La notizia, non del tutto imprevedibile, è che il TTIP, il famoso trattato transatlantico di libero scambio, non si farà. La conferma questa volta è venuta da fonte autorevole ossia il vicecancelliere e ministro dell’Economia tedesco, Sigmar Gabriel. In qualche modo colpiscono anche le motivazioni fornite dal ministro: “I negoziati con gli Stati Uniti sono effettivamente falliti perché come europei non possiamo accettare supinamente le richieste americane”.
Pochi mesi fa erano state le autorità francesi a lasciar capire che il TTIP non avrebbe mangiato il panettone neanche nel 2016. E questa estate era stato il ministro italiano Calenda a sbilanciarsi con un “secondo me salta perché siamo arrivati troppo lunghi sulla negoziazione quindi sarà molto difficile che passi e sarà una sconfitta per tutti”.
Le trattative per il TTIP erano iniziate nel 2013, soprattutto su pressione degli Stati Uniti. Il motivo? Il 70% degli investimenti statunitensi in Europa sarebbero stati al di fuori di ogni regolazione del trattato perchè si tratta di investimenti finanziari. Non solo. Le magnificenze economiche del TTIP, tanto decantate dai suoi sostenitori, sarebbero state irrisorie: lo 0,2% del Pil in più per l’Unione Europea e lo 0,6% in più per gli Usa. Pochissima roba, praticamente margini, eppure per gli Usa sarebbe stato il triplo che per le economie della UE. Insomma anche ad occhio un affare a perdere anche per le imprese europee penalizzate da una legislazione protezionista statunitense soprattutto sugli appalti nella sfera pubblica.
Ma il fallimento del TTIP era leggibile anche da altri fattori. Le divergenze e la competizione tra gli interessi strategici del capitalismo statunitense e quello europeo, si sono acutizzate pesantemente da quel 1992 in cui venne firmato il Trattato di Maastricht e soprattutto da quell'anno – il 2000 – in cui l’euro divenne la moneta comune dell’Eurozona (entrando però in circolazione solo due anni dopo). Economisti statunitensi come Martin Feldstein avevano profetizzato su Foreign Affairs che “l’introduzione dell’euro avrebbe portato alla discordia e perfino alla guerra dentro l’Europa e tra l’Europa e gli Stati Uniti”. Ragionamento analogo ha fatto più volte un altro personaggio come Henry Kissinger. Ma la tabella di marcia dell’Unione Europea è andata avanti in questi anni rifilando parecchi dispiaceri a Washington.
L’ultimo dispiacere è venuto a luglio dalla Londra votata alla Brexit, privando così gli Usa della loro testa di legno nell’Unione Europea e dunque anche il TTIP del suo player principale tra le sponde dell’Atlantico.
Non solo. La Gran Bretagna, per anni, si era opposta ad ogni forma di politica militare e difesa europea per non entrare in contraddizione con il ruolo di primus inter pares degli Usa nella Nato e nella supremazia militare. Ma adesso Londra non ha più voce in capitolo sulla materia e il recente vertice di Ventotene tra Germania, Francia e Italia ha rimesso la questione sul tappeto con il tono di “chi ci sta, ci sta”.
In questi anni, spesso isolati e in controtendenza, abbiamo sostenuto che la divergenza strategica tra Usa e Ue era destinata a crescere, fino al divorzio o alla completa ridefinizione dei vecchi rapporti tra i due partner transatlantici. Un'ipotesi, questa, che i neocons statunitensi hanno cercato di scongiurare sin dal 1992 (vedi il documento pubblicato sul Washington Post, anticipazione di quel Pnac del 2000 che divenne dottrina durante l’amministrazione di guerra di Bush). Era questa lettura delle tendenze che ci ha portato a guardare con scetticismo all’ultima ondata di euforia altermondialista con la campagna contro il TTIP sollecitata dalla solita Attac France e Le Monde Diplomatique.
Il problema c’era ma non era quello principale. Come di consueto, tutto un mondo a noi vicino – ma forse non più tanto vicino – si è rimesso a guardare il dito che indicava la luna piuttosto che la luna stessa, rinunciando ad ogni altra ipotesi di lettura della realtà nello scontro tra Usa e Ue; e soprattutto ad una idea che la costruzione imperialista dell’Unione Europea fosse il “nostro” nemico da battere.
E’ singolare la coincidenza tra le affermazioni del ministro tedesco Gabriel e quelle di tanti oppositori “sociali” al TTIP. Lungi da noi dal pensare a qualche “intelligenza con il nemico”, naturalmente, ma fino a quando si continuerà a pensare all’Unione Europea come ad una opzione comunque "progressiva" e non reazionaria e imperialista, si continuerà a guardare il dito e non la luna. A non vedere, insomma, la macchina stritolante del capitale multinazionale "europeo" dietro lo sbandieramento retorico del “manifesto di Ventotene”.
Il TTIP è morto? Meglio così. Ma guai a pensare che il voto sulla Brexit non sia stato determinante in questo risultato. E se così è, l’ipotesi dell’Italexit non può che occupare l’orizzonte politico di un movimento democratico, popolare e di classe degno di questo nome.
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