Se c’è un dato positivo da evidenziare nella stolida mossa fatta da Mariano Rajoy nel mandare la Guardia Civil ad arrestare esponenti del governo catalano e sequestrare le schede per il referendum, è l’aver rotto lo specchio deformante che ha ingabbiato il dibattito pubblico nell’ultimo quarto di secolo.
Uno specchio fatto di parole che non corrispondevano mai ai processi reali che dovevano descrivere, normare, mettere in relazione. Ossimori, spesso, a rivelazione di una contraddizione insolubile che si voleva occultare.
In primo luogo, dimostra che la “democrazia” non è un sistema politico vigente, ma un insieme di frasi con cui si giustificano gli interventi armati contro qualcun altro. Anche a prescindere dal merito della questione catalana – si può essere indipendenti rompendo i vincoli con uno Stato nazionale più grande, che a sua volta sta cedendo sovranità a una struttura sovranazionale svincolata dal consenso come la Ue? – è addirittura dichiarata l’intenzione di impedire militarmente una consultazione popolare liberamente decisa da organi rappresentativi regolarmente eletti.
A far questo è un governo che prima ha fatto annullare (dalla Corte costituzionale, nel 2010) una legge che regolava le autonomie regionali (varata da Louis Zapatero e approvata con referendum dai catalani); poi ha finto di non vedere un referendum consultivo del 2014, senza avviare nessun confronto o ipotesi di riforma.
In secondo luogo dimostra che il problema delle identità nazionali, rimosso sbrigativamente dal processo di costruzione dell’Unione Europea, è tutt’altro che superato. Anzi, riemerge in diverse forme con il permanere della crisi, delle politiche di austerità, dell’impoverimento di massa.
Nel disassato dibattito italiano – pienamente controllato “filosoficamente” dal pensiero unico multinazionale – “sovranità” è concetto che dovrebbe essere associato alle destre più o meno nostalgiche, populiste, fasciste, ecc. Per chi invece prova a seguire il dibattito esistente in altri paesi, “sovranità” e “autodeterminazione” sono concetti e valori decisamente di sinistra.
Eppure è stata la stessa Unione Europea, dietro gli Stati Uniti, a guidare un assalto militare contro uno Stato europeo – la Jugoslavia – in nome del diritto all’autodeterminazione dei popoli. Contemporaneamente, però, fu accantonato il principio della “non ingerenza” nei sistemi politici di altri Stati – che aveva governato “il mondo diviso in due” del dopoguerra – aprendo la lunga stagione delle “guerre umanitarie”, “ingerenze democratiche”, “rivoluzioni colorate” (ossimori, appunto…) e altre forme creative dell’imperialismo post 1989.
Non è questo il luogo per discutere seriamente sul concetto di sovranità – in soldoni: il soggetto della decisione – che ha una lunga storia e un grande peso nel pensiero democratico e rivoluzionario (ha sostituito il monarca per diritto divino con “il popolo”). Ma ci sembra chiaro che l’Unione Europea è cresciuta in competenze “sovrane” (decisioni vincolanti per gli Stati membri) che eliminano alla radice ogni verifica da parte del demos. Detto volgarmente, le decisioni della Commissione, e ancor più quelle della Bce, sono istituzionalmente sottratte alla verifica elettorale e parlamentare (il Parlamento di Strasburgo è l’unico al mondo privo di potere legislativo, i Parlamenti nazionali possono solo ratificare le direttive europee). Quando un voto c’è stato, peraltro (Francia e Olanda sulla cosiddetta “costituzione europea”, ecc), questo è stato sempre negativo. Quindi rapidamente messo da parte.
Bisognerebbe insomma ragionare non solo sul chi decide, ma anche su cosa, in base a quali interessi riconosciuti come legittimi e su quale estensione territoriale. Altrimenti l’”antisovranismo” è soltanto un mantra favorevole al dominio del capitale multinazionale, non una manifestazione di “internazionalismo”…
Un intellettuale e politico marxista come Alvaro Linera, vicepresidente della Bolivia attuale, ha provato a spiegare come sia necessario tener conto della stratificazione sociale facendo attenzione, per esempio, alle specificità delle comunità indigene, che si concepiscono comunque – per lingua e tradizioni – come “nazioni”. Senza scandalo e senza nazionalismi d’accatto.
Il groviglio catalano è sorto all’interno di almeno tre faglie decisionali diverse: l’ambito territoriale della Catalogna, quello della Spagna storica e lo spazio dell’Unione Europea. Abbiamo una “comunità indigena” unita da lingua e tradizioni culturali che persegue l’indipendenza da tempo immemorabile; uno Stato-nazione classico che non riconosce al suo interno altre nazionalità; un quasi-Stato sovranazionale che assume competenze chiave (le politiche di bilancio, in primo luogo) senza alcuna verifica “democratica” effettiva (il voto popolare sulle decisioni rilevanti).
