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25 Aprile, senza sconti

Lo sappiamo tutti che in molti casi gli appelli e le polemiche sul 25 aprile durano solo alcuni giorni. Il tempo di consumare gli eventi e già si parlerà d’altro. Eppure sentiamo il dovere di tenere duro, non solo intorno a questa data ma al suo significato, qui, ora e in futuro.

Quando le truppe nazifasciste, tra il 23 e il 25 aprile del 1945, si arresero nelle città del nord, gli ufficiali tedeschi si trovarono di fronte molto spesso dei “comandanti” giovanissimi, senza uniformi, con un codice di guerra adattato alle condizioni della guerra partigiana. E dovettero consegnare le armi. Molti, non tutti, avevano al collo il fazzoletto rosso. Molti, non tutti, erano comunisti. Molti, non tutti, contavano sul fatto che una volta sconfitto il nazifascismo l’Italia sarebbe potuta diventare socialista. Non andò così.

La Costituzione italiana è il risultato di un compromesso che ha dovuto tenere conto di moltissimi fattori. La Repubblica che nacque era fondata “sul lavoro” e non “sui lavoratori”, per dirne una, ma afferma chiaramente che è nata dalla Resistenza. Un preambolo che fa ancora venire l’isteria ai fascisti di ieri e di oggi, quelli nostalgici del regime e quelli che lo vorrebbero instaurare di nuovo.  Ragione per cui ogni anno tornano alla carica con il pretesto che il 25 aprile è una festa “divisiva”.

Questa sindrome del divisivo, sta circolando ampiamente e non solo sulle celebrazioni della Resistenza e della Liberazione del paese. Cresce anche in angoli e ambiti insospettabili questa idea che “ciò che divide va bandito” e solo ciò che unisce va celebrato, fino a rendere tutto opaco, smemorizzato e consumabile in nome del presente.

In questi anni, ad esempio, abbiamo fatto spesso “a sportellate” per garantire la presenza dei palestinesi dentro le manifestazioni del 25 aprile. Hanno provato a negarla, qualche volta con motivazioni politiche,  altre volte con aggressioni fisiche, ma non ci sono riusciti. Abbiamo imparato che se si tiene il punto politico e non si cede, alla fine si passa.  Ci sono bandiere che anelano alla liberazione e bandiere che significano oppressione, occorre dirlo con chiarezza, anche a costo di “dividersi”.

Motivo per cui, avendo apprezzato la mobilitazione antifascista a Prato alcune settimane fa, non riusciamo ad accettare la revoca dell’invito ad una donna palestinese (madre di due prigionieri politici) nel festival “Mediterraneo downtown” che qualche settimana dopo si è tenuto in quella città, promosso da molte delle forze che avevano organizzato la manifestazione antifascista. Un invito revocato perché quella donna palestinese – la sua storia, la sua realtà – poteva essere “divisiva”.

Il problema è sempre quello di riaffermare il diritto alla Resistenza  come elemento costituente di ogni emancipazione dei popoli. Si resiste contro il fascismo certo, ma anche contro le occupazioni coloniali straniere; si resiste in un territorio contro la devastante prepotenza dei comitati d’affari; si riafferma il carattere costituzionale di una repubblica,  ma la si difende anche resistendo contro leggi anticostituzionali che vorrebbero fare del nostro paese uno Stato de/costituzionalizzato, in nome della sicurezza e della primazia razziale. E queste leggi non le ha varate solo la destra di governo. Dirselo o rammentarlo sarà anche “divisivo”, ma non può significare tapparsi la bocca.

Quest’anno il 25 aprile non sarà molto diverso da quello degli anni precedenti. In alcuni casi somiglierà parecchio ad uno spottone elettorale del Pd tornato in mano alla “Ditta”, in altri sarà più genuino. In alcune città ci saranno manifestazioni per celebrare la Resistenza alternative a quelle ufficiali, perché una certa retorica “antifascista” appare decisamente strumentale  e non convince le nuove generazioni politiche della sua pienezza. O sincerità.

L’antifascismo significa sempre e comunque essere pronti e disponibili a sbarrare materialmente la strada ai fascisti e ai loro complici, nelle istituzioni come nei quartieri, e in questo caso chi ti ritrovi al fianco può essere ritenuto un compagno di strada. Chi non c’è, non lo è.

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1 Commento


  • marco

    A me figlio della generazionie nata dopo la guerra, che in una società capitalista, mi sono formato comunista a seguito della volontà di comprendere e di faticoso studio, appare strano (absit iniuria verbis) vedere compagni che festeggiano il 25 Aprile. Alla luce di quanto accadde dall’armistizio ad oggi, è evidente che gli unici a festeggiare coerentemente siano i liberali, vincitori di quella fase storica e del presente. Le nostre speranze durante la resistenza e le promesse che ricevemmo dalle potenze capitaliste non furono realizzate. Fummo invece plasmati come paese sul modello di quel pensiero mercantile. Dulcis in fundo, questa mattina ho visto su Rai Storia una trasmissione dove la critica massima al Manifesto di Verona non era il richiamo alle leggi razziali ma (sic) il suo radicale anticapitalismo.

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