Leggendo le centinaia di pagine dell’ordinanza della Procura di Piacenza con cui sono stati arrestati i sindacalisti dell’Usb e del Sicobas – ma anche gli avvisi di garanzia della Procura di Bologna per i picchetti alla Palletways – emerge fin troppo nitidamente come il codice penale contenga un intero armamentario di reati “flessibili”, che una interpretazione “politica” delle leggi può rovesciare contro le lotte sociali e sindacali.
La forma di lotta dei blocchi dei magazzini della logistica per ottenere condizioni salariali migliori è stata re-interpretata “estorsione”; e i picchetti davanti ai cancelli (una delle forme che hanno fatto la storia del movimento operaio) diventano “concorso in violenza privata continuata”.
In questa logica “politica”, ogni possibilità reale dei lavoratori di incidere con forza nella contrattazione con la controparte, che comporti un danno economico per l’azienda, può essere trasformata in “reati comuni”.
Bene hanno fatto i sindacalisti arrestati ad avvalersi della facoltà di non rispondere di fronte ai magistrati che li hanno inquisiti. Come si fa a rispondere a domande che partono da questi presupposti?
Guardandoci indietro, questo utilizzo del codice penale come una clava contro i lavoratori non è una novità di queste settimane. Il “blocco delle merci” era una forma di lotta che terrorizzava già la Fiat negli anni Sessanta e Settanta e che veniva perseguita assai più duramente degli scioperi.
Negli Stati Uniti, negli anni Trenta, i padroni e i governi utilizzarono contro i sindacati addirittura la legge antitrust accusandoli di esercitare il “monopolio” della forza lavoro, come se il sindacato fosse una società o una banca.
In Italia i disoccupati organizzati napoletani che manifestavano, bloccando strade e uffici per chiedere lavoro, sono stati accusati di “estorsione” con il fine di ottenere… un lavoro.
La stessa accusa è stata mossa ai movimenti di lotta per la casa a Roma ritenendo le occupazioni una forma di estorsione tesa ad ottenere… una abitazione.
In un paese in cui l’art. 3 della Costituzione prevede la rimozione degli ostacoli economici ad una vita dignitosa, rivendicare salari, lavoro e abitazione negati dalle istituzioni pubbliche o dagli interessi proprietari privati, può trasformarsi in un “reato comune”, addirittura senza alcun riconoscimento della dimensione sociale, collettiva e rivendicativa dell’azione.
Una “associazione a delinquere con fini estorsivi” è un reato che può essere contestato ad una organizzazione malavitosa, la cui “finalità fisiologica” è l’arricchimento privato ottenuto con mezzi extralegali.
Una organizzazione sindacale o sociale rivendica invece soluzioni collettive estendibili ad intere categorie lavorative o sociali, in genere coinvolte direttamente nel conflitto con la controparte.
Ma è proprio questa dimensione che il sistema mostra di temere come la peste. In fondo abbiamo imparato che, per il potere, un rapinatore è meno pericoloso di un attivista politico; e che la “finalità privata” . anche se comporta un reato – è meno preoccupante per il sistema di una rivendicazione collettiva.
Sta in questa interpretazione quella contraddizione tra legalità e giustizia che abbiamo denunciato in questi anni di fronte ai peana o alle fortune politiche costruite su una invocazione di “legalità” che ignora, nega e rimuove ogni riferimento alla giustizia sociale.
Del resto la visione liberista ha insita in sé la stigmatizzazione pubblica e la criminalizzazione dei poveri in quanto tali. Figuriamoci quando si organizzano e si fanno sentire.
Tenere i salari sotto la soglia della dignità, tenere le case vuote a fronte di migliaia di famiglie sfrattate o senza casa, negare il lavoro anche in presenza di opportunità evidenti, è forse coerente con le leggi attuali ma non con la giustizia sociale, peraltro spesso evocata nella Costituzione.
Forzare questa contraddizione è diventato inevitabile dopo decenni di liberismo sfrenato e istituzionalizzato che hanno posto il paese sul piano inclinato della regressione sociale generalizzata.
I corpi intermedi fin qui riconosciuti (CgilCislUil, associazionismo di categoria o di scopo etc.) non hanno più messo in discussione questo assetto, ma ci si sono adeguati. Inevitabile che i bisogni sociali crescenti facessero nascere e sviluppare nuove organizzazioni sindacali e sociali, in grado di cominciare a “strattonare” con qualche forza sulle rivendicazioni, ma anche il sistema stesso.
I magistrati che hanno emesso le ordinanze non stanno evidenziando dei “reati”, ma stanno mettendo in campo una visione dei rapporti sociali. Nel sistema sono previsti ancora degli anticorpi in grado di rettificare l’uso del codice penale come una clava antipopolare, ma sono anni che questi anticorpi – lì dove sono decisivi – sono stati indeboliti dalle scelte politiche dominanti.
Mai come in questi giorni si è palesato ai nostri occhi lo scenario di un paese ormai “decostituzionalizzato”. Sarà bene tenerne conto nei mesi che ci aspettano.
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Pasquale
Giustizia sociale, rivendicazioni collettive e lavoro vero e dignitoso. Sono queste le parole chiave per tornare al conflitto di classe.