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Fine di un’epoca, fine del “centro”

Veniamo da un lungo periodo – quasi 40 anni –, qui nell’Occidente euro-atlantico, in cui la dialettica sociale e politica è stata gestita con il “pilota automatico”, ben prima che quest’espressione fosse esplicitata da Mario Draghi.

Scomparsa l’alternativa possibile – il “socialismo reale”, per quanto poco attrattivo fosse diventato nella fase finale – era pacifico che l’assetto sociale fosse sagomato sulla centralità degli interessi dell’impresa e la dinamica politica, di conseguenza, affidata alla “convergenza al centro”, eliminando o disincentivando le ali estreme, a sinistra più che a destra, ma obbedendo allo stesso input strutturale.

Del resto, se “l’Europa” poteva essere costruita a forza di trattati vincolanti ma sottratti al voto popolare – gli esiti catastrofici dei referendum del 2005 sulla “Costituzione europea”, in Francia e Olanda, hanno sconsigliato di insistere – non c’era più motivo di esporre la direzione di marcia dei singoli paesi all’esito sempre incerto di elezioni politiche.

Era bastato lavorare sull’ideologia e sulle leggi elettorali (il “bipolarismo obbligato”, premiando le coalizioni e le alte soglie di sbarramento) e sul controllo ferreo dei media d’ogni genere, e il gioco era fatto.

L’”alternanza” tra due coalizioni obbligate a rispettare il “vincolo esterno”, e quindi sostanzialmente lo stesso programma di governo, sostituiva stabilmente “l’alternativa”, ossia la possibilità di sterzare o contrapporsi al dominio assoluto della triade impresa-Unione Europea-Nato. La punizione della Grecia di Siryza fu l’esempio rivendicato di come il potere e i suoi ordini non potevano essere messi in discussione.

Ognuno insomma poteva votare, ma per punire ex post questo o quel gruppo di esecutori di ordini altrui, non per scegliere una razionale rappresentanza politica dei propri interessi. Al massimo poteva “buttare il voto” su qualche lista senza speranze oppure astenersi (oltre la metà, di conseguenza, non vota più).

Idem sul piano sindacale, dove si poteva “scegliere” tra diversi sindacati “concertativi” sostanzialmente identici oppure dei sindacati conflittuali condannati dai media all’invisibilità.

Era lo “schema statunitense”, vigente praticamente da sempre, almeno a far data dal secondo dopoguerra: c’è un establishment bipartisan, che corrisponde in pieno alla centralità dell’impresa e si differenzia internamente, a seconda del ciclo economico, per la maggiore o minore importanza da dare alle esigenze di quelle piccole e medie, oppure di quelle grandi; ma sempre a rimorchio del grande capitale multinazionale, sia produttivo che finanziario.

Le classi popolari, per veder migliorare le condizioni di vita, dovevano e potevano soltanto sperare che le “proprie” aziende avessero successo e aumentassero i profitti al punto che qualche briciola sarebbe caduta dall’alto verso terra.

Di qui è nato l’undicesimo comandamento, ovvero il primo della politica: “si vince al centro”, ed è inutile provare a costruire un qualsiasi progetto alternativo. “Destra e sinistra” in quello schema si sovrappongono, a parte qualche dettaglio marginale. “Il centro”, esplicito o di fatto, domina.

Quel tipo di assetto aveva mostrato le prime crepe con un deciso smottamento a destra, personificato dalla prima – ma “contenuta” – presidenza Trump e dal crescere, sotterraneo ma costante, delle destre europee.

Questa fetida presenza giustificava, nel vecchio schema, l’esaltazione del liberal-liberismo come “spazio democratico virtuale” e unica àncora di salvezza contrapponibile alla canea reazionaria montante. Ancora di più, quindi, diventava necessario “andare al centro”, cancellare le spinte “a sinistra”, rinunciare a qualsiasi rivendicazione pur di “non far vincere la destra”.

Nessun sospetto, insomma, che l’emersione del “Mule” trumpiano fosse il sintomo di qualcosa di più profondo. Che lo sfarinarsi dell’egemonia statunitense fosse in realtà anche la crisi del “modello capitalistico” in auge dalla caduta del Muro.

Non è bastata neanche la più frontale delle sconfitte – il ritorno di Trump alla Casa Bianca e il dilagare, stavolta, della reazione “Maga” – a far cambiare registro.

Ma il protagonismo prepotente delle destre ha cancellato la mano di vernice “buonista” stesa sul dominio di classe e sulla centralità delle imprese e dell’imperialismo euro-atlantico, mettendo allo scoperto un verminaio di problemi che va dai salari al di sotto del livello della sopravvivenza alla spesa per il riarmo, collegando fisicamente la logica dello sfruttamento inumano alla pratica del genocidio, a Gaza e altrove.

La “passività delle masse”, così gelosamente conservata nel frigo dell’assenza di conflitto e dell’assenza di alternative, ha cominciato a scongelarsi.

Qui da noi l’abbiamo visto con gli scioperi generali del 22 settembre e del 3 ottobre, le oceaniche manifestazioni che li hanno accompagnati (immensa quella del 4/10). E altrove, in Europa, con le stesse caratteristiche, persino nella Germania dove l’antisionismo è di fatto diventato un reato.

Negli Usa, inutile ripetersi, l’esigenza di ricomporre un blocco sociale degli sfruttati e marginalizzati, ridefinire una visione del futuro sociale in grado di indirizzare la lotta anche al di là delle esigenze del momento, sfondare il tombino sotto cui era stata nascosta l’umanità che produce, ha addirittura rimesso al centro la parola maledetta: “socialismo”.

Perché davvero tertium non datur: o si esce da questa fase infernale rompendo il collare delle infinite subordinazioni, oppure ci si rassegna allo “sterminismo” (guerra nucleare, collasso ambientale e innumerevoli genocidi).

Siamo solo all’inizio. Inutile fissarsi sui singoli personaggi, cercando improbabili certezze e garanzie. Sono ancora tutti “sintomi” della fine di un’epoca – quanto meno del neoliberismo -, non la sintesi per una soluzione avanzata o arretrata.

La società si polarizza tra interessi sociali contrapposti, e la politica segue. Il “centro” evapora, per fortuna (Calenda docet..). C’è da cambiare tutto a partire da dove stiamo, ed è un compito immane. Ma inaggirabile. E’ l’ora di schierarsi e darsi da fare, non di storcere il naso e restarsene in disparte.

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