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Douce France. Una testimonianza di Giuliano Pajetta sulla resistenza italiana in Francia

Nei prossimi giorni troverete nelle librerie “Douce France. La resistenza al nazismo in Francia”, di Giuliano Pajetta, pubblicato dalle edizioni Res Gestae. Questa è l’introduzione al libro che è una importante testimonianza sull’esperienza dell’attività clandestina del partito comunista italiano nel sud della Francia durante il regime collaborazionista di Vichy.

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«Noi non siamo una setta di «uomini neri», siamo quadri, oggi necessariamente clandestini, di un partito che anche nell’illegalità più profonda è composto da uomini che vivono la vita umana di tutti i giorni e che devono essere a loro volta i quadri, i dirigenti di altri uomini comuni, semplici, molti dei quali ignorano non solo che noi esistiamo, ma perfino che sia possibile un simile tipo di vita»

Douce France di Giuliano Pajetta è la ricostruzione autobiografica della vita di questo militante politico comunista nel Sud della Francia durante il regime collaborazionista di Vichy.

Il volume inizia con la sua strana fuga in tram dal campo “di transito” di Les Milles (Marsiglia) nel febbraio del 1941 e termina con il suo arresto a Nizza insieme a Stefano Schiapparelli, alias “Willy”, nel maggio del 1942.

Come molti combattenti antifascisti volontari nella guerra civile spagnola a sostegno della giovane repubblica Pajetta era stato “internato” dalla Francia repubblicana.

Camen” – nome di battaglia di Pajetta – è stato il braccio destro di Luigi Longo, nominato alla fine 1936, ispettore generale delle Brigate Internazionali in Spagna.

Gallo”, cioè Longo, diverrà il responsabile politico di circa 50.000 volontari provenienti da 52 paesi, Pajetta gli farà da segretario e lo aiuterà nei rapporti con il PCE, il partito comunista spagnolo.

L’esperienza di Pajetta nella penisola iberica dal ’37 al ‘39 è narrata sotto forma di diario nei suoi Ricordi di Spagna.

Come spiega l’autore stesso nell’introduzione del libro egli scrive con il linguaggio che si usava allora: il tono, un po’ «guascone» mi sarà perdonato da chi vorrà ricordare che allora avevo poco più che 21 anni.

A quell’età Pajetta si trova a ricoprire un incarico di grande responsabilità, descritto da Longo stesso nel suo Storia delle Brigate Internazionali, al fianco di uno dei maggiori dirigenti del comunismo italiano, a cui il movimento comunista internazionale aveva affidato uno dei ruoli più delicati di quella difficile fase storica.

Per questo militante politico, come per una generazione di comunisti, le Brigate Internazionali prima e l’attività clandestina tra le fila dell’immigrazione italiana in Francia saranno propedeutiche al ruolo che si troveranno a svolgere come dirigenti e quadri nella lotta di liberazione dal nazi-fascismo in Italia.

All’inizio del ’41 – come scrive Elvira Pajetta in Compagnimatura la possibilità che il partito ha cercato per Giuliano e per altri: l’asilo politico in Messico, uno dei pochi paesi neutrali disposti ad accogliere gli ex combattenti delle Brigate Internazionali.

Espletate le non facili incombenze del caso per permettergli di recarsi in Messico, dal Vernet viene trasferito a Les Milles, che sarà prima un campo per stranieri “non desiderati” in attesa di documenti per andare via dal paese ma che diverrà nei mesi successivi la stazione di partenza per Auschwitz degli ebrei della Francia del sud.

Il trasferimento è solo una copertura, infatti a Pajetta, così come ad altri, il Partito ha chiesto di scegliere fra una destinazione sicura in Messico e l’incertezza della clandestinità, nella quale dedicarsi ad un lavoro organizzativo fra gli immigrati italiani.

La scelta risoluta del lavoro clandestino, invece della destinazione d’Oltreoceano, per quanto convinta, lo turba: non è solo la rinuncia ai vecchi sogni d’adolescenza, è la rinuncia a vedere un mondo largo largo dopo un anno e mezzo di campo in cui siamo stati tanto stretti, è la rinuncia a vivere con mia moglie, a stare un po’ con mio figlio che quasi non conosco, è la rinuncia a ritornare alla vita legale, ampia, movimentata.

Pajetta ha nostalgia dell’Italia che non vede da 10 anni, e il suo compito principale è quello di ritessere le maglie organizzative del Partito, un compito non facile: qui bisogna che il funzionario illegale diventi lui stesso il «costruttore» del Partito.

In questo frangente e in un tale contesto, il lavoro del “rivoluzionario di professione” sta anche nel comprendere velocemente le caratteristiche personali e le possibili qualità politiche e metterle a frutto per il partito.

