La Chambre de l’Instruction della Corte d’Appello di Parigi ha reso note le motivazioni della sentenza con cui ha deciso di negare l’estradizione richiesta dall’Italia per i dieci esuli italiani, fuggiti dal nostro paese circa 40 anni fa e inseguiti da decine di mandati di cattura per reati legati agli anni della lotta armata.
Erano stati arrestati nell’ambito dell’operazione “Ombre rosse”, nell’aprile 2021. Nel solco di quella subcultura, l’attuale ministro della giustizia francese ha imposto alla Procura Generale di ricorrere in Cassazione. Si vedrà con quali tempi ed esiti.
Lasciamo da parte le facili petizioni di principio utilizzate nella peggiore propaganda politica, sciorinata anche dal ministro Dupond-Moretti (quanta ironia semina la Storia…), e analizziamo gli argomenti sollevati dalla corte francese. Perché illustrano con enorme chiarezza la differenza tra uno Stato di diritto (borghese, certo) e uno “Stato penale” ma che meriterebbe epiteti assai meno educati.
Non potrebbe essere altrimenti visto che gli argomenti con cui media, governo e partiti che lo sostengono hanno “difeso” la richiesta di estradizione, non sono molto diversi dalle chiacchiere da ubriachi in un’osteria leghista intorno a mezzanotte.
Giudizio effettivamente un po’ forte, ma pienamente in linea con le ragioni proposte dai giudici francesi.
I quali ricordano che le sentenze di condanna in Italia sono state emesse quando gli imputati erano “latitanti e contumaci“, condizione non prevista da quasi nessun codice di procedura penale europeo (borghese, certo).
Questo era un argomento giuridico centrale ai tempi della “dottrina Mitterand” che, banalmente, prendeva atto della differenza abissale tra leggi francesi (niente affatto tenere con l’opposizione sociale e politica, come ben sanno ancora oggi i gilet jaunes) e “leggi di emergenza antiterrorismo” varate in Italia dai governi Dc-Pci (poi anche da Pri, Psi, ecc).
La Francia, già allora, faceva notare ai governi italiani che non poteva far parte della cultura e della pratica giuridica liberale (borghese, certo) il fatto che degli imputati venissero “condannati al termine di una procedura alla quale non erano presenti“.
Come si vede, la magistratura francese non aveva e non ha nulla da obiettare contro il fatto che i combattenti rivoluzionari vengano processati e nel caso condannati (lo hanno fatto anche laggiù, con i militanti di Action Directe), ma seguendo appunto una procedura penale da “Stato di diritto”. Ovvero con gli imputati in aula e difesi da una avvocato di fiducia.
E non da un avvocato d’ufficio scelto dal Tribunale stesso in un elenco dei legali disponibili (non c’è ovviamente nulla di male nel rendersi disponibili a difendere quasi gratuitamente qualsiasi imputato, anzi, ma certo si può avanzare qualche dubbio circa la fiducia e la conoscenza dei problemi che dovrebbe per forza correre tra “cliente” e “difensore”).
Una furiosa approssimazione processuale da cui non si è mai usciti, tanto che i giudici francesi – ancora oggi – sono costretti a far presente che “le autorità italiane non sono state in grado di indicare” se gli imputati “fossero stati assistiti da un avvocato scelto effettivamente” dagli stessi interessati.
Se poi si guarda alla pratica concreta dei tribunali speciali italiani degli anni Ottanta, è facile constatare una consuetudine al “processo di massa”, in cui un gran numero di imputati venivano considerati come una sola cosa, difesi da avvocati “in prestito”, soltanto per coprire una necessità “pro forma”…
Si sa, inoltre, che le condanne furono emanate “all’ingrosso”, senza troppe analisi dei profili individuali e delle responsabilità specifiche, usando come “livella” l’istituto – unico, in Europa – del “concorso morale”.
Traduciamo per i non addetti ai lavori o i più giovani: qualunque imputato, in quei processi, poteva essere condannato per qualsiasi reato commesso dall’organizzazione di cui faceva parte (e spesso anche quando non ne faceva effettivamente parte), anche se non era stato materialmente presente alla commissione del reato. Bastava appunto ipotizzare che esistesse un “concorso morale” derivante dal “vincolo associativo”.
Che vuol dire, in pratica? Che, per esempio, un “omicidio” o un ferimento realizzato da quattro o cinque combattenti riuniti in “nucleo operativo” poteva essere addebitato – con relativa condanna – anche ad altri venti o trenta imputati che nel momento del reato stavano a centinaia di chilometri di distanza. Con buona pace della “responsabilità individuale” prevista da ogni codice liberale.