Qualcuno, anche tra i compagni, ha preso frettolosamente posizione contro i catalani perché – per esempio – Salvini ha biascicato qualcosa a favore (a Barcellona il fascioleghista riceverebbe un campionario di pedate)… Seguendo questo criterio scriteriato, si potrebbe rispondere che mettendosi contro ci si ritrova in compagnia di Rajoy, Aznar e gli eredi del franchismo. E sarebbe altrettanto stupido, come del resto abbiamo spiegato in un nostro articolo solo venti giorni fa.
Sta avvenendo qualcosa che squaderna le contraddizioni insolute di una costruzione continentale fatta senza demos (non c’è un “popolo europeo”, così come nessuno ha provato a scrivere una “Storia europea”, perché gli eroi di un paese nei fatti sono i criminali per il vicino), oltre a quelle di un paese che non è mai uscito completamente – sul piano costituzionale – dal fascismo e dalla monarchia. Non a caso, lì la destra è ferocemente “anti-separatista” in nome del nazionalismo (monarchico, per di più), mentre la sinistra in quasi tutte le sue accezioni – e con più convinzione quella più radicale, la Cup – è per l’indipendenza catalana.
Non è qualcosa che si possa affrontare con gli stilemi di un tweet. Ragione per cui ogni faciloneria va bandita dal dibattito e dalle iniziative, che oggi non possono che vederci schierati per il diritto del popolo catalano ad esprimersi in un referendum sulla sua autodeterminazione.
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Eros Barone
Storicamente, quando la borghesia spagnola ha cercato di unificare sulla stessa base statuale il paese iberico, ha dovuto prendere atto che sia nel Paese basco che in Catalogna esistevano già dei mercati nazionali creati da borghesie regionali con interessi propri e con uno sviluppo molto avanzato. La creazione di uno Stato-nazione con un’unica lingua, cultura ed economia non poteva che cozzare frontalmente con l’esistenza di altri contesti economico-politici già consolidati. A partire dalla fine del XIX secolo e durante tutto il XX secolo, allorché si sviluppa il nazionalismo catalano, la caratteristica di classe che dà la sua impronta a tale scontro è, per un verso, il conflitto di interessi commerciali e industriali tra le differenti borghesie per la ripartizione territoriale del plusvalore estorto alla classe operaia: un conflitto che si svolge in un quadro di ‘unità-lotta’, coinvolgendo gli strati popolari che aspirano legittimamente a difendere il loro patrimonio culturale e la loro identità. Per un altro verso, entrambe le borghesie condividevano e condividono un interesse comune basato sulla loro posizione di classi dominanti e sfruttatrici della classe operaia. Di conseguenza, entrambe le borghesie si sono saldate in un blocco ferreo quando si è trattato di schiacciare la maggioranza della popolazione sfruttata. Del resto, è vero che in nessun momento della sua storia la borghesia catalana ha aspirato all’indipendenza. Durante tutto il XX secolo vi è stata infatti una costante collaborazione tra le borghesie ed i loro rappresentanti politici, sia che si trattasse dell’appoggio al franchismo o della guerra civile, dei patti costituzionali o del sostegno alle leggi e ai governi della transizione dal franchismo al post-franchismo. L’alleanza di classi che costituisce la base sociale dello Stato spagnolo è quindi un blocco oligarchico-borghese che, in quanto tale, non è né catalano né basco né madrileno, poiché è un blocco di carattere spagnolo che fornisce il quadro politico-istituzionale unitario ad processo di accumulazione che, a sua volta, non è di tipo nazionale, ma si situa in un preciso quadro statale. La domanda chiave è pertanto questa: chi dirige il processo indipendentista catalano? Dovrebbe essere chiaro che non è guidato dalla classe operaia catalana, ma da settori borghesi e, in particolare, da vasti settori della piccola borghesia proletarizzata schiacciati dai processi di concentrazione e centralizzazione del capitale monopolistico innescati dallo sviluppo dell’imperialismo spagnolo. Tali settori sono i principali protagonisti dell’attuale mobilitazione e identificare i loro interessi di classe come il vettore di detta mobilitazione è la premessa indispensabile affinché non si finisca col lavorare per il re di Prussia, facendo passare interessi estranei alla classe operaia come se fossero interessi di quest’ultima e spingendola a partecipare a lotte dalle quali essa non ha alcuna possibilità di ottenere alcun reale miglioramento delle sue condizioni di vita e di lavoro.
achillea
A me piacerebbe sapere se, dal punto di vista della sx come richiamato in questo articolo, c’è differenza fra il concetto di “autonomia” e di “sovranità”.
In breve bruto: se sono autonomo, sono sovrano di me; se siamo autonomi (es. come classe o grupo, ecc…) siamo sovrani di noi. Al contrario se io o noi siamo dentro una “sovranità”, qualunque essa sia, siamo anche autonomi?
La “sovranità” deve incarnarsi, realizzarsi in qualcosa propriamente formale che gestisce la sovranità. Questo qualcosa come si pone verso l’autonomia di coloro soggetti a tale sovranità?
Spero di essermi spiegato sull’importanza che io vedo nella differenza fra autonomia e sovranità.