L’organizzazione comunista, ricostruito il suo Centro Estero, con sede a Marsiglia, gli da carta bianca su questo compito.

Per Pajetta si tratta di fare nuovamente un “bagno nella realtà” dopo il lungo internamento: per anni nei campi sono stato solo in mezzo a gente «politica», o a banditi o a poliziotti. Ho sete di sapere cosa dice la gente comune.

Gli italiani, insieme ai polacchi, sono le due maggiori componenti dell’immigrazione in Francia tra le due guerre. Per gli italiani questo flusso migratorio nel Midi precede il periodo tra le due guerre e si innesta su storiche dinamiche transfrontaliere nei territori di confine.

Lo scritto di Pajetta è una lucida analisi “sociologica” di questa importante componente del proletariato in Francia, ed uno spaccato di queste comunità nei diversi territori di insediamento e nelle differenti mansioni in cui sono impiegate. Il libro compie una attenta disamina dei comportamenti delle generazioni che compongono l’immigrazione italiana, in un confronto tra le varie stratificazioni delle classi subalterne.

Descrivendo l’interno di una casa di operai a Lione, in stridente contrasto con quelle appena visitate – poco più che “baracche” – del villaggio minerario di Saint Étienne, Pajetta riflette che sul fatto che in Francia milioni di persone vivevano così «civilmente», erano così «sistemati». Aggiunge: Il loro modo di pensare, di soffrire e di lottare non può essere quello della vostra gente, bisognerà capirlo un po’ meglio.

Non si tratta solo di una condizione di relativo benessere materiale degli uni rispetto agli altri, ma di uno status giuridico differente tra il proletariato francese e quello multinazionale residente in Francia.

Alle difficoltà oggettive dell’operare in clandestinità si sommano la necessità di creare una struttura organizzativa da una rete di contatti pregressa che è tutta da verificare mettendola alla prova.

All’interno di questo partito “disperso e diffuso” maturano atteggiamenti differenti nei confronti della militanza politica.

Lo spettro delle scelte di vita dei vari “contatti” varia alquanto. Da un lato l’abnegazione nell’assumersi nuovamente rischi per il Partito, in cui spiccano in particolar modo le figure femminili della militanza comunista così come i giovani che andranno a svolgere la propria attività clandestina in Italia all’interno delle truppe dell’esercito. Dall’altro lato dominano la rassegnazione e il qualunquismo tra le fila di alcuni ex simpatizzanti ed aderenti. A proposito di uno di questi che rinunciano con mille scuse alla lotta politica dice che: è più prigioniero lui dei suoi quattro mobiletti lucidi che non tutti i suoi compagni di ieri che ho lasciato nei campi.

È chiaro che lì dove una presenza politica organizzata si era dissolta, emergono atteggiamenti individualistici tesi a pensare che nella propria piccola nicchia non si possa essere travolti dalla “locomotiva della storia”, e spesso la capacità di tenuta si da all’interno del nucleo famigliare. Spesso in un periodo di inattività la famiglia diviene una sorta di “cellula dormiente” dove si sono mantenuti vivi i valori antifascisti nonostante la recisione involontaria dei legami con la struttura organizzata.

La storia dell’immigrazione politica comunista italiana in Francia non è fatta solo dei nomi più celebri: Pajetta, Amendola, Fontanot ma da una costellazione di nuclei anonimi che gli epiloghi del Fronte Popolare, la sconfitta militare, e l’occupazione tedesca aveva segnato senza annullare la disponibilità a “mettersi in gioco”.

Chiaramente l’accelerazione della dinamica storica ha posto la comunità politica degli immigrati di fronte a scelte decisive del proprio operato non prive di lacerazioni anche profonde e di precise conseguenze materiali: si pensi alle divaricazioni rispetto al Patto di non aggressione tedesco-sovietico del ’39, lo scoppio della guerra con la Germania e la sconfitta militare francese con la veloce occupazione tedesca di una parte dell’Esagono.

In una prima fase la raccolta delle quote per mantenere in piedi l’organizzazione, è fondamentale quanto la circolazione della stampa di Partito e i primi lanci di volantini, che denunciano l’invasione hitleriana dell’URSS.

La situazione storica diviene incalzante vista l’aggressione all’Unione Sovietica con l’inizio dell’Operazione Barbarossa da parte della Germania nazista e dei suoi alleati.

L’attacco all’URSS è percepito come una minaccia diretta all’esistenza dei comunisti e del comunismo, e non solo fisicamente “al cuore” dell’Unione Sovietica in cui le maggiori città verranno messe a lungo sotto assedio.