Questo caos processuale non sarebbe stato magari di ostacolo all’estradizione se lo Stato italiano fosse stato in grado almeno di garantire un nuovo “processo equo” agli esuli, una volta riportati in Italia. Sappiamo com’è andata, ad esempio, con Cesare Battisti…
Ma naturalmente “nessuna versione dell’articolo 175 del codice penale italiano (che organizza il diritto al ricorso contro il processo in contumacia) dà al condannato in assenza la facoltà incondizionata di esercitare un ricorso e di essere nuovamente giudicato“.
Neanche questa argomentazione è però determinante.
Quella costituzionalmente decisiva – anche con riferimento alla Costituzione italiana – prende invece in considerazione l’articolo 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo.
Per i giudici francesi, infatti, “la passività delle autorità italiane, durata 30 anni prima di riformulare una richiesta di estradizione, ha contribuito alla costruzione di una vita privata e familiare sul suolo francese“. Durante la quale quelle persone (e altre nel frattempo andate “in prescrizione”) “non hanno commesso più atti illegali“.
A parte la sottile ironia – “vi siete svegliati ora, dopo 30 anni?” – i giudici francesi ricordano alle autorità italiane la funzione che ogni codice liberale (borghese, certo, ma in questo sistema viviamo tutti, Draghi compreso) attribuisce alla pena. Ossia alla privazione della libertà.
Come recita la formula Costituzionale italiana, all’art. 27, “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso d’umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.
Persone che da 40 anni vivono legalmente in un paese di democrazia liberale senza commettere “reati” sono di fatto da considerare “rieducate” o “recuperate” (qualsiasi cosa vogliano dire queste parole). Dunque, quale scopo avrebbe il rinchiuderle – a ormai 70 anni, in media – in un carcere?
Sicuramente non alla “rieducazione”. Al massimo al farli vedere mentre muoiono tra le sbarre, per la gioia di qualche talk show parafascista.
Vendetta, insomma, non altro. Nessuna “giustizia”, nessun “fine superiore”. Solo una medaglietta da incollare sul petto di qualche governante incapace di fare o pensare altro per apparire “socialmente utile”.
I giudici francesi, infine, non si occupano del “dolore dei familiari delle vittime” per il buon motivo che – in uno Stato di diritto (borghese, certo) – è in prima persona lo Stato a farsi carico degli interessi delle vittime predisponendo un processo, l’eventuale condanna e l’esecuzione della pena.
Dunque è in qualche modo scontato che le vittime siano rappresentate dalle istituzioni repubblicane e non siano invece queste ultime a “nascondersi” dietro il dolore dei cittadini danneggiati da un qualsiasi reato. Altrimenti saremmo ancor alla legge del taglione, dove è la vittima a stabilire la pena e il risarcimento (“occhio per occhio, dente per dente”). La quale vittima, anche per il furto di un’autoradio, a caldo, potrebbe pretendere la condanna a morte…
Facciamo anche noi, nel nostro piccolo, modestamente notare che “il dolore dei familiari delle vittime” è sempre ugualmente non riparabile. Sia nei casi di guerra civile, sia negli incidenti sul lavoro; sia nella “malasanità” (causa tagli di bilancio), sia per le centinaia di uccisi “per errore” dalle forze dell’ordine, ecc.
La differenza la fa “la politica”, ossia chi guida lo Stato. Che decide, facendo leggi, quali “familiari delle vittime” hanno diritto a vedersi riconosciuto il diritto al “massimo della pena” per i decenni a venire oppure niente, oppure ancora un contentino formale.
Inquadrata così, diventa evidente che l’”implacabilità” dei governanti italioti nei confronti degli esuli della lotta armata degli anni ‘70 è una volgare esibizione di forza vendicativa verso chi ha osato sfidare, in altre epoche, il potere (borghese, non per caso).
Mentre “il dolore delle vittime”, in tutti gli altri casi – dagli omicidi sul lavoro a quelli per i disastri ambientali – conta meno di nulla, agli occhi dei “migliori”.
Inquadrata così, la partita che si gioca sulla pelle degli esuli a Parigi riguarda tutti noi. Perché il tipo di Stato con cui dobbiamo fare i conti, nel quotidiano conflitto politico e sociale, dice di essere “di diritto”, ma in realtà si comporta come altra cosa…
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Andrea Bo
Chapeau