponendo paletti così numerosi che in altri paesi europei ci guardano addirittura con preoccupazione (lo sciopero a oltranza è normale in Germania, Francia, Gran Bretagna, ecc, e nessuno lì chiede neanche il rispetto dei “servizi minimi” o delle “fasce di garanzia”). Ma la gestione delle aziende di servizio pubblico è talmente disastrata, affidata com’è a portaborse e clientes, che la conflittualità si è mantenuta comunque alta. E si somma, nella percezione dei cittadini, alle molte disfunzioni (autobus e treni rotti, soffitti che crollano, voragini che si aprono, persino aggressioni agli autisti, ecc) che rendono i servizi pubblici complessivamente un disastro.
È un vecchio gioco anche questo. Talmente vecchio da essere stato formulato addirittura in forma di legge teorica: prima riduci gli investimenti, poi riduci gli stipendi, così distruggi la funzionalità del servizio e, quando gli utenti si esasperano, puoi privatizzarlo. Ossia regalarlo a qualche cordata di amici degli amici, o persino a qualcuno del “mondo di mezzo”.
Questo, stavolta, a Marro non interessa. Si concentra solo sul diritto di sciopero che – “purtroppo” deve esser rimasto nella penna – non si può vietare.
Il sequestro della rappresentanza
Ma in parlamento è gia depositata la soluzione, anzi due: “quella dell’ex ministro Maurizio Sacconi (Area popolare) e quella del giuslavorista Pietro Ichino (Pd), affrontano il problema, prevedendo, limitatamente al settore dei trasporti pubblici, che lo sciopero possa essere proclamato da sindacati che rappresentino la maggioranza dei lavoratori (o comunque una soglia minima), altrimenti sarebbe necessario sottoporre la proposta al referendum tra tutti i lavoratori interessati; una regola presente, sottolinea lo stesso Ichino, in Germania, nel Regno Unito, in Spagna”.
Vi diciamo già ora che sceglieranno di affidare il “diritto di proclamazione” degli scioperi ai soli sindacati “complici” (Cgil, Cisl e Uil). Che infatti non ne fanno più (anche quando li proclamano, li revocano al primo incontro, pure se completamente privo di risultati, come avvenuto proprio a Roma sulle vertenze Atac e Tpl, mercoledì scorso).
Perché sceglieranno questa soluzione? Perché “altrimenti sarebbe necessario sottoporre la proposta al referendum tra tutti i lavoratori interessati”. E c’è sempre il rischio che questi ultimi – i veri e unici titolari del diritto a contrattare e scioperare in difesa delle proprie condizioni di lavoro e salariali – siano meno “disponibili” di Camusso-Furlan-Barbagallo o imitazioni categoriali.
Popolo contro tecnocrati padronali
Le intenzioni del nemico sono insomma chiare. Come si combatte questa battaglia? A noi sembra evidente che sia molto difficile riuscire a vincere organizzando “soltanto” la grande maggioranza dei lavoratori di una o più categorie (che già sarebbe un risultato eccezionale). Anche la categoria più numerosa e vitale, infatti, si troverebbe comunque davanti a un muro di cemento che, al tempo stesso, prova a rovesciarle “la cittadinanza” contro. Media e tv, giornalisti come Marro o peggio, aizzeranno “il popolo” contro una sua parte.
La via da seguire, difficile ma non impossibile, è quella indicata dalla giornata di venerdì a Roma. Dove si è costruito un primo abbozzo di mobilitazione unitaria tra categorie di lavoratori dei servizi e rappresentanze sociali della “cittadinanza”. Bisogna fare di più e meglio, ovviamente. Ma da qui bisogna partire per costruire ex novo quell’unità del blocco sociale “nostro”, senza cui non si va più da nessuna parte.
Gli autisti e i tranvieri, i macchinisti e i capitreno, ed anche le maestre, le infermiere e i portantini, dovranno smettere per sempre di considerare la difesa dei propri diritti come un fatto di categoria, quasi “personale”.
E i comitati di quartiere, i centri sociali, le aggregazioni locali d’ogni genere, le associazioni di “consumatori” in senso largo dovranno smettere di pensare ai propri diritti specifici come un fatto acquisito che tocca a qualcun altro soddisfare, magari a scapito o nell’indifferenza per i diritti altrui .
Perché è senz’altro vero che mettere i diritti dei lavoratori contro i diritti dei cittadini è una bastardata da infami. Ma bisogna ritrovarsi gli uni davanti agli altri, lavoratori e “cittadini”, per scoprire ex novo che nella metropoli delle identità labili siamo tutti un momento una cosa e il momento dopo l’altra; lavoratori dipendenti, clienti, malati, studenti, pensionati, passeggeri…
E che abbiamo contro, ben nascosti in uffici irraggiungibili – persino per il “commissario anticorruzione”, a quanto pare – tagliatori di spese e di teste, di servizi e di diritti, che guadagnano in proporzione diretta alla quantità di cose che ci tolgono, obbedendo all’imperativo dell’austerità, in nome e per conto del governo e dellla Troika.
Tutte cose già scritte nei libri, è vero. Ma bisogna dirsele in faccia, scoprirle nella nostra vita quotidiana di oggi, per vedere nell’altro – di volta in volta l’autista, lo spazzino, lo studente, il degente, l’infermiere, l’occupante di casa, il passeggero, il sindacalista conflittuale e chiunque altro stia nel mondo di sotto – noi stessi. E in quelli di sopra, con l’aiuto criminale del mondo di mezzo e quello soporifero del sindacato complice, il nostro comune nemico. Quello che ci sfrutta, ci toglie i servizi di trasporto, le cure e le prestazioni diagnostiche, la casa e la scuola, il salario, le pensioni e la dignità sul lavoro.
Un passo non è ancora un cammino. È urgente che lo schieramento sociale che era in piazza venerdì lo capisca subito. E agisca di conseguenza.
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