Cosa fosse l’Unione Sovietica per un comunista dell’epoca lo spiega bene Pajetta: Cos’è per tutti noi l’Unione Sovietica, non lo dici in due parole. Han provato a farlo in tanti poeti e tanti maghi della penna e tutti hanno detto ancora poco e scialbamente; cosa sia per me, lo so poi io, diventato comunista nel ’30, quando il primo piano quinquennale alzava superbo i suoi cantieri quasi dire al cielo che i proletari in Russia lo assaltavano sì, come i loro nonni parigini, ma con le macchine da guerra questa volta, capaci di espugnarlo.

Cosa sarebbe successo in caso di caduta dello Stato dei Soviet?

Pajetta se lo chiede, pensando alla visione distopica contenuta nel Tallone di ferro dello scrittore nord-americano Jack London, cercando di scacciare lo spettro di questa ipotetica disfatta: possibile che per decenni e decenni, forse per generazioni intere, quelli di noi che scamperanno, rifugiati nella più profonda illegalità, dovranno ricominciare tutto, non da zero, ma da meno di zero dalla catastrofe più completa? Alla fine si vincerà e quando? E cosa sarà il mondo delle generazioni cresciute sotto il tallone di ferro nazista?

Ma la certezza della vittoria, e la convinzione che ognuno avrebbe dato il proprio contributo per perseguila, non lo abbandonano.

In questa direzione un compito fondamentale è ciò che Pajetta definisce la correzione di ascolto dei dispacci che giungono attraverso le onde radio dall’estero, per avere una corretta percezione degli avvenimenti storici che stavano avvenendo attraverso gli unici canali informativi: capire come lavorava e lottava il popolo sovietico, capire – per farlo capire – quali erano le forze in movimento e a chi quindi poteva spettare la vittoria, e imparare dal singolo soldatino, o dal singolo operaio russo a «mettercela tutta» ognuno di noi.

Quali sono le forze materiali in campo, come agiscono e come muta la situazione? Quali riflessi hanno questi avvenimenti nella situazione specifica in cui i comunisti italiani in Francia stanno operando?

In questo caso la coscienza storica che si matura sugli eventi, non è una banale fotografia in movimento della situazione ma la consapevolezza di potere “replicare” la resistenza anche molto al di qua del Don, minando la sicurezza delle retrovie per i nazisti.

L’azione dei militanti comunisti deve farsi perciò sempre più incisiva fino all’apertura di un vero e proprio “secondo fronte” che dalla propaganda passi al sabotaggio della macchina bellica fino alla lotta armata vera e propria, senza dimenticare il compito che diverrà sempre più una incombenza prioritaria per Pajetta: preparare e prepararsi all’attività che si sarebbe dovuta svolgere nuovamente nella Penisola.

In questo compito l’analisi della posta è fondamentale e permette di comprendere attraverso il monitoraggio dei contenuti degli scambi epistolari dall’Italia verso la Francia gli umori delle persone: l’intelligence per i comunisti è propedeutica all’attività politica vera e propria, anzi è l’inchiesta stessa ad essere attività politica.

Dalle pagine del libro emerge vividamente il contesto in cui si svolge l’azione, viene mostrato il vero volto del governo di Vichy, l’attendismo gaullista nei confronti dell’azione partigiana vera e propria, l’attaccamento delle forme esteriori che stridono con la realtà e che indossano la maschera della grandeur francese imperiale in una situazione di sostanziale schiavitù nei confronti della Peste Bruna, una subordinazione che fa apparire agli occhi di Pajetta gli uomini del regime collaborazionista tante piccole caricature viventi.

Un dato importante è la sempre più dura repressione contro i comunisti: dalle leggi «democratiche» dei primi del ’40, si passa al decreto promulgato nel settembre del ’41: così per qualsiasi attività clandestina anti-nazionale, cioè antitedesca, siamo passibili della pena di morte, e di lì a poco, a fine ottobre verrà emessa la prima condanna a morte per attività comunista a Tolone.

A fine conflitto sarà un giornalista tutt’altro che propenso a simpatie verso i comunisti a definire giustamente il partito comunista francese: il partito dei fucilati.

La strenua difesa di Mosca e l’inizio della contro-offensiva dell’Armata Rossa dissolvono i dubbi intimamente covati nell’ora più buia, e danno ai comunisti un primato nella lotta al nazi-fascismo: il fatto che sia proprio l’esercito creato e guidato dai comunisti il primo a sconfiggere gli eserciti hitleriani da ad ognuno di noi un grande senso di forza e di sicurezza.

È necessario un cambio di passo: ormai si tratta di sviluppare un’azione politica che pesi, che si faccia sentire, e anche una certa azione «tecnica», essendo consapevoli che per ora su questo fronte ci siamo solo noi.

