“Il 6 dicembre 2017, il presidente Trump riconoscerà Gerusalemme come capitale di Israele”. La notizia è ufficiale e contiene in sé molte conseguenze nefaste per le relazioni internazionali.
Le più immediate sono visibili a occhio nudo: gli interessi statunitensi, israeliani e sauditi sono usciti sconfitti dal tentativo di destabilizzare il Medio Oriente (in particolare Siria e Iraq) tramite l’Isis. La decisione su Gerusalemme capitale lancia una sassata nel vespaio rinfocolando il conflitto nella regione. Già in Libano se ne avvertono i segnali.
La sconfitta subita da Usa, Israele e Arabia Saudita, ha visto, contestualmente, rafforzarsi l’asse intorno all’Iran (con Siria, Iraq, Hezbollah e la Russia), che Israele teme come la peste perché vede consolidarsi l’unica potenza regionale – l’Iran – capace di contrastarla. Contro tale rischio convergono gli interessi fino a ieri inconfessabili tra Israele e Arabia Saudita.
Questo scenario viene certificato dall’editoriale del giornale conservatore israeliano Israel HaYom (vicino a Netanyahu), il quale scrive che: “i rivolgimenti all’interno del campo sunnita, frutto della crescente minaccia iraniana, uniti a quella che appare la volontà dell’Arabia Saudita di venire allo scoperto e cooperare con Israele sul fronte strategico, potrebbero trasformare la nuova posizione americana su Gerusalemme nel catalizzatore di una vera svolta regionale: un’eventualità che potrebbe mettere in ombra i rischi di un aumento del livello di tensioni”.
In secondo luogo Trump ha ratificato la legge approvata dal congresso Usa nel 1995 (epoca Clinton), che richiedeva all’amministrazione di riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele e trasferirvi l’ambasciata degli Stati Uniti. Una legge che le amministrazioni avevano tenuto nel frigorifero che custodiva il vecchio equilibrio tra Stati Uniti e Israele e che vedeva la seconda in posizione subordinata ai primi.
La decisione di Trump rivela che tale equilibrio si è nella pratica rovesciato (come aveva anticipato da tempo lo studioso marxista statunitense James Petras) e vede gli Usa non riuscire più a “governare” i propri alleati ma a privilegiarne qualcuno (Israele) anche a discapito di altri (regimi arabi).
Una posizione questa che certifica, nero su bianco, il declino degli Usa sia nei rapporti con gli alleati che nei rapporti di forza internazionali, rivelando un indebolimento evidente della propria visione e funzione strategica. Significativa, in tal senso, l’affermazione dello scrittore israeliano Abraham Yoshua il quale sostiene in una intervista che “Trump non sa di cosa parla. Gerusalemme è già la nostra capitale e non abbiamo bisogno di lui per saperlo“.
In terzo luogo la decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele – Al Quds per il mondo arabo-islamico – mette fine alla commedia della legalità internazionale, che si è sempre manifestata con un insopportabile doppio standard nel caso di Israele. Per molto meno di quello che Israele ha fatto ai palestinesi, la cosiddetta comunità internazionale ha scatenato guerre, embarghi, sanzioni contro paesi che disattendevano le risoluzioni dell’Onu.
L’operazione Gerusalemme capitale non solo sancisce la pulizia etnica contro i palestinesi e l’ebraicizzazione di una città con status internazionale riconosciuto come tale dall’Onu e da tutti, tranne che da Israele, oggi dagli Usa, forse domani anche da una Arabia Saudita che vede frantumarsi la propria rendita di posizione come custode dei luoghi sacri dell’Islam. Se dovessimo aggiungere una miseria alla gravità del fatto, non possiamo non sottolineare il servilismo del governo e delle istituzioni sportive italiane che hanno accettato, per qualche milione di euro, di legittimare questa operazione facendo partire a maggio 2018 il Giro d’Italia proprio da una Gerusalemme ormai “israelianizzata”.
Dunque ci troviamo davanti ad almeno tre fattori che peseranno maledettamente sulle relazioni internazionali del prossimo futuro: una nuova escalation di tensioni e conflitti in Medio Oriente; le conseguenze del declino dell’egemonia statunitense; la crescente influenza internazionale del progetto sionista israeliano ben oltre le sue ambizioni regionali. E’ l’ulteriore segno dei tempi di ferro e di fuoco che attendono il mondo in cui ci è toccato di vivere, diverso e peggiore da quello in cui abbiamo vissuto fino ad ora. Riaddrizzare il piano inclinato non è un’opinione, è una lotta per la sopravvivenza.
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