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Montepaschi, nazionalizzazione o catena al collo?

Nazionalizzazioni. Una categoria rimossa da tempo che si va riaffacciando – impropriamente – nel linguaggio e nell'agenda politica italiana. Ma è bene capirsi, sia nelle forme che nella sostanza.

Com noto, la Bce ha bocciato la richiesta della banca MPS di prorogare al 20 gennaio l’aumento di capitale di 5 miliardi di euro, la cui scadenza era fissata per il 31 dicembre. Sul mercato la banca è riuscita a trovare solo 1 dei 5 miliardi necessari alla ricapitalizzazione. Il nuovo presidente del Consiglio Gentiloni ha dichiarato, nel giorno dal suo insediamento davanti a Camera e Senato, che il governo è “pronto a intervenire” per stabilizzare il settore finanziario italiano e ha anche citato un piano B di salvataggio per Mps.

Il timore che la banca senese non riesca a reperire i capitali necessari ha spinto infatti il Tesoro a predisporre un piano che prevede di fatto la “nazionalizzazione” della banca mediante la partecipazione alla ricapitalizzazione con garanzie statali (una eventualità prevista dalla normativa europea sul bail in). Ma questa non è e non sarebbe una scelta a costo zero. Al contrario.

Per poter consentire che lo Stato intervenga nel salvataggio di Mps, l'Unione Europea prevede che l'Italia adotti il Srf (Fondo Unico di Risoluzione) previsto dalla recente Unione Bancaria. E fin qui la (residua) autonomia dello Stato in materia di finanza pubblica sarebbe ancora salva.

Se invece il contributo statale al salvataggio fosse di dimensioni superiori – si era parlato ad un certo punto di 15-17 miliardi, per la presa di controllo completa dell'istituto – allora il governo dovrebbe chiedere l'intervento del fondo Esm, il cosddetto “salva stati”. Ma questo comporterebbe che la Legge di Stabilità italiana nei prossimi anni venga commissariata e consegnata totalmente nelle mani dell'Unione Europea. Tra Bruxelles e Francoforte verrebbero decisi i tagli, le imposte e le poste di bilancio obbligatorie da attuare nel nostro paese, senza più consentire neanche quelle scelte “elettorali” su voci minori del bilancio cui Renzi era ricorso in abbondanza.

Il salvataggio pubblico del Mps non sarebbe dunque una “nazionalizzazione”, ma una abdicazione totale dell'economia italiana al vincolo esterno rappresentato dalla troika Bce, Ue e Commissione Europea.

Se avvenisse questo, più che di “nazionalizzazione” bisognerebbe parlare blindatura della gabbia costruita dall'Unione Europea sulle scelte economiche, sociali o strategiche del nostro paese.

Eppure, la vicenda del salvataggio del Mps, può diventare una occasione importante di chiarezza e di battaglia politica, sindacale, ideologica.

Da tempo andiamo sostenendo – nelle mobilitazioni e nei dibattiti – che occorre rimettere al centro dello scontro il tema delle nazionalizzazioni. Delle banche innanzitutto, ma anche di quei pezzi di sistema industriale lasciati andare in malora o svenduti dalle privatizzazioni prima e dalla divisione del lavoro interna all'Unione Europea.

Come pochi ricordano, e ancora meno sanno, fino agli anni horribiles dell'avvio del Trattato di Maastricht (1992/1993), le cinque principali banche italiane erano tutte “BIN” (banche di interesse nazionale), in cui la maggioranza del capitale era in mano all'Iri. Proprio in quegli anni il Credito Italiano, la Banca Commerciale, la Banca di Roma, ecc, vengono privatizzate. Dopo varie fusioni e concentrazioni diventeranno parte di Unicredit o Banca Intesa.

Da più di venti anni il sistema creditizio ha cessato di essere un sostegno al sistema economico complessivo (famiglie, imprese, ecc) e si è dedicato in primo luogo all'attività di investimento. I risultati sono ormai sotto gli occhi di tutti, inclusi i vermi nella pancia dei gruppi bancari, che sempre più spesso escono all'aperto.

In secondo luogo, la privatizzazione dell'industria a partecipazione pubblica (Iri, Efim, solo l'Eni è sopravvissuta in parte e in modo assai vulnerabile), ha portato al combinato disposto tra delocalizzazione e deindustrializzazione, alla sopravvivenza di una industria “di nicchia”, alla totale subalternità alle multinazionali straniere e alla disoccupazione di massa.

Produzioni strategiche e di qualità (dall'alluminio al lamierino, dagli autobus alla chimica/farmaceutica, ai computers) hanno visto la chiusura delle fabbriche dopo un periodo di “cannibalizzazione” delle loro quote di mercato da parte di multinazionali estere. Le storie di Alcoa, Irisbus, Olivetti o della stessa Ilva, sono lì a documentare il cimitero industriale lasciato in questo paese da una divisione del lavoro, asimmetrica e disuguale, decisa dall'Unione Europea. Il surplus accumulato dalla Germania, oltre che all'euro, ha molto a che vedere con questo processo.

In terzo luogo la privatizzazione e la svendita delle reti strategiche (telecomunicazioni, energia, trasporti) ha visto non solo il prevalere della dimensione finanziaria rispetto a quella dei servizi pubblici e dell'innovazione tecnologica (vedi il destino di Telecom ed Enel), ma anche l'acquisizione di quote decisive da parte di multinazionali estere (Vivendi, Telefonica etc.), che ormai determinano funzioni, priorità e organici di aziende decisive nell'economia. La stagnazione e il declino economico dell'Italia subalterna ai vincoli dell'Unione Europea sono ormai visibili anche in settori crescenti della società, nei settori operai e popolari come in quelli di piccole e medie aziende industriali, commerciali o dei servizi. Gli striscioni contro la Direttiva Bolkestein non compaiono più nelle manifestazioni “no global”, ma addirittura nei mercati di quartiere.

In tal senso la parola d'ordine della nazionalizzazione delle banche e delle industrie strategiche ha oggi tutte le potenzialità, le possibilità e le ragioni per diventare il punto di forza della battaglia generale per la rottura della e con l'Unione Europea e l'Eurozona. Non possono che essere questi, e non altri, i punti di forza del movimento e del conflitto reale nei prossimi mesi. Se ne facciano una ragione in molti, a destra come a sinistra.

 

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