La “rottura” con il continuum della storia, significa innanzitutto dismettere gli abiti mentali che inibiscono l’azione ristabilendo il primato della prassi e invertendo il rapporto di subordinazione con gli eventi “subiti”. È nell’interregno francese che i comunisti trovano lo spazio di incubazione per quello che sarà il futuro spirito gappista: colpire il nemico per primi, in condizioni assolutamente ostili e con scarsissimi mezzi.

Sabotare la macchina bellica tedesca diviene una priorità, che si tratti delle miniere di bauxite o dalle officine che lavorano per i nazisti.

In questo lavoro di consolidamento dell’organizzazione in vista dello sviluppo vero e proprio del “secondo fronte”, incominciano ad avere una rilevanza i contatti con le altre componenti dell’emigrazione nel Midi: armeni, polacchi, greci fanno parte di quello che si appresta ad essere un “esercito nell’ombra” che darà un notevole contributo di sangue nelle file delle formazioni della resistenza formate integralmente da immigrati.

Forse le pagine più belle e drammatiche del libro sono quelle dedicate al villaggio minerario della Loira precedentemente citato, in cui vivono e lavorano per la maggior parte operai italiani e polacchi, dove le necessità organizzative e l’esiguo numero di militanti spingono ad un ricambio veloce dei referenti organizzativi, perché un quadro importante va in Corsica, l’altro rientra in Italia. Non potrebbe esserci differenza più abissale tra la situazione riscontrata nel ’36 in pieno affermazione del Fronte Popolare e quella attuale: la città operaia – la città rossa è oggi un arsenale di Hitler: è brutto dirlo ma è così – bisogna che produca meno e peggio.

Produrre per il nemico, vuol dire anche essere maggiormente esposti al rischio ed una tragedia in miniera miete più di venti vittime tra gli operai: i padroni delle miniere e i tedeschi non hanno la paura che abbiamo noi di veder morire i lavoratori.

Sono le condizioni oggettive che smascherano la narrazione del governo collaborazionista e conferiscono un profilo più marcato alla natura di classe del dominio nazista.

Il libro si conclude con l’arresto dell’autore insieme a “Willy”, anche lui estensore delle proprie memorie in Ricordi di un fuoruscito, un termine spregiativo usato dal regime per definire gli antifascisti costretti all’esilio.

I due rivoluzionari di professione si trovano nelle mani del nemico, obbligati a disfarsi del materiale compromettente che hanno con sé – un documento del partito che indica la necessità di un salto di qualità militare nell’azione dei comunisti – costretti a dissimulare la loro vera identità celando i compiti che stanno svolgendo sotto la pressione, sarebbe forse meglio dire “la tortura” degli apparati collaborazionisti.

Scrive “Willy”: una sola cosa bisognava a tutti i costi evitare: pronunciare il nome di Marsiglia dove esisteva il Centro del Partito! Non solo: al nemico non si deve cedere nulla. Mi si permetta di dire ciò con un po’ di fierezza! L’esperienza ci aveva insegnato che in quelle circostanze è sufficiente «mollare» un po’ per poi «mollare del tutto»: quello che «canta» pensando di evitare il peggio dimentica infatti che più si dice più la polizia vuol sapere.

Douce France inizia con una “strana” fuga in tram da un campo di internamento e termina con un arresto ed una condanna che porterà ancora al carcere e successivamente ad una evasione manu militari ed alla successiva fuga verso l’Italia.

In Francia, nelle stesse ore in cui l’esercito tedesco invade la Polonia, dando inizio alla Seconda Guerra Mondiale, i comunisti vengono perseguitati e divengono clandestini, spesso torturati se arrestati nonostante molti di loro fossero stati i primi ad avere combattuto il fascismo, a questo destino non sfuggono i comunisti italiani.

Molti daranno un contributo alla resistenza armata contro l’occupante nazista nelle file delle FTP-MOI, pagando spesso con la propria vita l’impegno politico della lotta al fascismo al di là di ogni frontiera.

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Tutte le parti in corsivo tranne quando espressamente riportato sono estrapolate dal testo di Douce France

Bibliografia

Contro il Fascismo oltre ogni frontiera. I Fontanot nella guerra antifascista europea, Nerina Fontanot, Anna Digianatonio, Marco Puppini, Kappa Vu Edizioni, settembre 2016

Luigi Longo, una vita partigiana (1900-1945), Alexander Höbel, Carocci Editore, novembre 2013

Compagni, Elvira Pajetta, Pietro Macchione Editore, aprile 2015

Ricordi di Spagna, Giuliano Pajetta, Editori Riuniti, luglio 1977

Vichy 1940-1944. Il regime del disonore, Robert O. Paxton, Nuove Edizioni Tascabili, gennaio 2002

Ricordi di un fuoruscito, Renzo Schiapparelli, Edizioni del Calendario, 1971

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