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Un calcio di soli padroni

La sentenza con cui la Corte di giustizia europea ha sancito che la Uefa – la società che governa il calcio in Europa – agisce in un regime di monopolio e dunque è “illegale” che vieti altre competizioni calcistiche, spiega meglio di un saggio di economia cosa sia l’Unione Europea, la sua “logica silenziosa”, i suoi padroni effettivi. Che non sono ovviamente i popoli del Vecchio Continente.

Vediamo un attimo come ha funzionato finora il mondo dello sport (ci sono state altre sentenze della stessa Corte che hanno riguardato il pattinaggio e i vivai dell’Anversa).

Le varie Federazioni sportive nazionali rappresentano e organizzano le competizioni di diverse discipline sportive, cui partecipano società quasi sempre private (fanno eccezione, in Italia, i gruppi sportivi di vari corpi militari, come Carabinieri, polizia [Fiamme Oro], guardia di finanza [Fiamme Gialle], agenti penitenziari [Fiamme Azzurre], Esercito, ecc).

Tutte queste federazioni sono riunite a livello nazionale in un Comitato Olimpico (il Coni, in Italia), e articolate a seconda degli sport in società apposite (la Uefa per quanto riguarda il calcio).

E così in ogni continente, secondo uno schema che ricalca di fatto quello degli Stati nazionali e dei vari organismi sovranazionali (fino all’Onu, cui corrisponde, sportivamente parlando, il Cio).

Assolvono insomma ad un compito “istituzionale”, al punto che la nomina degli organismi dirigenti, ai massimi livelli, è dappertutto decisa dal governo. Nelle federazioni specialistiche provvede invece l’assemblea dei “soci” (le società sportive maggiori).

Il problema è che questo compito “politico” e istituzionale, soprattutto negli “sport ricchi” (che fanno spettacolo, spettatori, diritti televisivi, ecc), è interconnesso strettamente con la gestione economica, maneggiando cifre considerevoli.

E il calcio è dappertutto o quasi il più popolare e ricco degli sport.

Qui si è inserita qualche anno fa la proposta della “Superlega”, ovvero di un torneo riservato ai maggiori club europei, alternativa alle ultranote Champion League, ecc.

Un “campionato europeo” per soli club ricchissimi (in parte sul modello statunitense della Nba, Nfl, ecc), che avrebbe – o potrebbe – svuotare di interesse i campionati nazionali, privando i club meno potenti economicamente delle risorse derivanti dal poter competere direttamente con i più “famosi” (la spartizione dei diritti televisivi aiuta tutti, anche se non in modo paritario).

A cascata sarebbero – o potrebbero – venute meno le risorse per tenere aperti i vivai, il calcio delle serie minori e tutta quella macchina che assicura la “produzione” di nuovi talenti, oltre che una vagonata di occupazione (allenatori, preparatori atletici, addetti agli impianti sportivi, ecc).

Ma soprattutto la partecipazione attiva di una grossa fetta della popolazione ai vari momenti del calcio come sport di massa e non solo come “spettacolo televisivo”, ovviamente di “eccellenza”, altrimenti nessuno paga per vederlo.

Tradotta in termini economici la Superlega voleva essere una gigantesca operazione di concentrazione del capitale, tendente a monopolizzare le risorse “al vertice” e chissenefrega di quel che resta fuori. Il business è solo business, e possono garantirlo solo le grandi multinazionali dello spettacolo insieme ai club dal brand già straconosciuto.

Un giro chiuso di privilegiati miliardari, cui società come Frosinone, Sassuolo, il Leicester di Claudio Ranieri o il Chievo di qualche anno fa, non potrebbero mai neanche sognare di accedere.

E’ chiaro che si è creato alla lunga un varco legale tra la funzione istituzionale degli enti nazionali e internazionali (Fifa, Uefa, Cio, ecc) e la più terragna “attività economica”. La commistione tra “valori sportivi” a “valore finanziario” generava mostri. E appetiti.

Società come la Uefa e la Fifa sono diventate insomma una via di mezzo tra l'”istituzione para-statuale” e la “società di gestione patrimoniale”, una “camera di compensazione” tra interessi geopolitici e business.

Qui arriva la Corte di giustizia europea che fa propri i valori della UE. Ossia quelli del grande capitale internazionale, sia industriale che finanziario.

«Le norme della Fifa e della Uefa sull’autorizzazione preventiva delle competizioni calcistiche per club, come la Superlega, violano il diritto dell’Unione».

«L’organizzazione di competizioni calcistiche interclub e lo sfruttamento dei diritti mediatici costituiscono, in tutta evidenza, attività economiche. Essi devono quindi rispettare le regole della concorrenza», scrivono i giudici.

«Quando un’impresa in posizione dominante ha il potere di determinare le condizioni alle quali imprese potenzialmente concorrenti possono accedere al mercato, tale potere deve, tenuto conto del rischio di conflitto di interessi che ne deriva, essere soggetto a criteri idonei a garantire che siano trasparenti, oggettivi, non discriminatori e proporzionati.

Tuttavia, i poteri della Fifa e dell’Uefa non sono soggetti ad alcun criterio di questo tipo. La Fifa e l’Uefa stanno quindi abusando di una posizione dominante».

Una massa di idiozie che vengono comunemente spacciate per “princìpi di economia” e che vengono qui camuffate da “princìpi legali”.

Teoricamente, in base a questa sentenza, si potrebbero organizzare migliaia di competizioni “alternative e tra loro concorrenti”. In pratica, secondo le regole del capitalismo quotidiano, una sola. Per soli padroni davvero ricchissimi.

E’ la stessa identica logica dei vari trattati europei. L’unico principio base dell’Unione Europea è infatti la “libertà di impresa”, e non c’è principio sacro che possa contrastare questa “onnipotenza”.

Non l’interesse popolare nella gestione dei bilanci degli Stati, non le ragioni dell’egalitè nell’amministrazione della Cosa Pubblica, non i princìpi della fraternitè nelle priorità di spesa… e neanche quelle del calcio. Che diamine…

Forse, guardando le cose alla luce di queste “novità”, può diventare più chiaro – soprattutto “a sinistra” – che l’Unione Europea non è una istituzione che anticipa o prefigura qualche forma di “internazionalismo”, ma una feroce macchina tecnoburocratica per assicurare la prevalenza del capitale multinazionale su qualsiasi ragione sociale.

Foss’anche soltanto ludica…

Una macchina che non supera il “nazionalismo”, ma lo divora insieme a tutte le ragioni, e gli interessi, che non garantiscono il profitto. Di pochissimi, e sempre meno numerosi. Creando gli spettatori che dovrebbero condividere un nuovo “super-nazionalismo”, questa volta euro-atlantico.

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